RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 24
“The Hateful Eight” di Quentin Tarantino
Sceneggiatura di: Quentin Tarantino
Fotografia: Robert Richardson
Montaggio: Fred Raskin
Con: Samuel L. Jackson, Kurt Russel, Jennifer Jason Leigh, Walton Goggins, Demian Bichir, Tim Roth, Michael Madsen, Bruce Dern, James Parks, Channing Tatum
Prodotto da: The Weinstein Company
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Tarantino ha fatto un altro film, il suo ottavo.
Otto, come l’infinito, come la rosa dei venti, i petali del loto, i sentieri della Via,
le beatitudini, le otto braccia, l’acca, la maglia di Iniesta;
come la palla da biliardo che se non la lasci per ultima ti ammazza,
come gli otto personaggi che popolano il suo nuovo film, “The hateful eight”,
un ottovolante di film,
un serpente a otto teste che gira e rigira e si avvita e capovolge e va avanti e torna indietro pur rimanendo statico, monolitico, immobile e privo d’azione apparente.
Un serpente.
Se ne parla da tempo, da anni, da quando qualche tempo fa qualcuno si è impossessato della sceneggiatura e la ha pubblicata on line.
E allora il film non si fa più.
Anzi no.
Si fa.
Si cambiano i finali e si cambiano gli attori.
E insomma alla fine il film si fa e nasce e cresce e vede la luce.
Il film è uscito.
E con clamore.
E se ne parla e se ne riparla.
E il settanata millimetri e il digitale,
e le presentazioni in pompa magna,
e Morricone che si dice esausto e quello e quell’altro.
Il film esce oggi in sala e voi tutti andrete a vederlo.
Un altro western, ancora una volta tanti grandi attori (otto).
Otto, come l’infinito, come la rosa dei venti, i petali del loto, i sentieri della Via,
le beatitudini, le otto braccia, l’acca, la maglia di Iniesta;
come la palla da biliardo che se non la lasci per ultima ti ammazza,
come gli otto personaggi che popolano il suo nuovo film, “The hateful eight”,
un ottovolante di film,
un serpente a otto teste che gira e rigira e si avvita e capovolge e va avanti e torna indietro pur rimanendo statico, monolitico, immobile e privo d’azione apparente.
Un serpente.
Se ne parla da tempo, da anni, da quando qualche tempo fa qualcuno si è impossessato della sceneggiatura e la ha pubblicata on line.
E allora il film non si fa più.
Anzi no.
Si fa.
Si cambiano i finali e si cambiano gli attori.
E insomma alla fine il film si fa e nasce e cresce e vede la luce.
Il film è uscito.
E con clamore.
E se ne parla e se ne riparla.
E il settanata millimetri e il digitale,
e le presentazioni in pompa magna,
e Morricone che si dice esausto e quello e quell’altro.
Il film esce oggi in sala e voi tutti andrete a vederlo.
Un altro western, ancora una volta tanti grandi attori (otto).
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Ma “The hateful eight” prima di essere un film è un gioco.
È un gioco bellissimo nel quale il regista si serve di tutti i suoi strumenti per inventare un gioco infinito, un gioco del mondo, magico e complesso, pur, ripeto, mantenendo delle sembianze umili, aride, “povere”, rimanendo fermo.
“The hateful eight” è un film western.
È un film giallo.
È un thriller.
È teatro filmato.
È un film demenziale.
È un film politico-sociale.
La regia è tecnica, capace, dimostrativa.
Il settanta millimetri è sfruttato al meglio sia nelle scene degli esterni con i campi lunghissimi sui paesaggi del Wyoming che poi Wyoming non è (il film è girato in Colorado), sia negli interni, dove la singola inquadratura si fa scena a più piani all’interno della quale succedono più cose, più azioni, nello stesso tempo, in quella contemporaneità destinata prima o dopo a spezzarsi e a morire.
È un gioco bellissimo nel quale il regista si serve di tutti i suoi strumenti per inventare un gioco infinito, un gioco del mondo, magico e complesso, pur, ripeto, mantenendo delle sembianze umili, aride, “povere”, rimanendo fermo.
“The hateful eight” è un film western.
È un film giallo.
È un thriller.
È teatro filmato.
È un film demenziale.
È un film politico-sociale.
La regia è tecnica, capace, dimostrativa.
Il settanta millimetri è sfruttato al meglio sia nelle scene degli esterni con i campi lunghissimi sui paesaggi del Wyoming che poi Wyoming non è (il film è girato in Colorado), sia negli interni, dove la singola inquadratura si fa scena a più piani all’interno della quale succedono più cose, più azioni, nello stesso tempo, in quella contemporaneità destinata prima o dopo a spezzarsi e a morire.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Teste che esplodono, pistole fiammanti, fiumi di parole, eroi dell’assurdo e ancora cavalli, inganni, marchingegni, il lontano west, i paesaggi infiniti e la voce di Tarantino che gioca col film, col cinema, con lo spettatore prendendolo per mano e portandolo nel suo film, nel suo cinema, avanti e indietro nel tempo, nello spazio e nella storia.
Il cinema di Tarantino è cinema allo stato puro, per una cosa su tutte:
lo spazio tempo, lo spazio e il tempo.
E anche in questo film l’attenzione allo spazio tempo si fa conclamata e evidente.
C’è la divisione in capitoli tanto cara a Tarantino.
C’è il suo giocare avanti e indietro nello sviluppo della storia utile a seminare indizi e tranelli, a ingrassare e rendere avvincente una narrazione per sua natura doverosamente debole.
C’è un utilizzo attento dello spazio filmico che il settanta millimetri celebra e trionfa.
Ci sono i campi lunghissimi sugli spazi innevati e infiniti.
Ci sono i primissimi piani.
Ci sono i dettagli.
Ci sono i dettagli apparentemente privi di significato salvo poi diventare prove, indizi, cardini sui quali il film gira e si annoda.
Ci sono due ore di film girati solo in un’unica location,
dove i piani di una stessa inquadratura si intrecciano e si sovrappongono grazie a un uso magistrale dei fuochi e quindi della macchina da presa stessa.
Il cinema di Tarantino è cinema allo stato puro, per una cosa su tutte:
lo spazio tempo, lo spazio e il tempo.
E anche in questo film l’attenzione allo spazio tempo si fa conclamata e evidente.
C’è la divisione in capitoli tanto cara a Tarantino.
C’è il suo giocare avanti e indietro nello sviluppo della storia utile a seminare indizi e tranelli, a ingrassare e rendere avvincente una narrazione per sua natura doverosamente debole.
C’è un utilizzo attento dello spazio filmico che il settanta millimetri celebra e trionfa.
Ci sono i campi lunghissimi sugli spazi innevati e infiniti.
Ci sono i primissimi piani.
Ci sono i dettagli.
Ci sono i dettagli apparentemente privi di significato salvo poi diventare prove, indizi, cardini sui quali il film gira e si annoda.
Ci sono due ore di film girati solo in un’unica location,
dove i piani di una stessa inquadratura si intrecciano e si sovrappongono grazie a un uso magistrale dei fuochi e quindi della macchina da presa stessa.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
La macchina da presa che si fa matita e pennello, Tarantino pittore.
Maestro.
“The hateful eight” è un sacco di cose, come già detto,
ma è prima di tutto, come tutti i film di Tarantino,
un film sull’idiozia dell’uomo,
sull’imbecillità dell’umano,
sull’assurdità della vita e sulla pochezza di tutte le stupide parole con le quali siamo soliti passare il nostro tempo riempiendoci la testa e le orecchie di ragionamenti inutili che si inseguono e ci inseguono mentre viviamo e pensiamo e poniamo la nostra attenzione sulle cose che sotto gli occhi ci scorrono mentre noi scorriamo con loro.
A caso.
Senza pensare.
Senza guardare.
Senza regia.
“The hateful eight” è un film fortemente teatrale.
È un film statico ma che corre sul posto.
È un western ma anche un giallo e anche un thriller.
È un film politico.
È un film che parla di razzismo.
È un gioco prima che un film e come tutte le opere di Tarantino è un gran bel gioco,
con il quale l’autore si diverte e ci intrattiene e con il quale ci chiede di giocare, ci impone di giocare.
“…Gioca con me…”e lui si diverte e io mi diverto a giocare con lui e col suo film, proprio perché non si prende la briga di invitarmi chiedendomi “…Vuoi giocare con me…?”
ma bensì imponendomi il suo gioco e con questo le sue regole.
Maestro.
“The hateful eight” è un sacco di cose, come già detto,
ma è prima di tutto, come tutti i film di Tarantino,
un film sull’idiozia dell’uomo,
sull’imbecillità dell’umano,
sull’assurdità della vita e sulla pochezza di tutte le stupide parole con le quali siamo soliti passare il nostro tempo riempiendoci la testa e le orecchie di ragionamenti inutili che si inseguono e ci inseguono mentre viviamo e pensiamo e poniamo la nostra attenzione sulle cose che sotto gli occhi ci scorrono mentre noi scorriamo con loro.
A caso.
Senza pensare.
Senza guardare.
Senza regia.
“The hateful eight” è un film fortemente teatrale.
È un film statico ma che corre sul posto.
È un western ma anche un giallo e anche un thriller.
È un film politico.
È un film che parla di razzismo.
È un gioco prima che un film e come tutte le opere di Tarantino è un gran bel gioco,
con il quale l’autore si diverte e ci intrattiene e con il quale ci chiede di giocare, ci impone di giocare.
“…Gioca con me…”e lui si diverte e io mi diverto a giocare con lui e col suo film, proprio perché non si prende la briga di invitarmi chiedendomi “…Vuoi giocare con me…?”
ma bensì imponendomi il suo gioco e con questo le sue regole.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
La trama in due righe:
Qualche anno dopo la guerra di secessione.
Una diligenza corre nei paesaggi sconfinati del bianco Wyoming.
Il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) sono diretti verso la città di Red Rock dove la donna verrà consegnata alla giustizia per essere impiccata mentre lui, John Ruth, sarà ricompensato con diecimila verdoni.
Lungo la strada alla diligenza si uniscono Marquis Warren (Samuel L. Jackson), anche lui cacciatore di taglie ed ex soldato nordista e Chris Mannix (Walton Goggins) in cammino verso Red Rock per diventarne lo sceriffo.
A causa del maltempo la diligenza è costretta a rifugiarsi presso la merceria di Minnie, un rifugio in mezzo al niente nel quale vengono accolti non dalla stessa Minnie ma bensì da quattro sconosciuti:
il cowboy Joe Gage (Michael Madsen),
il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth),
il generale Sanford Smithrers (Bruce Dern).
Ecco i nostri otto personaggi, ecco il film.
Prendi otto personaggi, mettili in una stanza e vediamo cosa succede.
Ecco il film ed ecco il gioco dunque.
La drammaturgia diventa una partita di scacchi,
un gioco dell’oca,
il gioco del mondo e “Indovina chi”.
Il cinema un gioco delle parti. Come la vita e come la morte che poi sono la stessa cosa e uno parte dell’altra.
Non racconto nient’altro perché non ho intenzione di spifferare alcunché e perché non serve poi a molto.
Questo è il meccanismo del film.
Questa è l’idea forte che sta dietro la costruzione della pellicola:
prendi otto personaggi balordi e fortemente caratterizzati,
prendi otto maschere, infilali in un’unica stanza e stiamo a vedere che diavolo succede e lo strano effetto che fa.
L’idea mi piace, molto, moltissimo.
Il film colossale dell’industria Holliwoodiana che diventa cinema da camera, contenitore, situazione, gioco di ruolo, teatro.
E quella stanza, quella scatola che a sua volta diventa contenitore di altri film all’interno del film stesso.
Sì perché il film gira e scarta di lato.
Non ci si accontenta di infilare otto balordi in una stanza e di vedere che cosa succede ma si gioca con i generi, con la letteratura e il cinema stesso.
Qualche anno dopo la guerra di secessione.
Una diligenza corre nei paesaggi sconfinati del bianco Wyoming.
Il cacciatore di taglie John Ruth (Kurt Russell) e la sua prigioniera Daisy Domergue (Jennifer Jason Leigh) sono diretti verso la città di Red Rock dove la donna verrà consegnata alla giustizia per essere impiccata mentre lui, John Ruth, sarà ricompensato con diecimila verdoni.
Lungo la strada alla diligenza si uniscono Marquis Warren (Samuel L. Jackson), anche lui cacciatore di taglie ed ex soldato nordista e Chris Mannix (Walton Goggins) in cammino verso Red Rock per diventarne lo sceriffo.
A causa del maltempo la diligenza è costretta a rifugiarsi presso la merceria di Minnie, un rifugio in mezzo al niente nel quale vengono accolti non dalla stessa Minnie ma bensì da quattro sconosciuti:
il cowboy Joe Gage (Michael Madsen),
il boia Oswaldo Mobray (Tim Roth),
il generale Sanford Smithrers (Bruce Dern).
Ecco i nostri otto personaggi, ecco il film.
Prendi otto personaggi, mettili in una stanza e vediamo cosa succede.
Ecco il film ed ecco il gioco dunque.
La drammaturgia diventa una partita di scacchi,
un gioco dell’oca,
il gioco del mondo e “Indovina chi”.
Il cinema un gioco delle parti. Come la vita e come la morte che poi sono la stessa cosa e uno parte dell’altra.
Non racconto nient’altro perché non ho intenzione di spifferare alcunché e perché non serve poi a molto.
Questo è il meccanismo del film.
Questa è l’idea forte che sta dietro la costruzione della pellicola:
prendi otto personaggi balordi e fortemente caratterizzati,
prendi otto maschere, infilali in un’unica stanza e stiamo a vedere che diavolo succede e lo strano effetto che fa.
L’idea mi piace, molto, moltissimo.
Il film colossale dell’industria Holliwoodiana che diventa cinema da camera, contenitore, situazione, gioco di ruolo, teatro.
E quella stanza, quella scatola che a sua volta diventa contenitore di altri film all’interno del film stesso.
Sì perché il film gira e scarta di lato.
Non ci si accontenta di infilare otto balordi in una stanza e di vedere che cosa succede ma si gioca con i generi, con la letteratura e il cinema stesso.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
E allora succedono cose apparentemente inutili e prive di senso che innescano traiettorie nuove e direttrici altre verso le quali il film sembra dipanarsi per poi tornare su se stesso e sparire ancora un’altra volta per vie e calli sconosciuti.
Tarantino stesso si mette in discussione e alla prova, in una parola: in scena.
È sua la voce fuori campo che a un certo punto prende il film per le corna e lo contorce e lo snoda a suo piacimento, riavvolgendo tre chilometri di pregiatissima pellicola settanta millimetri e mostrando nuovamente parti del film già viste ma da altri punti di vista, con altri occhi, i suoi, altre inquadrature, punti macchina, altre lenti, altri fuochi e dettagli.
E il film gira e cambia pelle e diventa un serpente a sonagli, un gioco, un’enigma, un percorso, un mondo a se stante che può piacere e eccitare, può annoiare e far discutere ma poi chi se ne frega.
È il cinema che si fa gioco perché adesso oggetto nelle mani di un maestro del palleggio, di un master senza scrupoli, di un giocoliere nell’aria di rigore rubato al circo, alla magia, alle tribù di funamboli e allo slalom speciale.
E questo è importante, importantissimo e questo è bello, bellissimo.
L’arte deve essere prima di tutto gioco e gioco di prestigio.
Deve sorprendere e spiazzare,
deve essere la rappresentazione dell’elasticità dell’intelletto e della poesia del dettaglio,
dell’abilità poetica e della poesia disabilitata,
dei pensieri dilatati,
delle parole disabitate,
dell’imprevisto,
del non visto,
del impensabile e del non pensato,
delle architetture fantastiche che si sbriciolano al soffio di un alito pesante,
delle piramidi al contrario e dei grattacieli sotto il mare,
del non detto,
del non sentito,
dell’abbandono,
dell’imponderabile,
dell’impossibile,
dell’impenetrabile e del non.
Deve essere performance atletica e trionfo,
estasi,
droga e sonnambulismo,
muscoli che si tendono e si strappano,
tensione all’infinito
salto nel vuoto,
volo impercettibile,
bracciata d’altri tempi,
scheggia impazzita,
mondi senza confine
e colpi d’ala e di reni e spallate radenti,
un gancio destro sotto il mento di chi guarda e poi subito dopo una carezza e un bacio con la lingua,
una molla e una freccia nella faretra dell’autore che a seconda degli strumenti dei quali si è fornito possa giocare al meglio a questo gioco che ha da essere l’arte stessa, sempre più sfida estrema, disciplina dell’azzardo, singolar tenzone, olimpiade della mente e della vita.
Tarantino stesso si mette in discussione e alla prova, in una parola: in scena.
È sua la voce fuori campo che a un certo punto prende il film per le corna e lo contorce e lo snoda a suo piacimento, riavvolgendo tre chilometri di pregiatissima pellicola settanta millimetri e mostrando nuovamente parti del film già viste ma da altri punti di vista, con altri occhi, i suoi, altre inquadrature, punti macchina, altre lenti, altri fuochi e dettagli.
E il film gira e cambia pelle e diventa un serpente a sonagli, un gioco, un’enigma, un percorso, un mondo a se stante che può piacere e eccitare, può annoiare e far discutere ma poi chi se ne frega.
È il cinema che si fa gioco perché adesso oggetto nelle mani di un maestro del palleggio, di un master senza scrupoli, di un giocoliere nell’aria di rigore rubato al circo, alla magia, alle tribù di funamboli e allo slalom speciale.
E questo è importante, importantissimo e questo è bello, bellissimo.
L’arte deve essere prima di tutto gioco e gioco di prestigio.
Deve sorprendere e spiazzare,
deve essere la rappresentazione dell’elasticità dell’intelletto e della poesia del dettaglio,
dell’abilità poetica e della poesia disabilitata,
dei pensieri dilatati,
delle parole disabitate,
dell’imprevisto,
del non visto,
del impensabile e del non pensato,
delle architetture fantastiche che si sbriciolano al soffio di un alito pesante,
delle piramidi al contrario e dei grattacieli sotto il mare,
del non detto,
del non sentito,
dell’abbandono,
dell’imponderabile,
dell’impossibile,
dell’impenetrabile e del non.
Deve essere performance atletica e trionfo,
estasi,
droga e sonnambulismo,
muscoli che si tendono e si strappano,
tensione all’infinito
salto nel vuoto,
volo impercettibile,
bracciata d’altri tempi,
scheggia impazzita,
mondi senza confine
e colpi d’ala e di reni e spallate radenti,
un gancio destro sotto il mento di chi guarda e poi subito dopo una carezza e un bacio con la lingua,
una molla e una freccia nella faretra dell’autore che a seconda degli strumenti dei quali si è fornito possa giocare al meglio a questo gioco che ha da essere l’arte stessa, sempre più sfida estrema, disciplina dell’azzardo, singolar tenzone, olimpiade della mente e della vita.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
E in questo Tarantino conferma di essere atleta olimpico, maestro e giocatore, allenatore, commissario tecnico e artista della fune.
Troppo facile fare il compitino,
smistare palloni a centrocampo come un grigio otto d’altri tempi,
tenere il palleggio uccidendo per noia e sfinimento.
Abbiamo bisogno dei salti mortali e dei tuffi carpiati.
Noi scaliamo le montagne, arriviamo in vetta e scendiamo in picchiata bendati e a trecento all’ora.
In un mondo che permette a tutti di salire fino in cima e poi discendere legato e in sicurezza noi abbiamo l’obbligo di scalare il K2 a piedi nudi e ridiscenderlo a occhi chiusi e senza mani:
è l’idea che diventa imperatrice e regina sovrana e non la tecnica serva del mezzo e del progresso.
È la capacità di costruire mondi, di giocare con il niente, di edificare ponti infiniti e collegare continenti che fa la differenza.
Sono tutti bravi a nuotare, sanno tutti volare ma pochi nuotano nell’aria e volano sott’acqua.
Gli attori sono bravi, sono bravissimi davanti ai soliti infiniti dialoghi “tarantiniani” all’interno dei quali non è semplice orientarsi,
viaggiando nel buio profondo della notte del senso,
sul filo sottile dell’assurdità della vita che Tarantino dipinge,
nella rappresentazione dell’idiozia di noi comuni mortali,
nella messa in scena di questo eroe uomo idiota filosoficamente ponderato.
Non è semplice vestire i panni dei personaggi di Tarantino,
di quei piccoli idioti filosofi o filosofi idioti poco importa che poi tanto è uguale.
Troppo facile fare il compitino,
smistare palloni a centrocampo come un grigio otto d’altri tempi,
tenere il palleggio uccidendo per noia e sfinimento.
Abbiamo bisogno dei salti mortali e dei tuffi carpiati.
Noi scaliamo le montagne, arriviamo in vetta e scendiamo in picchiata bendati e a trecento all’ora.
In un mondo che permette a tutti di salire fino in cima e poi discendere legato e in sicurezza noi abbiamo l’obbligo di scalare il K2 a piedi nudi e ridiscenderlo a occhi chiusi e senza mani:
è l’idea che diventa imperatrice e regina sovrana e non la tecnica serva del mezzo e del progresso.
È la capacità di costruire mondi, di giocare con il niente, di edificare ponti infiniti e collegare continenti che fa la differenza.
Sono tutti bravi a nuotare, sanno tutti volare ma pochi nuotano nell’aria e volano sott’acqua.
Gli attori sono bravi, sono bravissimi davanti ai soliti infiniti dialoghi “tarantiniani” all’interno dei quali non è semplice orientarsi,
viaggiando nel buio profondo della notte del senso,
sul filo sottile dell’assurdità della vita che Tarantino dipinge,
nella rappresentazione dell’idiozia di noi comuni mortali,
nella messa in scena di questo eroe uomo idiota filosoficamente ponderato.
Non è semplice vestire i panni dei personaggi di Tarantino,
di quei piccoli idioti filosofi o filosofi idioti poco importa che poi tanto è uguale.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
C’è qualcosa però che non mi ha convinto.
Tim Roth nei panni del boia di Red Rock Oswaldo Mobray è eccezionale.
È liquido, snodabile, sarcastico, freddo, lucido, un tutt’uno col suo personaggio.
Ma c’è un problema:
è Tim Roth che fa Christoph Waltz che fa il colonnello Hans Landa (“Inglorious Bastard”, Tarantino 2009) che fa il Dottor King Schultz (“Django Unchained” Tarantino 2012) che fa Tim Roth che fa Oswaldo Mobray.
In due parole: Tim Roth fa Christoph Waltz.
Perché?
È una cosa incomprensibile e fastidiosa che evidentemente è stata richiesta dal regista ma che mette in secondo piano e in cattiva luce la prestazione dell’attore.
Peccato.
Poi:
Il finale è povero e non sembra funzionare, non risplende né “taglia lo capo a tondo”, sembra bensì figlio, come detto in precedenza, di una seconda scelta a causa delle fughe di notizie sulla trama del film.
Le seconde scelte a volte funzionano meglio delle prime perché figlie del tentativo e dell’errore, altre volte son figlie di un dio minore e dunque prive di forza, freschezza, dell’esuberanza perché nipoti del cervello, sorelle del raziocinio, nuore della scienza e cognate del paradigma.
Stop.
Samuel L. Jackson parla un americano veramente stretto ed è molto invecchiato.
Nel film non ci sono fighe.
La voce di Tarantino è orrenda.
L’audio del film è meraviglioso:
abbandonandosi allo scorrere della pellicola ci ritroviamo d’un tratto con gli speroni ai piedi e il tamburo della pistola che gira senza sosta tra le mani prima di sparare e uccidere e morire.
Siamo dentro il film, con loro, tra loro e uno di loro, altro che 3d.
Morricone firma la musica del film e dichiara che non ha alcuna intenzione di lavorare ancora in futuro con Tarantino che è bravo ma anche un pazzo criminale.
Peccato.
La fotografia è supersonica:
sono caldi e gialli gli interni del rifugio e bianchi e freddi gli esterni del Wyoming innevato, proprio come devono essere e come sono nell’immaginario di chi guarda.
Freddo Vs caldo, blu Vs rosso. Un classico.
Ogni singola inquadratura potrebbe essere una scena e un’unità di spazio tempo autonoma e a se stante, dotata di significato e tensione drammatica.
Come in tanti film di Federico Fellini nella singola inquadratura ci sono più piani d’azione.
È così che il film si snoda nella contemporaneità,
come se durante lo svolgersi della pellicola non si perdesse mai di vista che in quella stessa unità di tempo e di spazio il film scorre e come se scorre,
e corre e rincorre e accade;
mentre in primo piano assistiamo a un dialogo, in secondo e terzo e quarto piano succedono cose che noi vediamo, percepiamo e che dopo andiamo a ritrovare, riacciuffare, riprendere e capire.
Sono molteplici i segni e i significati che nell’azione si dipanano e lo sono e lo fanno contemporaneamente, santificando l’unità spazio tempo per poi distruggerla e farla a pezzi con l’irruzione in prima persona del regista stesso che entra in scivolata nel mezzo del film, falciandoci in area di rigore per poi prenderci per mano e riportaci indietro di quaranta minuti, impossessandosi dei nostri occhi schiavi ammaestrati e direzionandoli dove lui vuole, lì dove il suo film vuol far girare, un serpente impazzito e con otto teste,
che dribbla, salta e ancora si tuffa, si avvita, striscia all’indietro e scarta di lato.
Tim Roth nei panni del boia di Red Rock Oswaldo Mobray è eccezionale.
È liquido, snodabile, sarcastico, freddo, lucido, un tutt’uno col suo personaggio.
Ma c’è un problema:
è Tim Roth che fa Christoph Waltz che fa il colonnello Hans Landa (“Inglorious Bastard”, Tarantino 2009) che fa il Dottor King Schultz (“Django Unchained” Tarantino 2012) che fa Tim Roth che fa Oswaldo Mobray.
In due parole: Tim Roth fa Christoph Waltz.
Perché?
È una cosa incomprensibile e fastidiosa che evidentemente è stata richiesta dal regista ma che mette in secondo piano e in cattiva luce la prestazione dell’attore.
Peccato.
Poi:
Il finale è povero e non sembra funzionare, non risplende né “taglia lo capo a tondo”, sembra bensì figlio, come detto in precedenza, di una seconda scelta a causa delle fughe di notizie sulla trama del film.
Le seconde scelte a volte funzionano meglio delle prime perché figlie del tentativo e dell’errore, altre volte son figlie di un dio minore e dunque prive di forza, freschezza, dell’esuberanza perché nipoti del cervello, sorelle del raziocinio, nuore della scienza e cognate del paradigma.
Stop.
Samuel L. Jackson parla un americano veramente stretto ed è molto invecchiato.
Nel film non ci sono fighe.
La voce di Tarantino è orrenda.
L’audio del film è meraviglioso:
abbandonandosi allo scorrere della pellicola ci ritroviamo d’un tratto con gli speroni ai piedi e il tamburo della pistola che gira senza sosta tra le mani prima di sparare e uccidere e morire.
Siamo dentro il film, con loro, tra loro e uno di loro, altro che 3d.
Morricone firma la musica del film e dichiara che non ha alcuna intenzione di lavorare ancora in futuro con Tarantino che è bravo ma anche un pazzo criminale.
Peccato.
La fotografia è supersonica:
sono caldi e gialli gli interni del rifugio e bianchi e freddi gli esterni del Wyoming innevato, proprio come devono essere e come sono nell’immaginario di chi guarda.
Freddo Vs caldo, blu Vs rosso. Un classico.
Ogni singola inquadratura potrebbe essere una scena e un’unità di spazio tempo autonoma e a se stante, dotata di significato e tensione drammatica.
Come in tanti film di Federico Fellini nella singola inquadratura ci sono più piani d’azione.
È così che il film si snoda nella contemporaneità,
come se durante lo svolgersi della pellicola non si perdesse mai di vista che in quella stessa unità di tempo e di spazio il film scorre e come se scorre,
e corre e rincorre e accade;
mentre in primo piano assistiamo a un dialogo, in secondo e terzo e quarto piano succedono cose che noi vediamo, percepiamo e che dopo andiamo a ritrovare, riacciuffare, riprendere e capire.
Sono molteplici i segni e i significati che nell’azione si dipanano e lo sono e lo fanno contemporaneamente, santificando l’unità spazio tempo per poi distruggerla e farla a pezzi con l’irruzione in prima persona del regista stesso che entra in scivolata nel mezzo del film, falciandoci in area di rigore per poi prenderci per mano e riportaci indietro di quaranta minuti, impossessandosi dei nostri occhi schiavi ammaestrati e direzionandoli dove lui vuole, lì dove il suo film vuol far girare, un serpente impazzito e con otto teste,
che dribbla, salta e ancora si tuffa, si avvita, striscia all’indietro e scarta di lato.
Veniamo alle pagelle:
quattro stellette
quattro pallette
È un sette e mezzo per il vecchio Tarantino
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
quattro stellette
quattro pallette
È un sette e mezzo per il vecchio Tarantino
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 23
“Carol” di Todd Haynes
Sceneggiatura di: Phyllis Nagy
Fotografia: Edward Lachman
Montaggio: Alfonso Goncalves
Con: Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson, Kyle Chandler, Jake Lacy
Prodotto da: Productions, Killer Films
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Siamo di nuovo in odore di Oscar.
Piovono Oscar.
Piovono statuette dorate su quella maschera d’avorio che abita il volto di Cate Blanchett protagonista di “Carol” l’ultimo film di Todd Haynes.
E lei non si scansa e il volto non sanguina,
gli Oscar rimbalzano e cadono giù.
Un’altra prestazione eccezionale di Cate Blanchett che inventa una muscolarità (rigida) e una mimica facciale (assente) nuova e tutta sua per l’ultimo personaggio che è chiamata a interpretare,
Carol,
tanto da strapparsi i capelli per l’inventiva,
per l’acume,
per la sua scaltrezza nel declinare nell’impassibilità di un volto,
nell’assenza apparente di emozioni che lo attraversano,
tutto il dolore accumulato nel profondo di un’anima che non sembra potere esplodere mai ma che accumula,
erutta e dirompe d’amore e di vita:
il non manifestarsi di tale dolore tra le piaghe del volto e nel bagliore dei suoi gelidi occhi rende il personaggio,
il film stesso,
immenso e profondo,
sublime,
come quello stesso dolore granitico che esiste e si palesa nel suo non essere,
nel non apparire,
nel celato,
nel non mostrarsi mai.
Quello di Carol è un dolore fuori campo,
che è ed esiste
e urla
e s’impone ancor prima di essere visto,
ancor prima di esser presunto,
evocato,
accennato;
e questa è la forma più alta della messa in scena,
questo è il sublime,
questa è l’arte della recitazione,
questo è il cinema.
Piovono Oscar.
Piovono statuette dorate su quella maschera d’avorio che abita il volto di Cate Blanchett protagonista di “Carol” l’ultimo film di Todd Haynes.
E lei non si scansa e il volto non sanguina,
gli Oscar rimbalzano e cadono giù.
Un’altra prestazione eccezionale di Cate Blanchett che inventa una muscolarità (rigida) e una mimica facciale (assente) nuova e tutta sua per l’ultimo personaggio che è chiamata a interpretare,
Carol,
tanto da strapparsi i capelli per l’inventiva,
per l’acume,
per la sua scaltrezza nel declinare nell’impassibilità di un volto,
nell’assenza apparente di emozioni che lo attraversano,
tutto il dolore accumulato nel profondo di un’anima che non sembra potere esplodere mai ma che accumula,
erutta e dirompe d’amore e di vita:
il non manifestarsi di tale dolore tra le piaghe del volto e nel bagliore dei suoi gelidi occhi rende il personaggio,
il film stesso,
immenso e profondo,
sublime,
come quello stesso dolore granitico che esiste e si palesa nel suo non essere,
nel non apparire,
nel celato,
nel non mostrarsi mai.
Quello di Carol è un dolore fuori campo,
che è ed esiste
e urla
e s’impone ancor prima di essere visto,
ancor prima di esser presunto,
evocato,
accennato;
e questa è la forma più alta della messa in scena,
questo è il sublime,
questa è l’arte della recitazione,
questo è il cinema.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Non sono un amante dei film in costume e cerco sempre di evitarli.
Penso sempre che siano un po’dei film “da donne”,
che detto così non vuol dire niente e infatti non vuole dire proprio niente;
ma quando parlo di film “da donne” penso a quei film che riscuotono tanto successo tra le signore di una certa età allo spettacolo delle tre la domenica pomeriggio,
il rossetto e il cioccolato,
il teino con le amiche,
una fotografia meravigliosa,
mentre i figli e i mariti si rotolano nei divani attaccando gli spazi,
divorando fuori gioco, calci d’angolo e contropiedi.
Ecco,
avevo paura che “Carol” fosse un po’ “un film da donne” e in un certo senso lo è.
Anche.
E’ anche un film da donne.
Ma Carol in realtà è un sacco di cose.
Sì, perché l’ultimo lavoro di Todd Haines è un film potentissimo,
totipotente e poliglotta,
maschio, femmina e ermafrodito.
E’ un film che parla di donne.
E’ un film drammatico.
E’ un road movie.
E’ un film politico.
E’ un film “queer”.
E’ un film in costume.
“Carol” è un film per le donne e non “da donne”.
“Carol” è un film girato da un uomo che dimostra una grandissima sensibilità e una tenera attenzione verso l’universo femminile.
“Carol” è un film importante.
Siamo in America negli anni ’50.
Penso sempre che siano un po’dei film “da donne”,
che detto così non vuol dire niente e infatti non vuole dire proprio niente;
ma quando parlo di film “da donne” penso a quei film che riscuotono tanto successo tra le signore di una certa età allo spettacolo delle tre la domenica pomeriggio,
il rossetto e il cioccolato,
il teino con le amiche,
una fotografia meravigliosa,
mentre i figli e i mariti si rotolano nei divani attaccando gli spazi,
divorando fuori gioco, calci d’angolo e contropiedi.
Ecco,
avevo paura che “Carol” fosse un po’ “un film da donne” e in un certo senso lo è.
Anche.
E’ anche un film da donne.
Ma Carol in realtà è un sacco di cose.
Sì, perché l’ultimo lavoro di Todd Haines è un film potentissimo,
totipotente e poliglotta,
maschio, femmina e ermafrodito.
E’ un film che parla di donne.
E’ un film drammatico.
E’ un road movie.
E’ un film politico.
E’ un film “queer”.
E’ un film in costume.
“Carol” è un film per le donne e non “da donne”.
“Carol” è un film girato da un uomo che dimostra una grandissima sensibilità e una tenera attenzione verso l’universo femminile.
“Carol” è un film importante.
Siamo in America negli anni ’50.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Ci sono due donne: Carol (Cate Blanchett) è una ricca signora sposata,
Therese (Rooney Mara), una giovane aspirante fotografa che lavora nel reparto giocattoli di un grande magazzino di New York.
Le loro vite si incontrano,
si osservano,
si sfiorano,
bruciano ed è amore.
Un amore rischioso e da tenere nascosto,
minato dalla morale puritana che imperversava ieri come oggi,
quella stessa che ancora oggi impedisce di essere liberi,
di camminare al contrario,
di nuotare nell’aria,
di mettersi i calzini alle orecchie,
i guanti nei piedi,
di far l’amore con una, due, trecento anime asessuate, maschie, femmine, bisessuali e castrate
e di amare cosa ci pare,
chi ci piace, chi ci ama e chi ci detesta a iniziar da noi stessi;
quella stessa morale che nega l’individuo e impedisce l’amore.
La vita.
Carol è moglie e madre,
il marito (Kyle Chandler), un uomo ferito,
innamorato del suo orgoglio piuttosto che della sua ormai prossima ex moglie,
è un uomo attanagliato dalla frustrazione e dalla cattiveria,
pronto a negare a una figlia la madre per un oltraggio subito,
per un orgoglio ferito,
dal non essere riuscito a far funzionare un matrimonio,
dal non essere più l’oggetto del desiderio di sua moglie mai stata amica, compagna,
che a lui preferisce qualcun altro,
qualcun altra,
una donna,
un’altra donna,
con la quale potersi finalmente confrontare,
esprimere,
amare.
“Carol” è un film poliglotta e totipotente:
un film drammatico e un road movie,
un film che parla dell’amore,
dell’amore tra due donne,
di omosessualità,
di lesbiche,
tematica ancora poco toccata dal cinema e dalla letteratura soprattutto se messa a confronto con la tematica dell’omosessualità maschile.
Altri film che parlano dell’amore tra due donne?
Pochissimi.
Non me ne viene in mente manco uno ora mentre scrivo.
Chissà perchè?
E’ grave.
Non sono un cinefilo,
sono un regista fallito e un alpinista mancato.
Forse per questo.
Forse anche perché è facile dire, raccontare,
ma non mettere in scena la seduzione,
la sottigliezza,
i silenzi,
gli sguardi e soprattutto ciò che dietro questi risiede,
i dettagli impercettibili che abitano l’animo della donna ancor prima di quello dell’uomo più dedito alla caccia, alla mostra e misura della sua virilità.
L’arte della seduzione è femmina,
il dettaglio è femmina,
l’accennare è femmineo,
tutte cose che non si manifestano palesandosi bensì lasciandosi intuire,
dunque più difficili da mettersi in scena.
Therese (Rooney Mara), una giovane aspirante fotografa che lavora nel reparto giocattoli di un grande magazzino di New York.
Le loro vite si incontrano,
si osservano,
si sfiorano,
bruciano ed è amore.
Un amore rischioso e da tenere nascosto,
minato dalla morale puritana che imperversava ieri come oggi,
quella stessa che ancora oggi impedisce di essere liberi,
di camminare al contrario,
di nuotare nell’aria,
di mettersi i calzini alle orecchie,
i guanti nei piedi,
di far l’amore con una, due, trecento anime asessuate, maschie, femmine, bisessuali e castrate
e di amare cosa ci pare,
chi ci piace, chi ci ama e chi ci detesta a iniziar da noi stessi;
quella stessa morale che nega l’individuo e impedisce l’amore.
La vita.
Carol è moglie e madre,
il marito (Kyle Chandler), un uomo ferito,
innamorato del suo orgoglio piuttosto che della sua ormai prossima ex moglie,
è un uomo attanagliato dalla frustrazione e dalla cattiveria,
pronto a negare a una figlia la madre per un oltraggio subito,
per un orgoglio ferito,
dal non essere riuscito a far funzionare un matrimonio,
dal non essere più l’oggetto del desiderio di sua moglie mai stata amica, compagna,
che a lui preferisce qualcun altro,
qualcun altra,
una donna,
un’altra donna,
con la quale potersi finalmente confrontare,
esprimere,
amare.
“Carol” è un film poliglotta e totipotente:
un film drammatico e un road movie,
un film che parla dell’amore,
dell’amore tra due donne,
di omosessualità,
di lesbiche,
tematica ancora poco toccata dal cinema e dalla letteratura soprattutto se messa a confronto con la tematica dell’omosessualità maschile.
Altri film che parlano dell’amore tra due donne?
Pochissimi.
Non me ne viene in mente manco uno ora mentre scrivo.
Chissà perchè?
E’ grave.
Non sono un cinefilo,
sono un regista fallito e un alpinista mancato.
Forse per questo.
Forse anche perché è facile dire, raccontare,
ma non mettere in scena la seduzione,
la sottigliezza,
i silenzi,
gli sguardi e soprattutto ciò che dietro questi risiede,
i dettagli impercettibili che abitano l’animo della donna ancor prima di quello dell’uomo più dedito alla caccia, alla mostra e misura della sua virilità.
L’arte della seduzione è femmina,
il dettaglio è femmina,
l’accennare è femmineo,
tutte cose che non si manifestano palesandosi bensì lasciandosi intuire,
dunque più difficili da mettersi in scena.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Eccone uno:
“La vita di Adele” (Abdellatiff Kechiche, 2013),
che ho trovato personalmente un capolavoro assoluto,
un film rivoluzionario da tutti i punti di vista,
politico, cinematografico, letterario;
proprio come “Carol” ma per motivi opposti:
“La vita di Adele” sfonda,
spacca letteralmente gli argini della rappresentabilità
e invece di accennare,
lavorare sulle atmosfere,
sugli sguardi,
sulle sensazioni,
i presentimenti,
l’intuizione,
insomma invece di essere impercettibile,
raffinato,
stratificato sotto ciò che nasconde il velo di Maya dell’apparenza,
il volto statuario e granitico di Carol,
mostra sessi e seni e fianchi e bocche che si incontrano e strusciano e godono e vivono.
In tre parole:
mentre in “Carol” si evoca,
si tratteggia e si accenna,
ne “La vita di Adele” si dirompe,
si riempie e si supera,
si lancia dritto negli occhi dello spettatore passivo quel che si vuole raccontare e lo si fa riempendogli le pupille e massacrandogli la morale e il pudore.
Ma il risultato è lo stesso,
non cambia,
è unico e il solo auspicabile:
il sublime.
Il problema è solo per coloro che rimangono inebetiti a metà strada tra chi sfiora e chi mangia.
“Carol” nel suo genere è un film quasi perfetto e questo “quasi” non sta a significare niente se non il suo essere un’opera costruita in modo magnifico dunque per definizione “non perfetta”(= non finita)
ma bensì liquida,
mutevole e aperta a lasciarsi guardare nell’infinità di segni che cosparge nell’aria.
La drammaturgia del film è tecnica e precisa:
la storia si racconta accennando,
si fa leva su le capacità tecniche (enormi) degli attori e di chi li ha diretti,
di lasciar trasparire,
di lasciar intendere indicando,
evitando in questo modo di dire e spiegare.
Tutto accade e si manifesta in modo spontaneo.
“La vita di Adele” (Abdellatiff Kechiche, 2013),
che ho trovato personalmente un capolavoro assoluto,
un film rivoluzionario da tutti i punti di vista,
politico, cinematografico, letterario;
proprio come “Carol” ma per motivi opposti:
“La vita di Adele” sfonda,
spacca letteralmente gli argini della rappresentabilità
e invece di accennare,
lavorare sulle atmosfere,
sugli sguardi,
sulle sensazioni,
i presentimenti,
l’intuizione,
insomma invece di essere impercettibile,
raffinato,
stratificato sotto ciò che nasconde il velo di Maya dell’apparenza,
il volto statuario e granitico di Carol,
mostra sessi e seni e fianchi e bocche che si incontrano e strusciano e godono e vivono.
In tre parole:
mentre in “Carol” si evoca,
si tratteggia e si accenna,
ne “La vita di Adele” si dirompe,
si riempie e si supera,
si lancia dritto negli occhi dello spettatore passivo quel che si vuole raccontare e lo si fa riempendogli le pupille e massacrandogli la morale e il pudore.
Ma il risultato è lo stesso,
non cambia,
è unico e il solo auspicabile:
il sublime.
Il problema è solo per coloro che rimangono inebetiti a metà strada tra chi sfiora e chi mangia.
“Carol” nel suo genere è un film quasi perfetto e questo “quasi” non sta a significare niente se non il suo essere un’opera costruita in modo magnifico dunque per definizione “non perfetta”(= non finita)
ma bensì liquida,
mutevole e aperta a lasciarsi guardare nell’infinità di segni che cosparge nell’aria.
La drammaturgia del film è tecnica e precisa:
la storia si racconta accennando,
si fa leva su le capacità tecniche (enormi) degli attori e di chi li ha diretti,
di lasciar trasparire,
di lasciar intendere indicando,
evitando in questo modo di dire e spiegare.
Tutto accade e si manifesta in modo spontaneo.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Si lavora sulle atmosfere e le sensazioni, i sapori.
Sui cenni, il linguaggio dei corpi e gli sguardi che lanciano strali d’amore o rimangono fissi,
immobili,
schermati,
vitrei,
gelidi e impassibili ma dietro ai quali…
dietro ai quali si scontrano mondi e mari in tempesta.
Impeccabile la ricostruzione storica da un punto di vista scenogrofico.
Bellissimi i costumi in particolar modo quelli del personaggio di Cate Blanchett che ancora una volta come in “Blue Jasmine” (Woody Allen, 2013) si dimostra abile, mimetica e a suo agio nei panni della signora dell’alta borghesia anche se questa volta nella New York degli anni ’50.
La macchina da presa si muove con grazia,
sembra seguire sollevata a mezz’aria il destino delle due protagoniste non aggiungendo niente a ciò che s’intende raccontare,
dunque danza leggiadra,
respira e si rende invisibile.
Pochi i quadri fermi a macchina fissa,
a mio modo di vedere evitati sapientemente per non correre il rischio di sedimentare e fermare in un tempo passato la narrazione e dunque il significato politico e sociale dell’opera.
Ci sono il volto e gli occhi di Carol a essere impassibili e rigidi e bastano
e avanzano e smuovono e riempiono.
Attenta la musica,
a un certo punto c’è anche un pezzo di Sinatra,
nel film è Natale e siamo a New York,
se non ci fosse stato sarebbe stato un mancato.
La fotografia è coerente e raffinata,
un tutt’uno con la scenografia, i costumi e l’epoca.
Sono tenui e caldi i colori e raccontano bene gli anni ’50,
dopo la tempesta, la seconda guerra mondiale nel bel mezzo di un’altra guerra questa al contrario celata e nascosta come il dolore di Carol, la guerra fredda.
Il film è tratto dal romanzo di Patricia Highsmith “The price of the salt” scritto nel 1952 che non ho letto e non ho assolutamente intenzione di leggere.
Sui cenni, il linguaggio dei corpi e gli sguardi che lanciano strali d’amore o rimangono fissi,
immobili,
schermati,
vitrei,
gelidi e impassibili ma dietro ai quali…
dietro ai quali si scontrano mondi e mari in tempesta.
Impeccabile la ricostruzione storica da un punto di vista scenogrofico.
Bellissimi i costumi in particolar modo quelli del personaggio di Cate Blanchett che ancora una volta come in “Blue Jasmine” (Woody Allen, 2013) si dimostra abile, mimetica e a suo agio nei panni della signora dell’alta borghesia anche se questa volta nella New York degli anni ’50.
La macchina da presa si muove con grazia,
sembra seguire sollevata a mezz’aria il destino delle due protagoniste non aggiungendo niente a ciò che s’intende raccontare,
dunque danza leggiadra,
respira e si rende invisibile.
Pochi i quadri fermi a macchina fissa,
a mio modo di vedere evitati sapientemente per non correre il rischio di sedimentare e fermare in un tempo passato la narrazione e dunque il significato politico e sociale dell’opera.
Ci sono il volto e gli occhi di Carol a essere impassibili e rigidi e bastano
e avanzano e smuovono e riempiono.
Attenta la musica,
a un certo punto c’è anche un pezzo di Sinatra,
nel film è Natale e siamo a New York,
se non ci fosse stato sarebbe stato un mancato.
La fotografia è coerente e raffinata,
un tutt’uno con la scenografia, i costumi e l’epoca.
Sono tenui e caldi i colori e raccontano bene gli anni ’50,
dopo la tempesta, la seconda guerra mondiale nel bel mezzo di un’altra guerra questa al contrario celata e nascosta come il dolore di Carol, la guerra fredda.
Il film è tratto dal romanzo di Patricia Highsmith “The price of the salt” scritto nel 1952 che non ho letto e non ho assolutamente intenzione di leggere.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Cate Blanchett vincerà l’Oscar come migliore attrice protagonista,
ne sono certo,
e se poi non lo vince gliene mando io uno di polistirolo pregiato;
forse il film riuscirà a portarsi a casa anche altri ometti dorati:
per i costumi,
per la sceneggiatura e la migliore attrice non protagonista, Rooney Mara.
Bravo Todd Haynes.
Io non indovino quasi mai e non ho mai vinto un tubo nemmeno di polistirolo.
Ma chi se ne frega.
ne sono certo,
e se poi non lo vince gliene mando io uno di polistirolo pregiato;
forse il film riuscirà a portarsi a casa anche altri ometti dorati:
per i costumi,
per la sceneggiatura e la migliore attrice non protagonista, Rooney Mara.
Bravo Todd Haynes.
Io non indovino quasi mai e non ho mai vinto un tubo nemmeno di polistirolo.
Ma chi se ne frega.
Veniamo alle pagelle:
Quattro pallette.
Cinque stellette.
E’ un bel otto e mezzo per il vecchio Todd Haynes
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Quattro pallette.
Cinque stellette.
E’ un bel otto e mezzo per il vecchio Todd Haynes
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 22
“The Revenant” di Alejandro Inarritu.
Sceneggiatura di: Alejandro Inarritu e Mark L. Smith
Fotografia: Emmanuel Lubezki
Montaggio: Stephen Mirrione
Con: Leonardo Di Caprio, Tom hardy, Will Poulter, Domhanall Gleeson
Prodotto da: New Regency Productions, RatPac Entertainment
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
L’uomo solo davanti alla natura selvaggia.
L’uomo solo davanti alla natura umana selvaggia.
L’uomo solo che lotta e lotta per la vita.
La sua e quella dei suoi cari.
L’attesissimo ultimo film di Alejandro Inarritu con protagonista Leonardo Di Caprio è ormai uscito e lotta insieme a me e a voi e a noi.
Tutti ne parlano già da tempo e ne parlerò anch’io che mi sono abilmente, credo, liberato del problema Checco Zalone facendo semplicemente finta che manco esistesse.
Pace all’anima sua.
Non ne ho parlato con nessuno.
Ho scritto soltanto un post sulla pagina facebook di un amico una notte stanco e ubriaco e comunque non ho parlato del film di Zalone ma della morte del cinema nostro.
Nessuno se ne è accorto, come sempre, un like, forse due.
Questa volta per fortuna.
L’uomo solo davanti alla natura umana selvaggia.
L’uomo solo che lotta e lotta per la vita.
La sua e quella dei suoi cari.
L’attesissimo ultimo film di Alejandro Inarritu con protagonista Leonardo Di Caprio è ormai uscito e lotta insieme a me e a voi e a noi.
Tutti ne parlano già da tempo e ne parlerò anch’io che mi sono abilmente, credo, liberato del problema Checco Zalone facendo semplicemente finta che manco esistesse.
Pace all’anima sua.
Non ne ho parlato con nessuno.
Ho scritto soltanto un post sulla pagina facebook di un amico una notte stanco e ubriaco e comunque non ho parlato del film di Zalone ma della morte del cinema nostro.
Nessuno se ne è accorto, come sempre, un like, forse due.
Questa volta per fortuna.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Invece no.
Di Caprio salva quel che c’è da salvare di questa banda di cacciatori bifolchi,
prova a riportare quel che ne rimane al sicuro dell’accampamento ma un certo punto incontra un’orsa con i cuccioli che che gliele da di santa ragione;
lui la uccide ma rimane piuttosto malconcio.
La squadra non riesce a far ritorno all’accampamento trasportando l’acciaccato Di Caprio, il peso del suo corpo ne rallenta il passo e con quel clima rigido e per gli impervi sentieri di montagna non è possibile riportare a casa sano e salvo lui e pure chi lo trasporta.
Il capitano dunque decide di abbandonare Glass (Leonardo Di Caprio) nelle mani del figlio indiano Hawk, di un giovane cacciatore (Will Poulter) e del rude Fitzgerald (Tom Hardy) che promette di correre il rischio di essere nuovamente attaccato dagli indiani e di proteggere e occuparsi di Glass in cambio di trecento verdoni (siamo nel milleottocentosessanta).
Ma Fitzgerald in realtà non ne vuole sapere di rischiare le penne per occuparsi di Glass moribondo, lui vuole solo i suoi trecento verdoni, andare al più presto in Texas al caldo a coltivare il suo pezzo di terra e bere parecchio, infatti appena possibile tenta di uccidere il povero Glass mezzo morto ma il figlio di Leo lo scopre e prova a fermarlo scavando così la sua fossa:
al bruto Tom Hardy non resta che farlo fuori.
Muore Hawk, il figlio di Glass.
Di Caprio salva quel che c’è da salvare di questa banda di cacciatori bifolchi,
prova a riportare quel che ne rimane al sicuro dell’accampamento ma un certo punto incontra un’orsa con i cuccioli che che gliele da di santa ragione;
lui la uccide ma rimane piuttosto malconcio.
La squadra non riesce a far ritorno all’accampamento trasportando l’acciaccato Di Caprio, il peso del suo corpo ne rallenta il passo e con quel clima rigido e per gli impervi sentieri di montagna non è possibile riportare a casa sano e salvo lui e pure chi lo trasporta.
Il capitano dunque decide di abbandonare Glass (Leonardo Di Caprio) nelle mani del figlio indiano Hawk, di un giovane cacciatore (Will Poulter) e del rude Fitzgerald (Tom Hardy) che promette di correre il rischio di essere nuovamente attaccato dagli indiani e di proteggere e occuparsi di Glass in cambio di trecento verdoni (siamo nel milleottocentosessanta).
Ma Fitzgerald in realtà non ne vuole sapere di rischiare le penne per occuparsi di Glass moribondo, lui vuole solo i suoi trecento verdoni, andare al più presto in Texas al caldo a coltivare il suo pezzo di terra e bere parecchio, infatti appena possibile tenta di uccidere il povero Glass mezzo morto ma il figlio di Leo lo scopre e prova a fermarlo scavando così la sua fossa:
al bruto Tom Hardy non resta che farlo fuori.
Muore Hawk, il figlio di Glass.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Da qui il film cambia e prende un’altra direzione:
Glass lotta contro la natura selvaggia, l’umanità malvagia e il fato avverso ma non per sopravvivere e rincorrere la pace e la gloria; a lui della vita, delle pelli, della pace e la gloria non gliene frega più niente vuole solo vendicare il suo amato figlio Hawk.
Smetto di spifferare e vi assicuro che questo è solo l’antefatto ma ho dovuto farlo per esporre la mia riflessione.
Pensavo che all’inizio il film avesse una trama ben precisa e cioè narrasse le vicende di questa squadra di cacciatori al servizio di una compagnia di pelli fin quando non mi sono accorto che subito dopo i primi venti minuti il film prende un’altra piega o meglio quella della lotta di Di Caprio contro la morte e alla ricerca della vendetta del figlio indiano ingiustamente ucciso.
Il film si trasforma in Rambo.
Di Caprio si trasforma in Rambo.
O meglio in una via di mezzo tra “Rambo”, “Balla coi lupi”, “Indiana Jones” e anche “Supeman”perchè no.
La storia perde immediatamente attrazione:
quella che poteva essere una storia unica e originale che racconta le vicende di una squadra di cacciatori di pelli diventa il film su un Rambo del milleottocentosessanta che lotta contro la natura, contro gli orsi, contro la morte e contro il suo nemico che a questo punto ha un nome e una faccia:
il cacciatore Fitzgerald (Tom Hardy).
Inutile dire che è sempre sul punto di morire ma che non muore mai.
Mai titolo infatti fu più azzeccato: “The Revenant”.
In questo modo il film si banalizza, non è più unico, dunque originale.
Inutile dire che Di Caprio tutto malconcio, con i capelli lunghi, la barba incolta e un orso al posto del cappotto farà impazzire migliaia di donne e bambine.
E questo a chi serve?
Alle migliaia di donne e bambine, al film e a Di Cario stesso sempre più ricco.
Inutile dire che il film banalizzato in una struttura essenzialmente appoggiata su protagonista e antagonista diventa un po’ pacchiano.
Per fortuna ci sono gli indiani, ci sono i cavalli maculati, ci sono i paesaggi sconfinati, la neve, i ruscelli, gli orsi, i boschi, gli archi e le frecce.
Glass lotta contro la natura selvaggia, l’umanità malvagia e il fato avverso ma non per sopravvivere e rincorrere la pace e la gloria; a lui della vita, delle pelli, della pace e la gloria non gliene frega più niente vuole solo vendicare il suo amato figlio Hawk.
Smetto di spifferare e vi assicuro che questo è solo l’antefatto ma ho dovuto farlo per esporre la mia riflessione.
Pensavo che all’inizio il film avesse una trama ben precisa e cioè narrasse le vicende di questa squadra di cacciatori al servizio di una compagnia di pelli fin quando non mi sono accorto che subito dopo i primi venti minuti il film prende un’altra piega o meglio quella della lotta di Di Caprio contro la morte e alla ricerca della vendetta del figlio indiano ingiustamente ucciso.
Il film si trasforma in Rambo.
Di Caprio si trasforma in Rambo.
O meglio in una via di mezzo tra “Rambo”, “Balla coi lupi”, “Indiana Jones” e anche “Supeman”perchè no.
La storia perde immediatamente attrazione:
quella che poteva essere una storia unica e originale che racconta le vicende di una squadra di cacciatori di pelli diventa il film su un Rambo del milleottocentosessanta che lotta contro la natura, contro gli orsi, contro la morte e contro il suo nemico che a questo punto ha un nome e una faccia:
il cacciatore Fitzgerald (Tom Hardy).
Inutile dire che è sempre sul punto di morire ma che non muore mai.
Mai titolo infatti fu più azzeccato: “The Revenant”.
In questo modo il film si banalizza, non è più unico, dunque originale.
Inutile dire che Di Caprio tutto malconcio, con i capelli lunghi, la barba incolta e un orso al posto del cappotto farà impazzire migliaia di donne e bambine.
E questo a chi serve?
Alle migliaia di donne e bambine, al film e a Di Cario stesso sempre più ricco.
Inutile dire che il film banalizzato in una struttura essenzialmente appoggiata su protagonista e antagonista diventa un po’ pacchiano.
Per fortuna ci sono gli indiani, ci sono i cavalli maculati, ci sono i paesaggi sconfinati, la neve, i ruscelli, gli orsi, i boschi, gli archi e le frecce.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
C’è un audio meraviglioso che mi riporta indietro trent’anni alla mia infanzia,
al mio nonno e ai suoi fucili,
a quando credevo che il mondo fosse diviso tra indiani e cowboy e io non sapevo da che parte stare e non a caso ero solito addobbarmi di penne, arco, frecce, speroni e pistole,
una via di mezzo,
proprio come Hawk, il figlio di Glass.
Il film è girato in modo magistrale, non c’è niente da dire:
la macchina da presa fluttua tra i corpi degli indiani, tra i volti tumefatti dei cacciatori, tra le ferite sul dorso di Leo e nelle acque gelide dei fiumi del Nord Dakota e lo fa in modo sensato e mai stucchevole.
È un modo di girare moderno quello di Inarritu:
si abbandonano gli obsoleti, noiosi e statici campi e controcampi e l’antico decoupage novecentesco per lasciare respirare la narrazione in un susseguirsi di piani sequenza nei quali è la macchina da presa stessa a dirci cosa guardare, cosa capire, cosa montare e a dare il turno verbale agli attori.
È la macchina da presa, la sequenza di immagini che racconta la storia del film e non le parole, il detto.
E questo è importante.
E questo è cinema.
La colonna sonora è efficace ed elegante ed è una vera colonna sonora di quelle che fanno da punteggiatura alle immagini.
La musica viene utilizzata in modo sobrio e cinematografico:
non ci sono i “Rolling Sones”,
non ci sono i “Pink Floyd” e manco i “Creedence”, “Jay-Z” e i “Talking Heads” a “coprire” le voragini narrative in modo furbo e pacchiano.
C’è la colonna sonora coma la si intendeva un tempo.
E anche in questo Inarritu ha dimostrato di essere uno di quelli bravi,
basti ricordare la meravigliosa colonna sonora di “Birdman”(2014).
al mio nonno e ai suoi fucili,
a quando credevo che il mondo fosse diviso tra indiani e cowboy e io non sapevo da che parte stare e non a caso ero solito addobbarmi di penne, arco, frecce, speroni e pistole,
una via di mezzo,
proprio come Hawk, il figlio di Glass.
Il film è girato in modo magistrale, non c’è niente da dire:
la macchina da presa fluttua tra i corpi degli indiani, tra i volti tumefatti dei cacciatori, tra le ferite sul dorso di Leo e nelle acque gelide dei fiumi del Nord Dakota e lo fa in modo sensato e mai stucchevole.
È un modo di girare moderno quello di Inarritu:
si abbandonano gli obsoleti, noiosi e statici campi e controcampi e l’antico decoupage novecentesco per lasciare respirare la narrazione in un susseguirsi di piani sequenza nei quali è la macchina da presa stessa a dirci cosa guardare, cosa capire, cosa montare e a dare il turno verbale agli attori.
È la macchina da presa, la sequenza di immagini che racconta la storia del film e non le parole, il detto.
E questo è importante.
E questo è cinema.
La colonna sonora è efficace ed elegante ed è una vera colonna sonora di quelle che fanno da punteggiatura alle immagini.
La musica viene utilizzata in modo sobrio e cinematografico:
non ci sono i “Rolling Sones”,
non ci sono i “Pink Floyd” e manco i “Creedence”, “Jay-Z” e i “Talking Heads” a “coprire” le voragini narrative in modo furbo e pacchiano.
C’è la colonna sonora coma la si intendeva un tempo.
E anche in questo Inarritu ha dimostrato di essere uno di quelli bravi,
basti ricordare la meravigliosa colonna sonora di “Birdman”(2014).
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Veniamo a Di Caprio.
Di Caprio è bravo.
È attorialmente prestante, epico e immortale anche se non so come sarebbe potuto uscire male da un film di questo tipo:
è un film incentrato sul protagonista,
sulle sue ferite,
sulle sue lotte disperate con la vita,
la morte,
la natura e gli affetti.
In un film di questo tipo un attore o non porta a casa la pelle,
abbandona il film e va in terapia,
o se ce la fa ne esce con l’Oscar in tasca o poco ci manca.
E Di Caprio questa volta ce la farà.
O forse no e il suo vero Oscar sarà quello di non essere mai riuscito a vincerlo.
Anche questa è epica, quella che io preferisco.
Ma alla fine ce la farà.
Stringerà in mano il suo Oscar e sarà felice e contento
e riderà di gusto e di gioia quando tra un mese una giornalista garbata e curiosa gli chiederà fuori dai denti: “Solo un’ultima indiscrezione…dove lo hai messo l’Oscar in casa?”
– “In bagno accanto al bidet!”
Sarà di nuovo il trionfo di un eroe Hollywoodiano.
Di Caprio è bravo.
È attorialmente prestante, epico e immortale anche se non so come sarebbe potuto uscire male da un film di questo tipo:
è un film incentrato sul protagonista,
sulle sue ferite,
sulle sue lotte disperate con la vita,
la morte,
la natura e gli affetti.
In un film di questo tipo un attore o non porta a casa la pelle,
abbandona il film e va in terapia,
o se ce la fa ne esce con l’Oscar in tasca o poco ci manca.
E Di Caprio questa volta ce la farà.
O forse no e il suo vero Oscar sarà quello di non essere mai riuscito a vincerlo.
Anche questa è epica, quella che io preferisco.
Ma alla fine ce la farà.
Stringerà in mano il suo Oscar e sarà felice e contento
e riderà di gusto e di gioia quando tra un mese una giornalista garbata e curiosa gli chiederà fuori dai denti: “Solo un’ultima indiscrezione…dove lo hai messo l’Oscar in casa?”
– “In bagno accanto al bidet!”
Sarà di nuovo il trionfo di un eroe Hollywoodiano.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
È il momento giusto per celebrare l’eroe americano (tra poco si vota).
È il film giusto per portare in trionfo Di Caprio e l’America (non è il mio parere ma quello dell’Academy).
È un film in linea con la figura e l’immaginario dell’eroe a stelle e strisce.
“The Revenant” è un film d’avventura, è un film sulla figura dell’eroe, un film mitologico dunque ma che a mio modo di vedere non aggiunge assolutamente niente a tutto quello che è già stato fatto, detto, scritto e girato sulla figura dell’eroe.
Ciò non toglie che sia un film che si lascia guardare e apprezzare il che non è poco quando si è davanti a una pellicola che dura abbondantemente più di due ore e mezzo (tipica lunghezza da Oscar)!
È un film che riporta indietro negli anni, che lavora sull’immaginario e sull’esperienza dello spettatore.
Non è un film d’autore.
Non è un film europeo.
Non è un film interiore.
Non è un film che parla di noi.
Non è un film che faccia pensare o lasci interdetti.
Non è un film colto, anzi…
È un film spettacolare.
È il cinema spettacolare.
È la massima espressione del cinema statunitense,
dello show,
della spettacolarizzazione ad ogni costo,
dell’intrattenimento,
dell’industria,
del potere,
della tecnica cinematografica finalizzata alla costruzione della finzione.
E in questo funziona.
E anche questo è cinema.
È il film giusto per portare in trionfo Di Caprio e l’America (non è il mio parere ma quello dell’Academy).
È un film in linea con la figura e l’immaginario dell’eroe a stelle e strisce.
“The Revenant” è un film d’avventura, è un film sulla figura dell’eroe, un film mitologico dunque ma che a mio modo di vedere non aggiunge assolutamente niente a tutto quello che è già stato fatto, detto, scritto e girato sulla figura dell’eroe.
Ciò non toglie che sia un film che si lascia guardare e apprezzare il che non è poco quando si è davanti a una pellicola che dura abbondantemente più di due ore e mezzo (tipica lunghezza da Oscar)!
È un film che riporta indietro negli anni, che lavora sull’immaginario e sull’esperienza dello spettatore.
Non è un film d’autore.
Non è un film europeo.
Non è un film interiore.
Non è un film che parla di noi.
Non è un film che faccia pensare o lasci interdetti.
Non è un film colto, anzi…
È un film spettacolare.
È il cinema spettacolare.
È la massima espressione del cinema statunitense,
dello show,
della spettacolarizzazione ad ogni costo,
dell’intrattenimento,
dell’industria,
del potere,
della tecnica cinematografica finalizzata alla costruzione della finzione.
E in questo funziona.
E anche questo è cinema.
Veniamo alle pagelle:
Tre stellette
Tre pallette
È un sette meno meno per il vecchio Inarritu
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Tre stellette
Tre pallette
È un sette meno meno per il vecchio Inarritu
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 21
“A bigger splash” di Luca Guadagnino
Sceneggiatura di: David Kajganich
Fotografia: Yorick Le Saux
Montaggio: Walter Fasano
Con: Tilda Swinton, Ralph Fiennes, Dakota Johnson, Matthias Schoenaerts, Corrado Guzzanti
Prodotto da: Studio Canal, Foxsearch light
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
E’ quasi Natale.
Anche quest’anno.
Come sempre.
Come ogni anno.
Prima o poi lo sposteranno questo benedetto Natale oppure cadrà in disuso.
Speriamo.
Impossibile.
Natale ad agosto,
sembra quasi il titolo di uno di quei film che ogni Natale ci propinano.
Come si chiama quello di quest’anno?
“Natale col boss”
ecco come si chiama.
Chissà che capolavoro.
Poveri noi.
Devo scrivere in fretta prima che il Natale arrivi e si porti via tutto
sommergendo di grassi e calorie le nostre menti stanche e consumate.
La mia mente stanca e consumata.
Sono stanco.
Devo scrivere in fretta,
più veloce del tempo,
perché di tempo non ne ho più.
Devo fare tantissime cose prima della fine di questo duemilaquindici e quindi devo essere più veloce.
Rapido.
Devo mettermi in pari rispetto ai miei progetti,
ai miei buoni propositi,
ai miei impegni.
Tanto non ce la farò mai.
Come ogni anno.
Come ogni fine dell’anno.
Come ogni Natale.
Solo un’altra recensione prima di un periodo di pausa.
Riposo.
Sono stanco.
Devo fare le analisi del sangue.
Ho paura.
Non le faccio.
Ma quale riposo,
devo lavorare e produrre e non fermarmi mai,
mai.
Prima o poi qualcosa accadrà,
accadrà qualcosa di grande, di meraviglioso
e quando accadrà dovrò farmi trovare pronto,
pronto a rispondere al fuoco nemico con le mani leste e veloci sulle mie due pistole dorate: Jane e Mary Jane.
Oppure no.
Anche quest’anno.
Come sempre.
Come ogni anno.
Prima o poi lo sposteranno questo benedetto Natale oppure cadrà in disuso.
Speriamo.
Impossibile.
Natale ad agosto,
sembra quasi il titolo di uno di quei film che ogni Natale ci propinano.
Come si chiama quello di quest’anno?
“Natale col boss”
ecco come si chiama.
Chissà che capolavoro.
Poveri noi.
Devo scrivere in fretta prima che il Natale arrivi e si porti via tutto
sommergendo di grassi e calorie le nostre menti stanche e consumate.
La mia mente stanca e consumata.
Sono stanco.
Devo scrivere in fretta,
più veloce del tempo,
perché di tempo non ne ho più.
Devo fare tantissime cose prima della fine di questo duemilaquindici e quindi devo essere più veloce.
Rapido.
Devo mettermi in pari rispetto ai miei progetti,
ai miei buoni propositi,
ai miei impegni.
Tanto non ce la farò mai.
Come ogni anno.
Come ogni fine dell’anno.
Come ogni Natale.
Solo un’altra recensione prima di un periodo di pausa.
Riposo.
Sono stanco.
Devo fare le analisi del sangue.
Ho paura.
Non le faccio.
Ma quale riposo,
devo lavorare e produrre e non fermarmi mai,
mai.
Prima o poi qualcosa accadrà,
accadrà qualcosa di grande, di meraviglioso
e quando accadrà dovrò farmi trovare pronto,
pronto a rispondere al fuoco nemico con le mani leste e veloci sulle mie due pistole dorate: Jane e Mary Jane.
Oppure no.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Non accadrà proprio un bel niente
e io sarò sempre qui a guardare i treni passare,
con in una mano un bicchiere di rosso e nell’altra un paio di olive
cercando di fare canestro col nocciolo
e dicendomi che domani forse sì è arrivato il momento di andare a fare queste benedette analisi del sangue.
Non è possibile essere così stanchi.
Il corpo stanco e la testa vuota.
Mi fanno male anche gli occhi,
il sopra degli occhi.
Sono circa dieci giorni che cerco di scrivere questa benedetta recensione così poi da potermi dedicare ad altro,
ma niente da fare,
non ci riesco.
Non riesco a scrivere di questo film e non riesco ad andare a farmi le analisi del sangue.
Sarà perché il film di cui sto per parlarvi non vale niente,
sarà perché sono ipocondriaco,
sarà perché ho l’ansia da prestazione:
devo scrivere prima possibile,
il più veloce possibile perché ho molto da fare,
troppo,
mi sono avvantaggiato per dedicarmi ad altro
ma come al solito mi ridurrò all’ultimo minuto.
E non farò l’altro.
E la vita si affanna e si affolla.
E così è.
e io sarò sempre qui a guardare i treni passare,
con in una mano un bicchiere di rosso e nell’altra un paio di olive
cercando di fare canestro col nocciolo
e dicendomi che domani forse sì è arrivato il momento di andare a fare queste benedette analisi del sangue.
Non è possibile essere così stanchi.
Il corpo stanco e la testa vuota.
Mi fanno male anche gli occhi,
il sopra degli occhi.
Sono circa dieci giorni che cerco di scrivere questa benedetta recensione così poi da potermi dedicare ad altro,
ma niente da fare,
non ci riesco.
Non riesco a scrivere di questo film e non riesco ad andare a farmi le analisi del sangue.
Sarà perché il film di cui sto per parlarvi non vale niente,
sarà perché sono ipocondriaco,
sarà perché ho l’ansia da prestazione:
devo scrivere prima possibile,
il più veloce possibile perché ho molto da fare,
troppo,
mi sono avvantaggiato per dedicarmi ad altro
ma come al solito mi ridurrò all’ultimo minuto.
E non farò l’altro.
E la vita si affanna e si affolla.
E così è.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il tempo è un bene prezioso ma solo se lo si sa amministrare.
I beni vanno amministrati.
Sempre.
E’ il brutto del bene.
Se un bene non lo si amministra non è un bene.
E’ un male.
E’ un qualcosa che grava, ci pesa, ci nuoce.
Un bene diventa un male quando non si è capaci di amministrarlo, gestirlo,
dunque di saperne cogliere il valore e apprezzarne i piaceri e goderne e sfruttarlo.
E’così che un bene diventa un male perché diventa un qualcosa che non fa altro che ricordarci quanto siamo inetti, inutili e incapaci di vivere.
Il bene divenuto male ci urla in faccia che non siamo in grado nemmeno di stringere in pugno una pietra preziosa, una manciata di mosche, una piuma, un sasso, un’ombra e una lacrima.
E il tempo passa.E che deve fare?
Passare.
Beh, però intanto mentre il tempo scorre via veloce e non ho fatto ciò che dovevo
e ho trasformato manciate di beni in nuovi mali ho fatto altre cose
e alla fine è questo quello che conta
o forse è semplicemente un po’meglio del peggio
e cioè qualcosa in più di restare fermi e inerti mentre le mosche scappan di mano
e i treni corrono via:
fare, fare, fare e fare.
E’ questo quello che conta.
Anche cose a caso.
Stare in azione.
Produrre.
Alla faccia di coloro che ci vogliono spacciati, falliti, fermi, perduti e sconfitti.
Alla faccia vostra.
Prima cosa:
full immersion nel Festival dei Popoli di Firenze.
Come ogni novembre che si rispetti ho passato molto ore comodamente seduto nel caldo delle poltrone del cinema Odeon a guardare un documentario dopo l’altro e poi un altro ancora.
Quest’anno avevo anche l’accredito stampa con la foto sopra,
che onore,
tutto merito del mio capo,
è una foto di dieci anni fa quando ancora col mio capo giocavamo a “strega comanda color”,
ci provo sempre a spacciarla per una foto attuale ma non c’è niente da fare
anche questa volta mi hanno fregato.
Non ci voleva poi tanto.
Demente.
I beni vanno amministrati.
Sempre.
E’ il brutto del bene.
Se un bene non lo si amministra non è un bene.
E’ un male.
E’ un qualcosa che grava, ci pesa, ci nuoce.
Un bene diventa un male quando non si è capaci di amministrarlo, gestirlo,
dunque di saperne cogliere il valore e apprezzarne i piaceri e goderne e sfruttarlo.
E’così che un bene diventa un male perché diventa un qualcosa che non fa altro che ricordarci quanto siamo inetti, inutili e incapaci di vivere.
Il bene divenuto male ci urla in faccia che non siamo in grado nemmeno di stringere in pugno una pietra preziosa, una manciata di mosche, una piuma, un sasso, un’ombra e una lacrima.
E il tempo passa.E che deve fare?
Passare.
Beh, però intanto mentre il tempo scorre via veloce e non ho fatto ciò che dovevo
e ho trasformato manciate di beni in nuovi mali ho fatto altre cose
e alla fine è questo quello che conta
o forse è semplicemente un po’meglio del peggio
e cioè qualcosa in più di restare fermi e inerti mentre le mosche scappan di mano
e i treni corrono via:
fare, fare, fare e fare.
E’ questo quello che conta.
Anche cose a caso.
Stare in azione.
Produrre.
Alla faccia di coloro che ci vogliono spacciati, falliti, fermi, perduti e sconfitti.
Alla faccia vostra.
Prima cosa:
full immersion nel Festival dei Popoli di Firenze.
Come ogni novembre che si rispetti ho passato molto ore comodamente seduto nel caldo delle poltrone del cinema Odeon a guardare un documentario dopo l’altro e poi un altro ancora.
Quest’anno avevo anche l’accredito stampa con la foto sopra,
che onore,
tutto merito del mio capo,
è una foto di dieci anni fa quando ancora col mio capo giocavamo a “strega comanda color”,
ci provo sempre a spacciarla per una foto attuale ma non c’è niente da fare
anche questa volta mi hanno fregato.
Non ci voleva poi tanto.
Demente.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
E’ sempre bello il Festival dei Popoli,
è un luogo dove capisci che il cinema è anche altro,
che le possibilità del mezzo cinematografico sono altre e molte,
e dove ti viene la voglia di fare un film,
un viaggio,
fondare una rivista,
una nazione,
un’isola almeno,
aprire un cinema,
attraversare un deserto,
mangiare robe strane,
sopravvivere a una guerra,
sparire e cambiare identità,
avere un cane.
Insomma un sacco di cose.
Vi segnalo tre film su tutti:
“Mallory” di Helena Tristikova,
“Somos Cuba” di Annett Ilijew e
“A festa e os caes” di Leonardo Mouramateus.
Il primo parla della storia di una tossica che ce la fa.
Il secondo di un cubano che racconta il regime e non ce la fa.
Il terzo delle feste e delle sbornie che il regista si prendeva con i suoi amici di Fortaleza negli anni dell’università con una narrazione affidata totalmente alle fotografie e ai commenti dei protagonisti.
Un’idea furba sotto molti aspetti. Emotivi e pratici.
Il secondo, “Somos Cuba”, ha anche vinto la menzione speciale della giuria.
Chissà che fine faranno questi film?
Gireranno errabondi di festival in festival fin quando non saranno magri e consunti.
Ormai è così che funziona la distribuzione cinematografica:
i blockbuster in giro per le sale,
i film da festival in giro per i festival.
Il mondo dei festival è diventato un vero e proprio circuito alternativo,
nel senso che molti film viaggiano per un anno nomadi di festival in festival,
di città in città, senza trovare mai un approdo sicuro in sala, con il risultato che anche i festival al giorno di oggi sono diventati un fatto di conoscenze, legami di produzione, distribuzione e potere.
Questo è quanto.
è un luogo dove capisci che il cinema è anche altro,
che le possibilità del mezzo cinematografico sono altre e molte,
e dove ti viene la voglia di fare un film,
un viaggio,
fondare una rivista,
una nazione,
un’isola almeno,
aprire un cinema,
attraversare un deserto,
mangiare robe strane,
sopravvivere a una guerra,
sparire e cambiare identità,
avere un cane.
Insomma un sacco di cose.
Vi segnalo tre film su tutti:
“Mallory” di Helena Tristikova,
“Somos Cuba” di Annett Ilijew e
“A festa e os caes” di Leonardo Mouramateus.
Il primo parla della storia di una tossica che ce la fa.
Il secondo di un cubano che racconta il regime e non ce la fa.
Il terzo delle feste e delle sbornie che il regista si prendeva con i suoi amici di Fortaleza negli anni dell’università con una narrazione affidata totalmente alle fotografie e ai commenti dei protagonisti.
Un’idea furba sotto molti aspetti. Emotivi e pratici.
Il secondo, “Somos Cuba”, ha anche vinto la menzione speciale della giuria.
Chissà che fine faranno questi film?
Gireranno errabondi di festival in festival fin quando non saranno magri e consunti.
Ormai è così che funziona la distribuzione cinematografica:
i blockbuster in giro per le sale,
i film da festival in giro per i festival.
Il mondo dei festival è diventato un vero e proprio circuito alternativo,
nel senso che molti film viaggiano per un anno nomadi di festival in festival,
di città in città, senza trovare mai un approdo sicuro in sala, con il risultato che anche i festival al giorno di oggi sono diventati un fatto di conoscenze, legami di produzione, distribuzione e potere.
Questo è quanto.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Siamo pronti alla rivoluzione.
Non mi pare.
Poi c’è la Francia che come tutti dicono è un fatto a se stante dove anche i film diversi,
i documentari,
il cinema della realtà,
i film di ricerca trovano spazio
ma tutti lo dicono e io non ci credo.
Andremo anche in Francia prima o poi,
ci sono degli ottimi formaggi e del buon vino,
belle donne, galli e un sacco di film strani,
insomma tutto quello che serve.
Seconda cosa:
Ho iniziato a scrivere un nuovo film.
Sì un nuovo film.
Alla faccia di tutti coloro che mi volevano già seduto e puzzolente dall’altra parte della scrivania a guadare e sputtanare i film degli altri,
di coloro che dicevano che avevo già smesso,
che sono finito,
se è per quello non ho mai iniziato,
a voi tutti, che passate la vita aspettando e godendo dell’insuccesso dell’altro
a voi tutti dico quello che direbbe il mio amico Vincenzo (ancora?):“…per fare grandi cose ci vuole sempre un nemico contro il quale rivolgersi…” e quel nemico per me siete voi.
Sarà un nuovo film,
sarà un film nuovo,
qualcosa di mai visto e che probabilmente mai si vedrà.
Ma veniamo a noi.
Sono andato a vedere “A bigger splash”,
l’ultimo film di Luca Guadagnino e non mi ricordo manco in quale cinema.
Giuro.
“A bigger splash” è il remake del film “La piscina” di Jaques Deray ma anche un quadro di David Hockney.
Il quadro di Hockney è di gran lunga migliore del film di Guadagnino.
Guadagnino dice:”…No, il mio film non è il remake di “La piscina”di Deray,
nel modo più assoluto, tra l’altro il film di Deray lo volevo vedere con i miei autori ma non ci siamo riusciti perché si è rotto il lettore blu-ray…”.
Lo giuro sono parole sue.
Io non so che dirvi perché il film di Deray non l’ho visto e nemmeno lo guardo ma se può bastarvi ho letto la trama che è tale e quale a quella del film di Guadagnino.
Non mi pare.
Poi c’è la Francia che come tutti dicono è un fatto a se stante dove anche i film diversi,
i documentari,
il cinema della realtà,
i film di ricerca trovano spazio
ma tutti lo dicono e io non ci credo.
Andremo anche in Francia prima o poi,
ci sono degli ottimi formaggi e del buon vino,
belle donne, galli e un sacco di film strani,
insomma tutto quello che serve.
Seconda cosa:
Ho iniziato a scrivere un nuovo film.
Sì un nuovo film.
Alla faccia di tutti coloro che mi volevano già seduto e puzzolente dall’altra parte della scrivania a guadare e sputtanare i film degli altri,
di coloro che dicevano che avevo già smesso,
che sono finito,
se è per quello non ho mai iniziato,
a voi tutti, che passate la vita aspettando e godendo dell’insuccesso dell’altro
a voi tutti dico quello che direbbe il mio amico Vincenzo (ancora?):“…per fare grandi cose ci vuole sempre un nemico contro il quale rivolgersi…” e quel nemico per me siete voi.
Sarà un nuovo film,
sarà un film nuovo,
qualcosa di mai visto e che probabilmente mai si vedrà.
Ma veniamo a noi.
Sono andato a vedere “A bigger splash”,
l’ultimo film di Luca Guadagnino e non mi ricordo manco in quale cinema.
Giuro.
“A bigger splash” è il remake del film “La piscina” di Jaques Deray ma anche un quadro di David Hockney.
Il quadro di Hockney è di gran lunga migliore del film di Guadagnino.
Guadagnino dice:”…No, il mio film non è il remake di “La piscina”di Deray,
nel modo più assoluto, tra l’altro il film di Deray lo volevo vedere con i miei autori ma non ci siamo riusciti perché si è rotto il lettore blu-ray…”.
Lo giuro sono parole sue.
Io non so che dirvi perché il film di Deray non l’ho visto e nemmeno lo guardo ma se può bastarvi ho letto la trama che è tale e quale a quella del film di Guadagnino.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il film in due parole.
Siamo in una bella villa a Pantelleria dove proprio non poteva mancare una piscina.
Ci sono Tilda Swinton (Marianne) che è una rockstar che ha perso la voce e Matthias Schoenaerts (Paul), che non si capisce cosa faccia a parte molta palestra a giudicare dalle dimensioni delle sue braccia e aver smesso di bere, dice anche che andrà presto a fare un documentario con Victor Kossakossky che è uno dei più grandi documentaristi viventi.
I due passano le loro vacanze rilassandosi e amoreggiando nella loro piscina fino a quando un giorno arriva una telefonata.
E’ Harry (Ralph Fiennes), ex fidanzato di Marianne e amico di Paul,
che li informa che il giorno seguente sarebbe arrivato anche lui sull’isola per passare le vacanze con la figlia Penelope (Dakota Johnson).
Harry e Penelope si insediano in pianta stabile nella villa degli amici.
Marianne è un po’ contenta, Paul un po’ meno.
La situazione intorno alla piscina è più o meno questa:
Marianne è senza voce, tranquilla e rilassata e ha molta voglia di vivere e divertirsi,
lo dimostra il fatto che non si nega a lasciarsi trascinare e coinvolgere dallo squinternato Harry.
Paul è una palla al piede:
non ride, non piange, è un monolite muscoloso ed è anche un po’ geloso.
Penelope è la tipica Lolita con l’ormone impazzito che ha messo gli occhi sulle braccia possenti di Paul.
Detto questo, come potete immaginare, gli intrecci possibili non sono poi così tanti:
chi scopa con chi?
Poi c’è un morto in piscina che è Harry e un detective che indaga che è Corrado Guzzanti.
Pensa te!
Sullo sfondo i contrasti di un’isola che è il microcosmo dell’Italia, del mondo occidentale:
da una parte la villa con la piscina,
pochi metri più in la i centri di “accoglienza”.
Il contrasto è semplice e banale e non colpisce, non sciocca, non schifa.
E’ un contrasto con poco conflitto perché di rappresentazione banale.
Tilda Swinton e Ralph Fiennes sono eccezionali, virtuosi e pure muscolari e non muscolosi come il buon Matthias Schoenaerts, nel senso che sono bravi e misurati nel confrontarsi con due personaggi fuori dalle righe e poco credibili, grotteschi, riuscendo a tenere a bada due ruoli più adatti a un film demenziale che a un film come questo che non ho ancora capito a quale genere appartenga.
Al genere dei film brutti ecco a quale genere appartiene.
Siamo in una bella villa a Pantelleria dove proprio non poteva mancare una piscina.
Ci sono Tilda Swinton (Marianne) che è una rockstar che ha perso la voce e Matthias Schoenaerts (Paul), che non si capisce cosa faccia a parte molta palestra a giudicare dalle dimensioni delle sue braccia e aver smesso di bere, dice anche che andrà presto a fare un documentario con Victor Kossakossky che è uno dei più grandi documentaristi viventi.
I due passano le loro vacanze rilassandosi e amoreggiando nella loro piscina fino a quando un giorno arriva una telefonata.
E’ Harry (Ralph Fiennes), ex fidanzato di Marianne e amico di Paul,
che li informa che il giorno seguente sarebbe arrivato anche lui sull’isola per passare le vacanze con la figlia Penelope (Dakota Johnson).
Harry e Penelope si insediano in pianta stabile nella villa degli amici.
Marianne è un po’ contenta, Paul un po’ meno.
La situazione intorno alla piscina è più o meno questa:
Marianne è senza voce, tranquilla e rilassata e ha molta voglia di vivere e divertirsi,
lo dimostra il fatto che non si nega a lasciarsi trascinare e coinvolgere dallo squinternato Harry.
Paul è una palla al piede:
non ride, non piange, è un monolite muscoloso ed è anche un po’ geloso.
Penelope è la tipica Lolita con l’ormone impazzito che ha messo gli occhi sulle braccia possenti di Paul.
Detto questo, come potete immaginare, gli intrecci possibili non sono poi così tanti:
chi scopa con chi?
Poi c’è un morto in piscina che è Harry e un detective che indaga che è Corrado Guzzanti.
Pensa te!
Sullo sfondo i contrasti di un’isola che è il microcosmo dell’Italia, del mondo occidentale:
da una parte la villa con la piscina,
pochi metri più in la i centri di “accoglienza”.
Il contrasto è semplice e banale e non colpisce, non sciocca, non schifa.
E’ un contrasto con poco conflitto perché di rappresentazione banale.
Tilda Swinton e Ralph Fiennes sono eccezionali, virtuosi e pure muscolari e non muscolosi come il buon Matthias Schoenaerts, nel senso che sono bravi e misurati nel confrontarsi con due personaggi fuori dalle righe e poco credibili, grotteschi, riuscendo a tenere a bada due ruoli più adatti a un film demenziale che a un film come questo che non ho ancora capito a quale genere appartenga.
Al genere dei film brutti ecco a quale genere appartiene.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il muscolosissimo Matthias Schoenaerts (Paul) e Dakota Johnson (Penelope),
non sanno di nulla, sanno di poco:
il primo è vuoto e con la faccia da tordo,
la seconda interpreta un personaggio già visto e rivisto e che innervosisce,
al quale l’attrice non sembra donare niente di innovativo e rivoluzionario,
non facendo suo il ruolo e rimanendo per tutta la durata del film una gatta morta e in calore a bordo piscina.
Cosa c’è dietro il film?
Quali sono i significati profondi?
Qual è il messaggio?
E che ne so…
L’inadeguatezza (che di solito quando un film ha poco da dire va quasi sempre bene)?
La gelosia?
La pochezza del mondo stupido e frivolo dello star system?
Il conflitto di classe (che anche questo va quasi sempre bene anche se per film un po’ più datati)?
La frustrazione?
I muscoli?
La vanità?
Il conflitto tra il mondo del benessere e quello dei migranti?
Non ne ho idea.
Non è obbligatorio che ci sia qualcosa che va oltre ciò che si vede.
Non è obbligatorio ma se c’è è meglio.
Resta il fatto che comunque in questo film non c’è un tubo anche in quello che si vede,
tranne una bella villa con la piscina,
un grandissimo Ralph Fiennes che fa il cretino tutto il tempo,
gli stupidi muscoli di un bestione
e una trovata buffa e grottesca che è quella di lasciar senza voce una cantante e quindi anche un’attrice (Tilda Swinton) negando così l’una e l’altra.
Ecco questa è una trovata carina.
Ho detto carina.
E quando qualcuno usa il termine “carina” in una recensione è bene che la smetta.
Ho visto “Love” di Gaspar Noe e mi è piaciuto molto.
Domani vado a vedere “The Lobster” di Yorgos Lanthimos e mi piacerà molto.
Chi scrive “carina” deve parlare così.
Adesso è Natale.
Sono seduto su una sedia.
Le gambe lunghe appoggiate sul tavolo accanto a un bicchiere di vino rosso.
Sputo il nocciolo di un’oliva nel cestino qualche metro più in la.
Manco un canestro.
Guardo i miei treni passare.
Sono pronto per fare le analisi.
No.
Le faccio tra un po’.
Sono pronto a fare un nuovo film.
Quello sì.
Lo faccio tra un po’.
Uno di quelli che in Francia li puoi vedere anche in sala,
uno di quelli che intreccia storie di vita,
poca musica e uomini soli e nel nulla e magari anche un gregge di pecore.
Sono pronto ad aprire un cinema nuovo.
Fondare una nazione.
Un’isola almeno.
Una rivista magari.
A sparire nel nulla.
O magari anche solo a prendere un cane.
Buon Natale.
non sanno di nulla, sanno di poco:
il primo è vuoto e con la faccia da tordo,
la seconda interpreta un personaggio già visto e rivisto e che innervosisce,
al quale l’attrice non sembra donare niente di innovativo e rivoluzionario,
non facendo suo il ruolo e rimanendo per tutta la durata del film una gatta morta e in calore a bordo piscina.
Cosa c’è dietro il film?
Quali sono i significati profondi?
Qual è il messaggio?
E che ne so…
L’inadeguatezza (che di solito quando un film ha poco da dire va quasi sempre bene)?
La gelosia?
La pochezza del mondo stupido e frivolo dello star system?
Il conflitto di classe (che anche questo va quasi sempre bene anche se per film un po’ più datati)?
La frustrazione?
I muscoli?
La vanità?
Il conflitto tra il mondo del benessere e quello dei migranti?
Non ne ho idea.
Non è obbligatorio che ci sia qualcosa che va oltre ciò che si vede.
Non è obbligatorio ma se c’è è meglio.
Resta il fatto che comunque in questo film non c’è un tubo anche in quello che si vede,
tranne una bella villa con la piscina,
un grandissimo Ralph Fiennes che fa il cretino tutto il tempo,
gli stupidi muscoli di un bestione
e una trovata buffa e grottesca che è quella di lasciar senza voce una cantante e quindi anche un’attrice (Tilda Swinton) negando così l’una e l’altra.
Ecco questa è una trovata carina.
Ho detto carina.
E quando qualcuno usa il termine “carina” in una recensione è bene che la smetta.
Ho visto “Love” di Gaspar Noe e mi è piaciuto molto.
Domani vado a vedere “The Lobster” di Yorgos Lanthimos e mi piacerà molto.
Chi scrive “carina” deve parlare così.
Adesso è Natale.
Sono seduto su una sedia.
Le gambe lunghe appoggiate sul tavolo accanto a un bicchiere di vino rosso.
Sputo il nocciolo di un’oliva nel cestino qualche metro più in la.
Manco un canestro.
Guardo i miei treni passare.
Sono pronto per fare le analisi.
No.
Le faccio tra un po’.
Sono pronto a fare un nuovo film.
Quello sì.
Lo faccio tra un po’.
Uno di quelli che in Francia li puoi vedere anche in sala,
uno di quelli che intreccia storie di vita,
poca musica e uomini soli e nel nulla e magari anche un gregge di pecore.
Sono pronto ad aprire un cinema nuovo.
Fondare una nazione.
Un’isola almeno.
Una rivista magari.
A sparire nel nulla.
O magari anche solo a prendere un cane.
Buon Natale.
Veniamo alle pagelle:
Una stelletta
Una palletta
E’ un quattro e mezzo per il vecchio Guadagnino.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Una stelletta
Una palletta
E’ un quattro e mezzo per il vecchio Guadagnino.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 20
“Rams - Storia di due fratelli e otto pecore” di Grímur Hákonarson
Sceneggiatura di: Grímur Hákonarson
Fotografia: Sturla Brandth Grøvlen
Montaggio: Kristján Loðmfjörð
Con: Sigurður Sigurjónsson, Theódór Júlíusson, Charlotte Bøving, Jon Benonysson, Gunnar Jónsson, Sveinn Ólafur Gunnarsson
Prodotto da: Netop Films
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Voglio andare in Islanda,
terra di vulcani e lande desolate,
dove gli uomini si incontrano solo di rado,
le strade sono diritte e lunghissime e sono saette,
spade di Damocle,
binari d’argento.
Il terreno si muove lento e leggero,
il freddo ti taglia la faccia,
ti spacca le ossa,
gli animali sono giganti e rigonfi,
le balene son balene ma grandi,
le foche leoni marini
e le pecore brontosauri di un tempo,
animali antichi e preistorici,
che resistono a tutto a tutti e a ogni cosa.
Anche al gelo,
anche ai vulcani,
ai terremoti,
alle epidemie di pecora pazza e alle bombe nucleari,
agli uomini anche
che a volte son dinosauri pure loro,
tirannosauri biondi e vichinghi.
Voglio andare in Islanda dove il vento ti frusta le guance,
i nasi sono prue di aliscafo in un oceano di ghiaccio,
gli occhi come quelli degl’husky se fossero gatti,
cerulei,
all’insù
e che vedono al buio,
e i bambini si legano a un palo o un lampione sul marciapiede
mentre i babbi bevono,
cantano e ballano tutti ubriachi.
E si mangiano Halibut,
pesci giganti,
testicoli di montone marinato alla griglia,
squalo putrefatto fritto in padella,
teste di pecora alla brace o bollite è uguale,
leoni dei ghiacci,
elefanti dei fiordi.
Voglio andare in Islanda dove fa freddo e si beve benzina
e si beve tanto da prendere fuoco,
da rotolarsi nel ghiaccio per spengersi,
si beve acquavite,
si chiama “morte nera”ed è peggio della morte peggiore
perché è vite purissima al sapor di ammoniaca.
Voglio andare in Islanda
dove il sole o c’è sempre o mai più,
dove il cielo di notte se c’è
è un tappeto di luci e brillanti e lumini e sonagli e sfumature di luce,
aurore viola e arcobaleni notturni.
Voglio andare in Islanda dove le persone son bionde,
son more,
eschimesi,
di tutti i colori,
barbute e a forma di gatto gigante,
abitanti dei mari di ghiaccio,
mangian la neve e bevono il fuoco.
Voglio andare in Islanda con gli orsi polari a mangiar le balene e a bere la morte.
terra di vulcani e lande desolate,
dove gli uomini si incontrano solo di rado,
le strade sono diritte e lunghissime e sono saette,
spade di Damocle,
binari d’argento.
Il terreno si muove lento e leggero,
il freddo ti taglia la faccia,
ti spacca le ossa,
gli animali sono giganti e rigonfi,
le balene son balene ma grandi,
le foche leoni marini
e le pecore brontosauri di un tempo,
animali antichi e preistorici,
che resistono a tutto a tutti e a ogni cosa.
Anche al gelo,
anche ai vulcani,
ai terremoti,
alle epidemie di pecora pazza e alle bombe nucleari,
agli uomini anche
che a volte son dinosauri pure loro,
tirannosauri biondi e vichinghi.
Voglio andare in Islanda dove il vento ti frusta le guance,
i nasi sono prue di aliscafo in un oceano di ghiaccio,
gli occhi come quelli degl’husky se fossero gatti,
cerulei,
all’insù
e che vedono al buio,
e i bambini si legano a un palo o un lampione sul marciapiede
mentre i babbi bevono,
cantano e ballano tutti ubriachi.
E si mangiano Halibut,
pesci giganti,
testicoli di montone marinato alla griglia,
squalo putrefatto fritto in padella,
teste di pecora alla brace o bollite è uguale,
leoni dei ghiacci,
elefanti dei fiordi.
Voglio andare in Islanda dove fa freddo e si beve benzina
e si beve tanto da prendere fuoco,
da rotolarsi nel ghiaccio per spengersi,
si beve acquavite,
si chiama “morte nera”ed è peggio della morte peggiore
perché è vite purissima al sapor di ammoniaca.
Voglio andare in Islanda
dove il sole o c’è sempre o mai più,
dove il cielo di notte se c’è
è un tappeto di luci e brillanti e lumini e sonagli e sfumature di luce,
aurore viola e arcobaleni notturni.
Voglio andare in Islanda dove le persone son bionde,
son more,
eschimesi,
di tutti i colori,
barbute e a forma di gatto gigante,
abitanti dei mari di ghiaccio,
mangian la neve e bevono il fuoco.
Voglio andare in Islanda con gli orsi polari a mangiar le balene e a bere la morte.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Intanto son sempre qui.
Sto camminando al buio in un viale trafficato.
Ai limiti della città.
Ai confini dell’autunno.
E’ giovedì, è umido,
sono le cinque e le persone iniziano a rientrare a casa dopo il duro lavoro.
Le luci dei lampioni.
I fari delle auto.
Le vetrine dei negozi.
I semafori.
Verde rosso,
rosso verde.
Biciclette, motorini.
Passanti.
Sciarpe.
Tucani.
Caschi con sopra corna di cervo o di alce non so.
Autobus che si muovono a rilento in colonna.
E’ una scena arancione.
Cammino con Vincenzo, un mio vecchio amico.
Il caso vuole che lui nel caffè libreria accanto al cinema debba partecipare a una presentazione di un libro, “che libro gli chiedo?”
Un libro su un giovane contadino nel mondo di oggi.
Vanno di moda i contadini oggi giorno.
Santi numi.
Ieri i barbieri,
l’altro ieri le bici,
oggi i contadini.
Tra qualche mese i macellai che già prendono piede,
poi sarà il turno degli gli idraulici,
poi finalmente gli elettricisti.
I miei eroi.
Sto camminando al buio in un viale trafficato.
Ai limiti della città.
Ai confini dell’autunno.
E’ giovedì, è umido,
sono le cinque e le persone iniziano a rientrare a casa dopo il duro lavoro.
Le luci dei lampioni.
I fari delle auto.
Le vetrine dei negozi.
I semafori.
Verde rosso,
rosso verde.
Biciclette, motorini.
Passanti.
Sciarpe.
Tucani.
Caschi con sopra corna di cervo o di alce non so.
Autobus che si muovono a rilento in colonna.
E’ una scena arancione.
Cammino con Vincenzo, un mio vecchio amico.
Il caso vuole che lui nel caffè libreria accanto al cinema debba partecipare a una presentazione di un libro, “che libro gli chiedo?”
Un libro su un giovane contadino nel mondo di oggi.
Vanno di moda i contadini oggi giorno.
Santi numi.
Ieri i barbieri,
l’altro ieri le bici,
oggi i contadini.
Tra qualche mese i macellai che già prendono piede,
poi sarà il turno degli gli idraulici,
poi finalmente gli elettricisti.
I miei eroi.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Come il Fantini,
Andrea,
il mio elettricista del cuore.
Ma per adesso rimaniamo ai contadini
ma non quelli veri col volto antico e di un tempo,
le mani rotte e giganti,
lo stecchino giù dalle labbra e la mano ferma sul fiasco.
I contadini quelli nuovi e alla moda,
quelli nati nel centro e mollo tutto,
mi prendo un pezzo di terra e chi si è visto si è visto,
vendo la vespa e mi compro un “coso” di quelli che ci puoi salire anche sopra,
non un trattore,
come si dice?
Un tagliaerba a sedere.
Mi produco ciò che consumo e sono felice,
non buttate gli avanzi,
domani potremmo fare una marmellata al ginepro o le polpette di niente.
Scusa se non ho risposto ma ero nell’orto,
da queste parti il cellulare non prende,
tanto non uso il telefono e se devo chiamare vado in paese alla casa del popolo.
Rimanete pure a dormire da noi,
mettete la tenda in giardino vicino a un bel fuoco che scalda.
Perchè non facciamo una festa domani che è il primo giorno di primavera?
Potremmo mangiarci le zolle del campo e brindare con l’acqua del pozzo.
O la marmellata al ginepro?
Le polpette di niente?
Il vino di Zeno?
Tutta roba biologica.
Il prossimo anno metto su la fattoria didattica così faccio due lire e mi compro un aratro di vetro.
Ecco il vino di Zeno,
il contadino della vigna qui sopra,
è un po’ aspro ma va giù che è un piacere
e poi è il vino di qui,
chilometri zero.
Qui abbiamo tutto quello che serve.
Andrea,
il mio elettricista del cuore.
Ma per adesso rimaniamo ai contadini
ma non quelli veri col volto antico e di un tempo,
le mani rotte e giganti,
lo stecchino giù dalle labbra e la mano ferma sul fiasco.
I contadini quelli nuovi e alla moda,
quelli nati nel centro e mollo tutto,
mi prendo un pezzo di terra e chi si è visto si è visto,
vendo la vespa e mi compro un “coso” di quelli che ci puoi salire anche sopra,
non un trattore,
come si dice?
Un tagliaerba a sedere.
Mi produco ciò che consumo e sono felice,
non buttate gli avanzi,
domani potremmo fare una marmellata al ginepro o le polpette di niente.
Scusa se non ho risposto ma ero nell’orto,
da queste parti il cellulare non prende,
tanto non uso il telefono e se devo chiamare vado in paese alla casa del popolo.
Rimanete pure a dormire da noi,
mettete la tenda in giardino vicino a un bel fuoco che scalda.
Perchè non facciamo una festa domani che è il primo giorno di primavera?
Potremmo mangiarci le zolle del campo e brindare con l’acqua del pozzo.
O la marmellata al ginepro?
Le polpette di niente?
Il vino di Zeno?
Tutta roba biologica.
Il prossimo anno metto su la fattoria didattica così faccio due lire e mi compro un aratro di vetro.
Ecco il vino di Zeno,
il contadino della vigna qui sopra,
è un po’ aspro ma va giù che è un piacere
e poi è il vino di qui,
chilometri zero.
Qui abbiamo tutto quello che serve.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Hai visto quant’è bella la mia sistola nuova?
E l’uovo di Tina,
la mia nuova gallina?
Sogno un trattore.
Ma di quelli coi cingoli.
Ho bisogno di comprarmi una camicia coi quadri e una vanga dorata .
Vado al cinema per vedere “RAMS -Storia di due fratelli e otto pecore-.
Che bel titolo.
E’proprio uno di quei titoli che oltre ad essere un titolo sono anche un genere,
un genere di titolo,
un genere di film qualunque essa sia la storia.
Ma ancora non sono entrato nella sala.
Bevo un bicchiere di rosso con il mio amico Vincenzo,
io in attesa che il film cominci,
lui che il contadino 2.0 presenti il suo libro che tra le altre si chiama come lui “Il contadino 2.0”.
Cerco il contadino tra le poche persone presenti.
Non c’è.
Bevo il mio vino.
Saluto Vincenzo.
Entro nel cinema.
Cerco otto pecore.
Ce ne sono molte di più saranno anche trenta.
Cosa fanno le pecore?
Belano.
Come si chiama il maschio della pecora?
Ariete.
Come mio nonno.
In inglese?
Ram.
Plurale?
Rams.
E l’uovo di Tina,
la mia nuova gallina?
Sogno un trattore.
Ma di quelli coi cingoli.
Ho bisogno di comprarmi una camicia coi quadri e una vanga dorata .
Vado al cinema per vedere “RAMS -Storia di due fratelli e otto pecore-.
Che bel titolo.
E’proprio uno di quei titoli che oltre ad essere un titolo sono anche un genere,
un genere di titolo,
un genere di film qualunque essa sia la storia.
Ma ancora non sono entrato nella sala.
Bevo un bicchiere di rosso con il mio amico Vincenzo,
io in attesa che il film cominci,
lui che il contadino 2.0 presenti il suo libro che tra le altre si chiama come lui “Il contadino 2.0”.
Cerco il contadino tra le poche persone presenti.
Non c’è.
Bevo il mio vino.
Saluto Vincenzo.
Entro nel cinema.
Cerco otto pecore.
Ce ne sono molte di più saranno anche trenta.
Cosa fanno le pecore?
Belano.
Come si chiama il maschio della pecora?
Ariete.
Come mio nonno.
In inglese?
Ram.
Plurale?
Rams.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il film in tre parole:
siamo in una landa desolata della desolata Islanda.
Ci sono due fratelli di una certa età che non si parlano da quarant’anni e hanno due fattorie una accanto all’altra.
Uno dei due beve l’altro no.
Non ci sono donne.
Non ci sono figli.
Non ci sono amici.
Solo alcuni colleghi allevatori di pecore.
Insomma sono soli ma con le pecore.
C’è un cane, quello sì, sfruttato dai due fratelli per le comunicazioni più urgenti,
insomma una specie di piccione viaggiatore ma cane.
I due fratelli allevano una razza purissima di pecore tipica della zona che si chiama non me lo ricordo.
Un giorno un’epidemia si diffonde tra le bestie andando così a minacciare l’attività dei due fratelli e di tutti gli allevatori delle zone limitrofe.
Tutte le pecore devono essere abbattute e con loro ripulite e rimesse a nuovo le stalle e tutti i luoghi e gli oggetti che sono venuti in contatto con queste.
Che fare se la tua vita gira intorno a un gregge di pecore e queste di punto in bianco devono essere abbattute?
Che fare se la tua identità e le tue radici sono intimamente legate a un qualcosa che da un momento all’altro vogliono toglierti, come per esempio un gregge di pecore?
Che fare in una landa desolata della desolata Islanda se l’uniche bestie delle quali puoi prenderti cura e che danno senso alla tua vita a un certo punto non ci sono più?
L’uomo ha un intimo e profondo bisogno di prendersi cura di qualcosa e qualcuno.
Se un uomo non ha più niente di cui prendersi cura il senso della vita se ne va quel paese.
In fin dei conti anche prendersi cura di se stessi è un qualcosa che si fa in funzione di poter prendersi cura poi di qualcun altro o di qualcos’altro.
E’ un passaggio obbligato.
Come dire… per amare bisogna amarsi.
Se non ami non ti ami.
Se non ti ami e non ami,
la vita non ha senso e allora tanto vale andarsene all’inferno dopo essersi buttati nel mare ghiacciato a rincorrere orsi polari e balene giganti.
Stop.
siamo in una landa desolata della desolata Islanda.
Ci sono due fratelli di una certa età che non si parlano da quarant’anni e hanno due fattorie una accanto all’altra.
Uno dei due beve l’altro no.
Non ci sono donne.
Non ci sono figli.
Non ci sono amici.
Solo alcuni colleghi allevatori di pecore.
Insomma sono soli ma con le pecore.
C’è un cane, quello sì, sfruttato dai due fratelli per le comunicazioni più urgenti,
insomma una specie di piccione viaggiatore ma cane.
I due fratelli allevano una razza purissima di pecore tipica della zona che si chiama non me lo ricordo.
Un giorno un’epidemia si diffonde tra le bestie andando così a minacciare l’attività dei due fratelli e di tutti gli allevatori delle zone limitrofe.
Tutte le pecore devono essere abbattute e con loro ripulite e rimesse a nuovo le stalle e tutti i luoghi e gli oggetti che sono venuti in contatto con queste.
Che fare se la tua vita gira intorno a un gregge di pecore e queste di punto in bianco devono essere abbattute?
Che fare se la tua identità e le tue radici sono intimamente legate a un qualcosa che da un momento all’altro vogliono toglierti, come per esempio un gregge di pecore?
Che fare in una landa desolata della desolata Islanda se l’uniche bestie delle quali puoi prenderti cura e che danno senso alla tua vita a un certo punto non ci sono più?
L’uomo ha un intimo e profondo bisogno di prendersi cura di qualcosa e qualcuno.
Se un uomo non ha più niente di cui prendersi cura il senso della vita se ne va quel paese.
In fin dei conti anche prendersi cura di se stessi è un qualcosa che si fa in funzione di poter prendersi cura poi di qualcun altro o di qualcos’altro.
E’ un passaggio obbligato.
Come dire… per amare bisogna amarsi.
Se non ami non ti ami.
Se non ti ami e non ami,
la vita non ha senso e allora tanto vale andarsene all’inferno dopo essersi buttati nel mare ghiacciato a rincorrere orsi polari e balene giganti.
Stop.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Rischio di spifferare tutto.
O come dicono quelli al passo coi tempi: “spoilerare”,
uno di quei neologismi che detesto insieme a coloro che lo pronunciano.
La prima riflessione che voglio fare è questa:
i film sull’Islanda o più in generale ambientati dalle parti del circolo polare artico sono oramai divenuti un vero e proprio genere cinematografico,
al di la dei contenuti, della forma e delle storie.
Un genere che io personalmente apprezzo molto.
La seconda riflessione in realtà sta dentro la prima e è:
perché?
Semplice!
Questo particolare tipo di ambiente determina immediatamente e con forza un’atmosfera e una dimensione psicologica dei personaggi:
la solitudine,
l’uomo solo contro la natura avversa,
l’assurdità della vita.
E’ bello e divertente come il genere “film artico” possa essere contemporaneamente romantico (nel senso di Romanticismo movimento filosofico di pensiero)
e assurdo (nel senso di Teatro dell’Assurdo).
E infatti torniamo a poco sopra:
la vita quando non hai nessuno da amare,
niente da amare
e nessuno che ti ama
non ha senso e dunque è assurda.
E infatti sei anche solo.
Sei solo quando nessuno ti ama e non ami nessuno.
E’ qui che nasce il concetto dell’assurdo,
nella mancanza di significato, di senso.
Siamo e dunque abbiamo senso nella misura di cosa abbiamo scelto di amare e chi ha scelto di amarci.
La terza riflessione è:
come una pecora può dar senso alla vita?
Il senso non esiste di per sé ma è un qualcosa che soggettivamente di volta in volta costruiamo in base al bisogno e alla nostra cultura,
quindi va bene anche una pecora,
un carciofo o una balena,
l’importante non è l’oggetto da amare ma è l’azione di amare.
Non a caso la depressione si basa proprio sull’assenza e l’incapacità di quest’azione,
di questo spostamento ovvero amare qualcosa compreso se stessi.
Se non amo e non mi amano perdo significato,
la mia vita diventa assurda,
sono malato e depresso.
O come dicono quelli al passo coi tempi: “spoilerare”,
uno di quei neologismi che detesto insieme a coloro che lo pronunciano.
La prima riflessione che voglio fare è questa:
i film sull’Islanda o più in generale ambientati dalle parti del circolo polare artico sono oramai divenuti un vero e proprio genere cinematografico,
al di la dei contenuti, della forma e delle storie.
Un genere che io personalmente apprezzo molto.
La seconda riflessione in realtà sta dentro la prima e è:
perché?
Semplice!
Questo particolare tipo di ambiente determina immediatamente e con forza un’atmosfera e una dimensione psicologica dei personaggi:
la solitudine,
l’uomo solo contro la natura avversa,
l’assurdità della vita.
E’ bello e divertente come il genere “film artico” possa essere contemporaneamente romantico (nel senso di Romanticismo movimento filosofico di pensiero)
e assurdo (nel senso di Teatro dell’Assurdo).
E infatti torniamo a poco sopra:
la vita quando non hai nessuno da amare,
niente da amare
e nessuno che ti ama
non ha senso e dunque è assurda.
E infatti sei anche solo.
Sei solo quando nessuno ti ama e non ami nessuno.
E’ qui che nasce il concetto dell’assurdo,
nella mancanza di significato, di senso.
Siamo e dunque abbiamo senso nella misura di cosa abbiamo scelto di amare e chi ha scelto di amarci.
La terza riflessione è:
come una pecora può dar senso alla vita?
Il senso non esiste di per sé ma è un qualcosa che soggettivamente di volta in volta costruiamo in base al bisogno e alla nostra cultura,
quindi va bene anche una pecora,
un carciofo o una balena,
l’importante non è l’oggetto da amare ma è l’azione di amare.
Non a caso la depressione si basa proprio sull’assenza e l’incapacità di quest’azione,
di questo spostamento ovvero amare qualcosa compreso se stessi.
Se non amo e non mi amano perdo significato,
la mia vita diventa assurda,
sono malato e depresso.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il film parla delle radici,
dell’amore,
dell’appartenenza,
del significato della vita,
del mondo di un tempo che scompare e si cancella sotto il peso della modernità che inventa malattie che un tempo non esistevano e mangia la natura e mangia anche noi e le nostre identità,
le nostre pecore, le nostre radici.
Cosa saremmo senza le scimmie, i nostri dinosauri?
Saremmo un bel niente,
esseri dotati di respiro,
occhi,
naso,
gambe,
braccia,
bocca e pollice opponibile
ma che non hanno alcun senso.
Nessuna radice, nessuna origine, nessuna storia.
E senza la storia non siamo niente e nessuno.
Il film ha un ritmo lento e cadenzato come la vita,
come il lento scorrere della la vita nella landa desolata d’Islanda.
Con grande sobrietà e maestria si racconta quello che si intende raccontare grazie a una regia che si fa tutt’uno con la storia,
il freddo,
la solitudine e le pecore.
I due attori protagonisti,
Sigurður Sigurjónsson e Theódór Júlíusson o come diavolo si chiamano,
sono bravi,
sono sobri anche nelle scene più cariche nelle quali hanno da confrontarsi con sbronze, tranelli e litigi.
La loro fisicità,
la conoscenza di quelle regioni lontane e di quegli umani al confine del mondo li aiuta non poco.
Del resto tra i grandi segreti della recitazione forse il più grande è anche il più semplice:
conosci meglio che puoi e fai tuo il personaggio, il mondo e la storia nel quale è inserito;
e in questo i due attori dimostrano di non mancare.
Le scenografie e le ambientazioni,
come in grande parte dei “film artici”,
danno tanto se non tutto al film determinando con forza e autorità atmosfere e dimensioni psicologiche.
Queste atmosfere sono belle, bellissime,
soprattuto perché su queste non si calca troppo la mano compiacendosi
e senza giocare ad oltranza all’uomo solo nel bel mezzo del niente.
Poca la musica e mai invadente a tal punto che non me la ricordo neppure.
Bravi il cane e le pecore.
Bello il finale che rischia e che danza col genere del “film artico”.
Non mi sarei aspettato un finale di questo tipo (quale?)
quanto piuttosto un qualcosa di più rigido e asciutto in linea con la tradizione ma che dico con le atmosfere di Islanda.
E invece il finale è caldo,
è intimo e toccante
anche se sotto metri di neve e di ghiaccio.
dell’amore,
dell’appartenenza,
del significato della vita,
del mondo di un tempo che scompare e si cancella sotto il peso della modernità che inventa malattie che un tempo non esistevano e mangia la natura e mangia anche noi e le nostre identità,
le nostre pecore, le nostre radici.
Cosa saremmo senza le scimmie, i nostri dinosauri?
Saremmo un bel niente,
esseri dotati di respiro,
occhi,
naso,
gambe,
braccia,
bocca e pollice opponibile
ma che non hanno alcun senso.
Nessuna radice, nessuna origine, nessuna storia.
E senza la storia non siamo niente e nessuno.
Il film ha un ritmo lento e cadenzato come la vita,
come il lento scorrere della la vita nella landa desolata d’Islanda.
Con grande sobrietà e maestria si racconta quello che si intende raccontare grazie a una regia che si fa tutt’uno con la storia,
il freddo,
la solitudine e le pecore.
I due attori protagonisti,
Sigurður Sigurjónsson e Theódór Júlíusson o come diavolo si chiamano,
sono bravi,
sono sobri anche nelle scene più cariche nelle quali hanno da confrontarsi con sbronze, tranelli e litigi.
La loro fisicità,
la conoscenza di quelle regioni lontane e di quegli umani al confine del mondo li aiuta non poco.
Del resto tra i grandi segreti della recitazione forse il più grande è anche il più semplice:
conosci meglio che puoi e fai tuo il personaggio, il mondo e la storia nel quale è inserito;
e in questo i due attori dimostrano di non mancare.
Le scenografie e le ambientazioni,
come in grande parte dei “film artici”,
danno tanto se non tutto al film determinando con forza e autorità atmosfere e dimensioni psicologiche.
Queste atmosfere sono belle, bellissime,
soprattuto perché su queste non si calca troppo la mano compiacendosi
e senza giocare ad oltranza all’uomo solo nel bel mezzo del niente.
Poca la musica e mai invadente a tal punto che non me la ricordo neppure.
Bravi il cane e le pecore.
Bello il finale che rischia e che danza col genere del “film artico”.
Non mi sarei aspettato un finale di questo tipo (quale?)
quanto piuttosto un qualcosa di più rigido e asciutto in linea con la tradizione ma che dico con le atmosfere di Islanda.
E invece il finale è caldo,
è intimo e toccante
anche se sotto metri di neve e di ghiaccio.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Esco dal cinema.
La presentazione del libro va per le lunghe.
Vedo un tizio grande grosso e nerboruto con indosso una camicia a quadri che vaga per la libreria, penso:”Ecco il nostro contadino 2.0”.
Il mio amico Vincenzo è seduto in ultima fila.
Accanto a lui è arrivato anche il mio amico Tiziano,
mi guarda,
io lo guardo appoggiandomi al bancone del bar,
gli faccio cenno di liberarsi e venire a bersi un bicchiere di rosso,
lui scatta in piedi veloce.
La presentazione prosegue.
Ordiniamo un rosso poi un altro.
Il tizio con la camicia a quadri non è il contadino 2.0 ma piuttosto il gestore del caffè libreria.
Mi serve con amore un altro bicchiere.
Chissà se si veste sempre così o lo ha fatto per essere in tema con l’evento di turno?
E se presentano un manga?
Magari si veste da “Ken il guerriero” o da “Mario e Luigi” anticipando la prossima moda che vuole gli idraulici al potere.
Il contadino 2.0 è un tizio normale,
come me,
come te,
come tutti.
Sobrio.
Menomale.
Finisce la presentazione.
I prodotti del contadino 2.0 fanno da sfondo all’aperitivo che adesso si celebra.
Tutti si precipitano di colpo sul pecorino
e il salame
e il prosciutto
e mangiano e mangiano e mangiano
come se non ci fosse un domani.
Arriva Francesco, il mio capo.
Mi chiede del film.
Mi chiede se ci farò un pezzo al più presto.
No so cosa dirgli.
Bevo ancora un bicchiere di rosso e gli dico mezzo ubriaco:
«Può un gregge di pecore salvarti la vita?»
lui mi guarda perplesso e mi dice:
«Certo… come no… anche un carciofo».
Veniamo alle pagelle:
Quattro pallette
Quattro stellette
E’ un bell’otto per il vecchio Hákonarson o come diavolo si chiama.
La presentazione del libro va per le lunghe.
Vedo un tizio grande grosso e nerboruto con indosso una camicia a quadri che vaga per la libreria, penso:”Ecco il nostro contadino 2.0”.
Il mio amico Vincenzo è seduto in ultima fila.
Accanto a lui è arrivato anche il mio amico Tiziano,
mi guarda,
io lo guardo appoggiandomi al bancone del bar,
gli faccio cenno di liberarsi e venire a bersi un bicchiere di rosso,
lui scatta in piedi veloce.
La presentazione prosegue.
Ordiniamo un rosso poi un altro.
Il tizio con la camicia a quadri non è il contadino 2.0 ma piuttosto il gestore del caffè libreria.
Mi serve con amore un altro bicchiere.
Chissà se si veste sempre così o lo ha fatto per essere in tema con l’evento di turno?
E se presentano un manga?
Magari si veste da “Ken il guerriero” o da “Mario e Luigi” anticipando la prossima moda che vuole gli idraulici al potere.
Il contadino 2.0 è un tizio normale,
come me,
come te,
come tutti.
Sobrio.
Menomale.
Finisce la presentazione.
I prodotti del contadino 2.0 fanno da sfondo all’aperitivo che adesso si celebra.
Tutti si precipitano di colpo sul pecorino
e il salame
e il prosciutto
e mangiano e mangiano e mangiano
come se non ci fosse un domani.
Arriva Francesco, il mio capo.
Mi chiede del film.
Mi chiede se ci farò un pezzo al più presto.
No so cosa dirgli.
Bevo ancora un bicchiere di rosso e gli dico mezzo ubriaco:
«Può un gregge di pecore salvarti la vita?»
lui mi guarda perplesso e mi dice:
«Certo… come no… anche un carciofo».
Veniamo alle pagelle:
Quattro pallette
Quattro stellette
E’ un bell’otto per il vecchio Hákonarson o come diavolo si chiama.
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 19
“Alaska” di Claudio Cupellini
Sceneggiatura di: Claudio Cupellini, Filippo Gravino, Guido Iuculano Fotografia: Gergely Poharnok
Montaggio: Giuseppe Trepiccione
Con: Elio Germano, Astrid Berges-Frisbey, Valerio Binasco, Marco D'Amore
Prodotto da: Indiana production company e RAI Cinema
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Firenze è deserta.
Le strade son vuote.
Lunghe transenne di ferro accompagnano per mano i marciapiedi ordinati.
È il giorno del Papa.
Non si muove una mosca.
Sono spariti i rumori.
Sono spariti i silenzi.
La città sosta inerte sott’acqua.
Qualcuno ha tolto il volume a questa lunga giornata di autunno.
I percorsi obbligati limitano il mio movimento e illuminano quello del Papa.
Non riesco a seguire la via che vorrei.
Non riesco a trovare la strada di casa.
Non riesco ad andare diritto.
Non sono manco ubriaco.
Devo entrare veloce nel primo cinema che trovo.
Tutte le strade portano a Roma.
Se chiudo gli occhi e seguo il percorso obbligato finirò dritto dritto in Piazza San Pietro tra le braccia del Papa.
Le strade son vuote.
Lunghe transenne di ferro accompagnano per mano i marciapiedi ordinati.
È il giorno del Papa.
Non si muove una mosca.
Sono spariti i rumori.
Sono spariti i silenzi.
La città sosta inerte sott’acqua.
Qualcuno ha tolto il volume a questa lunga giornata di autunno.
I percorsi obbligati limitano il mio movimento e illuminano quello del Papa.
Non riesco a seguire la via che vorrei.
Non riesco a trovare la strada di casa.
Non riesco ad andare diritto.
Non sono manco ubriaco.
Devo entrare veloce nel primo cinema che trovo.
Tutte le strade portano a Roma.
Se chiudo gli occhi e seguo il percorso obbligato finirò dritto dritto in Piazza San Pietro tra le braccia del Papa.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Tanto lui è buono, buonissimo e saprà accogliermi e abbracciarmi come si deve,
come mi merito, come ho bisogno.
Ci metto tanto, tantissimo a raggiungere il cinema.
È una giornata di sole, una delle ultime e io cammino veloce.
Più veloce che posso.
Fumo e sudo.
Il sole in faccia.
Persone che corrono, altre che cantano.
Nessuno è sudato.
Nessuno che fuma.
Bandierine.
Boyscout.
Papa boys.
Chitarre.
Suore.
Suorine.
Vescovi.
Cardinali.
Angeli.
Asinelli.
Lazzari.
Presepi.
Mamme felici.
Nemmeno una macchina.
Gli alberi immobili.
Dove sono andate a finire le auto?
Dove sono gli atei e gli agnostici?
Dove sono i peccatori, gli scienziati e i miscredenti?
Dove le streghe?
Dove i comunisti mangia bambini?
Dove sono i senza dio, gli strozzini, i taglia gole, gli Hare Krishna, i vegani e i venditori di fumo?
Dipartiti.
Scomparsi.
Spariti.
Restano solo i fedeli, un pugno di vigili e me.
come mi merito, come ho bisogno.
Ci metto tanto, tantissimo a raggiungere il cinema.
È una giornata di sole, una delle ultime e io cammino veloce.
Più veloce che posso.
Fumo e sudo.
Il sole in faccia.
Persone che corrono, altre che cantano.
Nessuno è sudato.
Nessuno che fuma.
Bandierine.
Boyscout.
Papa boys.
Chitarre.
Suore.
Suorine.
Vescovi.
Cardinali.
Angeli.
Asinelli.
Lazzari.
Presepi.
Mamme felici.
Nemmeno una macchina.
Gli alberi immobili.
Dove sono andate a finire le auto?
Dove sono gli atei e gli agnostici?
Dove sono i peccatori, gli scienziati e i miscredenti?
Dove le streghe?
Dove i comunisti mangia bambini?
Dove sono i senza dio, gli strozzini, i taglia gole, gli Hare Krishna, i vegani e i venditori di fumo?
Dipartiti.
Scomparsi.
Spariti.
Restano solo i fedeli, un pugno di vigili e me.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Nascosto da qualche parte l’esercito.
E poi lui, il Papa dei Papi.
Chissà se il Papa sarà per sempre al suo posto anche nel futuro più nero?
La Chiesa è un po’ in ribasso ma lui, Papa Francesco, ammazza i sondaggi,
meglio di Renzi, Grillo e Salvini.
Non ci vuole poi molto.
Chissà che fatica essere il Papa di oggi?
Quanti impegni, persone, viaggi, critiche, domande, sospetti, lodi, accuse, preoccupazioni.
Quanti regali.
Quante mani molle, bianche, lisce e sudate.
Chissà com’è il pigiama del papa o se magari d’estate dorme nudo e senza lenzuolo?
Chissà se sogna in italiano o in spagnolo?
Chissà se fuma?
Chissà se la barba se la fa da solo o ha un barbiere papale?
Il papa non può avere la barba.
Non è mai esistito un Papa fornito di barba.
Come sarebbe un Papa hipster e al passo coi tempi?
I tatuaggi del Papa.
I baffi del papa.
La bici del papa.
La veste talare accorciata e il calzino colorato che spunta.
Il calzino del Papa.
Chissà?
E poi lui, il Papa dei Papi.
Chissà se il Papa sarà per sempre al suo posto anche nel futuro più nero?
La Chiesa è un po’ in ribasso ma lui, Papa Francesco, ammazza i sondaggi,
meglio di Renzi, Grillo e Salvini.
Non ci vuole poi molto.
Chissà che fatica essere il Papa di oggi?
Quanti impegni, persone, viaggi, critiche, domande, sospetti, lodi, accuse, preoccupazioni.
Quanti regali.
Quante mani molle, bianche, lisce e sudate.
Chissà com’è il pigiama del papa o se magari d’estate dorme nudo e senza lenzuolo?
Chissà se sogna in italiano o in spagnolo?
Chissà se fuma?
Chissà se la barba se la fa da solo o ha un barbiere papale?
Il papa non può avere la barba.
Non è mai esistito un Papa fornito di barba.
Come sarebbe un Papa hipster e al passo coi tempi?
I tatuaggi del Papa.
I baffi del papa.
La bici del papa.
La veste talare accorciata e il calzino colorato che spunta.
Il calzino del Papa.
Chissà?
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Beh sarebbe ridicolo.
Chissà se mentre ha attraversato il prato del Franchi ha pensato almeno una volta a Bati, Passarella, Bolatti, Gonzalo, Dertycia e Facundo Roncaglia?
Loro che, proprio come lui, sono venuti dall’Argentina a Firenze per cantare la gloria dei cieli.
Il Papa allo stadio, fa il tour negli stadi, come Vasco, Jovanotti, Ligabue, gli Stones e Madonna, sì anche lei, un giorno magari faranno un duetto, “Non amarmi”o “Vattene amore”, chi può dirlo, le vie del Signore sono infinite.
O forse lei aprirà i concerti di lui e gli angeli in coro, i vescovi ai fiati, i cardinali col basso e le suore alle trombe.
Prima o poi lo faranno ne sono sicuro.
Chissà come sarà il papa tra cent’anni quando la sua papamobile volerà spedita nei cieli,
noi umani saremo robot,
gli alberi fontane di foglie,
il vento soffio divino e il sole a noleggio?
Sarà come ora, come prima, come ieri e come sempre.
Il papa è un classico e i classici son classici e non cambiano mai.
Già, come Madonna.
Cambierà solo il suo mezzo, l’auto del Papa: la produrranno i cinesi, volerà alta nei cieli e non avrà né sterzo né cambio e andrà per volere divino.
Sarà una bolla traslucida e a forma di croce che galleggia leggera tra i cieli grigi e di ruggine di Roma, Calcutta, San Paolo, Nairobi e Pompei.
E poi ci saranno tanti concerti e il Papa che canta e Madonna che balla.
Già oggi il Papa è una star, l’imperatore del mondo.
Ha tantissimi fan e senza confini.
Ha uno stato, una reggia, il trono, le leggi, lo scettro, le guardie, i sudditi e diversi castelli.
Pochi lo sanno ma per la legge dello Stato Vaticano chiunque può essere eletto papa, non è necessario essere uomo di fede, avere le stigmate, prendere i voti.
Lo giuro.
È un retaggio del Sacro romano impero?
Può darsi.
Anche io, te, lei e lui un giorno potremmo essere il Papa.
Io canto anche bene.
Ci vediamo al conclave vestiti in viola.
Questa recensione sarà simile al film del quale intende parlare: semplice, sobria, senza troppi fronzoli e che rimane li, non vola, senza le ali, a terra, vicino ai più poveri e agl’ultimi.
Un po’ come Papa Francesco, che però tra cent’anni volerà senza ali nella sua papamobile, bolla traslucida e a forma di croce, di concerto in concerto.
Chissà se mentre ha attraversato il prato del Franchi ha pensato almeno una volta a Bati, Passarella, Bolatti, Gonzalo, Dertycia e Facundo Roncaglia?
Loro che, proprio come lui, sono venuti dall’Argentina a Firenze per cantare la gloria dei cieli.
Il Papa allo stadio, fa il tour negli stadi, come Vasco, Jovanotti, Ligabue, gli Stones e Madonna, sì anche lei, un giorno magari faranno un duetto, “Non amarmi”o “Vattene amore”, chi può dirlo, le vie del Signore sono infinite.
O forse lei aprirà i concerti di lui e gli angeli in coro, i vescovi ai fiati, i cardinali col basso e le suore alle trombe.
Prima o poi lo faranno ne sono sicuro.
Chissà come sarà il papa tra cent’anni quando la sua papamobile volerà spedita nei cieli,
noi umani saremo robot,
gli alberi fontane di foglie,
il vento soffio divino e il sole a noleggio?
Sarà come ora, come prima, come ieri e come sempre.
Il papa è un classico e i classici son classici e non cambiano mai.
Già, come Madonna.
Cambierà solo il suo mezzo, l’auto del Papa: la produrranno i cinesi, volerà alta nei cieli e non avrà né sterzo né cambio e andrà per volere divino.
Sarà una bolla traslucida e a forma di croce che galleggia leggera tra i cieli grigi e di ruggine di Roma, Calcutta, San Paolo, Nairobi e Pompei.
E poi ci saranno tanti concerti e il Papa che canta e Madonna che balla.
Già oggi il Papa è una star, l’imperatore del mondo.
Ha tantissimi fan e senza confini.
Ha uno stato, una reggia, il trono, le leggi, lo scettro, le guardie, i sudditi e diversi castelli.
Pochi lo sanno ma per la legge dello Stato Vaticano chiunque può essere eletto papa, non è necessario essere uomo di fede, avere le stigmate, prendere i voti.
Lo giuro.
È un retaggio del Sacro romano impero?
Può darsi.
Anche io, te, lei e lui un giorno potremmo essere il Papa.
Io canto anche bene.
Ci vediamo al conclave vestiti in viola.
Questa recensione sarà simile al film del quale intende parlare: semplice, sobria, senza troppi fronzoli e che rimane li, non vola, senza le ali, a terra, vicino ai più poveri e agl’ultimi.
Un po’ come Papa Francesco, che però tra cent’anni volerà senza ali nella sua papamobile, bolla traslucida e a forma di croce, di concerto in concerto.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Son le tre mezzo e sono già seduto nel mezzo del cinema.
Nonostante l’orario e Papa Francesco ci sono almeno una ventina di persone con me che aspettano “Alaska”, l’ultimo film di Claudio Cupellini.
Ci sono due signore sulla sessantina di quelle che si tengono “piuttosto in forma” che, ne sono sicuro, si aspettano un film sull’Alaska, le slitte, gli igloo e i deserti di ghiaccio.
Niente da fare.
Manco mezza montagna.
Manco un grizzly che caccia un salmone.
Manco un filo di neve.
Nessuna traccia degli inuit.
Nemmeno una slitta.
E pensare che le due signore “piuttosto in forma” amano la natura e detestano il Papa;
sono venute al cinema per sfuggire al traffico, ai preti e per volare un par d’ore nella natura selvaggia.
Niente da fare.
Amen.
“Alaska” è un film metropolitano, è un film europeo, è ambientato tra Parigi e Milano.
Niente alberi, nessun animale.
Ci sono i grandi alberghi, le modelle, i locali notturni, le ville sul lago, i camerieri, gli ospedali, le galere e pure il tizio di Gomorra la serie che fa il tizio di Gomorra la serie ma con un puma tatuato sul collo (Marco D’Amore).
La storia racconta le vicende di un amore travagliato, quello tra Elio Germano nei panni di Fausto e la bellissima Astrid Berge-Frisbey nei panni di Nadine.
Iniziamo col dire che il film ha una sceneggiatura molto interessante: ci sono molti cambi, colpi di scena, ribaltamenti e simmetrie.
Fausto fa il cameriere in un grande albergo di Parigi.
In quello stesso hotel Nadine sta partecipando a un casting per diventare modella.
I due si conoscono su una terrazza: lei fuma in mutande, Elio Germano è vestito da pinguino e fuma lui pure.
Lei gli dice “sembri un pinguino”, lui la porta nella suite presidenziale e gli dice che un giorno sarà la sua stanza.
Li scoprono.
Parapiglia.
Fausto vola in galera, Nadine diventa modella.
Lei lo aspetta e lui sconta la pena.
Si amano.
Poi capriole, piroette e salti mortali.
A lui va tutto bene mosso dall’ambizione e dalla voglia di riscatto, a lei tutto male: rimane vittima di un incidente stradale che le impedisce di continuare a far la modella.
Non aggiungo nient’altro.
Solo una cosa: ma cosa c’entra l’Alaska?
Nulla o quasi.
“Alaska” è il nome del locale che Fausto aprirà con Sandro (un grandissimo Valerio Binasco), l’inizio della sua rincorsa al successo.
Il film parla con leggerezza di grandi temi quali: l’ambizione, la crescita, la voglia di farcela ad ogni costo.
Prenditi la vita che vuoi, guadagnati ciò che ti spetta, punta alle stelle e male che vada son caramelle.
Chiediti chi vorresti essere e dove vorresti andare e poi diventalo e vacci.
Me lo chiedo sempre anch’io: chi vorrei essere? Quale tipo di umano?
Sei possibilità: boh, esploratore, pilota di Formula uno, scalatore, benzinaio, Papa.
Ma oggi nel giorno di Papa Francesco ho capito una cosa:
per sapere chi essere e dove andare a sbatter la testa devi sapere chi sei.
E io chi sono?
Sono uno che potrebbe diventare anche il papa.
Elio Germano è bravo, bravissimo, come sempre.
A mio modo di vedere non è un attore tecnico, è un attore che fa poco, pochissimo, che fa sempre se stesso che interpreta quel personaggio.
Deve essere una persona molto variegata ho pensato, uno che si declina attraverso una vastissima gamma di emozioni. Non diventa altri ma in tanti lo abitano.
Ricorda tanto e in tante cose il suo amico Valerio Mastrandrea ma forse lui, Elio Germano, è più versatile e completo, un filo più tecnico o forse umanamente più complesso o forse ancora abitato da più gente.
Lei, Astrid Berge-Frisbey è tanto bella da togliere il fiato, da andarsene via dal cinema indignati.
È di una bellezza inqualificabile, indecente, inaccettabile.
Di quelle bellezze francesi quelle li, di quelle senza nome che trovi solo in Francia e in certi film, anche se lei di fatto è spagnola.
È anche brava e non ha un ruolo facile, non ha un personaggio stereotipato ma piuttosto è chiamata a confrontarsi con una miriade di cambiamenti nel corso del film: prima è una modella svogliata, poi una modella affermata, poi una donna ferita, poi una cameriera rassegnata, poi…
Il film nella sua interezza è sobrio e curato.
Non si notano invadenze registiche, tutto appare misurato e finalizzato a quel che si intende raccontare: una storia semplice e ben scritta che parla del mondo di oggi, di ambizione, di progetti e riscatto.
Sullo sfondo emergono tante piccole cose che raccontano la realtà di oggi giorno: il lavoro precario, la mondanità sporca e cafona, la vita notturna che puzza di vodka e di coca, il compromesso per andar sempre avanti, la possibilità, il rischio, la speranza e l’amore trionfa.
Nonostante l’orario e Papa Francesco ci sono almeno una ventina di persone con me che aspettano “Alaska”, l’ultimo film di Claudio Cupellini.
Ci sono due signore sulla sessantina di quelle che si tengono “piuttosto in forma” che, ne sono sicuro, si aspettano un film sull’Alaska, le slitte, gli igloo e i deserti di ghiaccio.
Niente da fare.
Manco mezza montagna.
Manco un grizzly che caccia un salmone.
Manco un filo di neve.
Nessuna traccia degli inuit.
Nemmeno una slitta.
E pensare che le due signore “piuttosto in forma” amano la natura e detestano il Papa;
sono venute al cinema per sfuggire al traffico, ai preti e per volare un par d’ore nella natura selvaggia.
Niente da fare.
Amen.
“Alaska” è un film metropolitano, è un film europeo, è ambientato tra Parigi e Milano.
Niente alberi, nessun animale.
Ci sono i grandi alberghi, le modelle, i locali notturni, le ville sul lago, i camerieri, gli ospedali, le galere e pure il tizio di Gomorra la serie che fa il tizio di Gomorra la serie ma con un puma tatuato sul collo (Marco D’Amore).
La storia racconta le vicende di un amore travagliato, quello tra Elio Germano nei panni di Fausto e la bellissima Astrid Berge-Frisbey nei panni di Nadine.
Iniziamo col dire che il film ha una sceneggiatura molto interessante: ci sono molti cambi, colpi di scena, ribaltamenti e simmetrie.
Fausto fa il cameriere in un grande albergo di Parigi.
In quello stesso hotel Nadine sta partecipando a un casting per diventare modella.
I due si conoscono su una terrazza: lei fuma in mutande, Elio Germano è vestito da pinguino e fuma lui pure.
Lei gli dice “sembri un pinguino”, lui la porta nella suite presidenziale e gli dice che un giorno sarà la sua stanza.
Li scoprono.
Parapiglia.
Fausto vola in galera, Nadine diventa modella.
Lei lo aspetta e lui sconta la pena.
Si amano.
Poi capriole, piroette e salti mortali.
A lui va tutto bene mosso dall’ambizione e dalla voglia di riscatto, a lei tutto male: rimane vittima di un incidente stradale che le impedisce di continuare a far la modella.
Non aggiungo nient’altro.
Solo una cosa: ma cosa c’entra l’Alaska?
Nulla o quasi.
“Alaska” è il nome del locale che Fausto aprirà con Sandro (un grandissimo Valerio Binasco), l’inizio della sua rincorsa al successo.
Il film parla con leggerezza di grandi temi quali: l’ambizione, la crescita, la voglia di farcela ad ogni costo.
Prenditi la vita che vuoi, guadagnati ciò che ti spetta, punta alle stelle e male che vada son caramelle.
Chiediti chi vorresti essere e dove vorresti andare e poi diventalo e vacci.
Me lo chiedo sempre anch’io: chi vorrei essere? Quale tipo di umano?
Sei possibilità: boh, esploratore, pilota di Formula uno, scalatore, benzinaio, Papa.
Ma oggi nel giorno di Papa Francesco ho capito una cosa:
per sapere chi essere e dove andare a sbatter la testa devi sapere chi sei.
E io chi sono?
Sono uno che potrebbe diventare anche il papa.
Elio Germano è bravo, bravissimo, come sempre.
A mio modo di vedere non è un attore tecnico, è un attore che fa poco, pochissimo, che fa sempre se stesso che interpreta quel personaggio.
Deve essere una persona molto variegata ho pensato, uno che si declina attraverso una vastissima gamma di emozioni. Non diventa altri ma in tanti lo abitano.
Ricorda tanto e in tante cose il suo amico Valerio Mastrandrea ma forse lui, Elio Germano, è più versatile e completo, un filo più tecnico o forse umanamente più complesso o forse ancora abitato da più gente.
Lei, Astrid Berge-Frisbey è tanto bella da togliere il fiato, da andarsene via dal cinema indignati.
È di una bellezza inqualificabile, indecente, inaccettabile.
Di quelle bellezze francesi quelle li, di quelle senza nome che trovi solo in Francia e in certi film, anche se lei di fatto è spagnola.
È anche brava e non ha un ruolo facile, non ha un personaggio stereotipato ma piuttosto è chiamata a confrontarsi con una miriade di cambiamenti nel corso del film: prima è una modella svogliata, poi una modella affermata, poi una donna ferita, poi una cameriera rassegnata, poi…
Il film nella sua interezza è sobrio e curato.
Non si notano invadenze registiche, tutto appare misurato e finalizzato a quel che si intende raccontare: una storia semplice e ben scritta che parla del mondo di oggi, di ambizione, di progetti e riscatto.
Sullo sfondo emergono tante piccole cose che raccontano la realtà di oggi giorno: il lavoro precario, la mondanità sporca e cafona, la vita notturna che puzza di vodka e di coca, il compromesso per andar sempre avanti, la possibilità, il rischio, la speranza e l’amore trionfa.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il film lascia poco questo è innegabile: è difficile mentre se ne scrive abbandonarsi a voli pindarici.
Il film è ciò che mostra e si vede
e infatti rimane sempre li, ancorato per terra anche se questo non è poi necessariamente un difetto.
È fermo e inchiodato sulla pellicola.
Non è un film che cambia la vita.
Non è un film che entra con forza nella storia del cinema.
Non è un film che lascia dietro di sé qualcosa o alcunché.
È un film semplice, snello, con un ottimo sviluppo narrativo e una sceneggiatura molto poco italiana.
È un film scritto bene e girato in modo sobrio.
La musica non è mai invadente.
La fotografia mai eccessivamente drammatica.
I movimenti di macchina puntuali e precisi.
I personaggi sono ben delineati. Nel loro sviluppo e nei loro cambi continui si ha accesso alla loro dimensione psicologica nonostante qualche stereotipo di troppo soprattutto nel personaggio di Nadine, a volte dipinta in modo vagamente grezzo e grottesco e nel personaggio di Sandro (un grandissimo Valerio Binasco) decisamente stereotipato nei panni del gestore del locale notturno che cerca denaro e successo.
FINE.
Non ho nient’altro da aggiungere.
Questo film non mi mette nella condizione di dire altro.
E quando non si ha niente da dire è giusto tacere.
Come direbbe un Papa moderno.
Amen.
Veniamo alle pagelle:
Due stellette
Due pallette
È un sei tondo tondo per il nostro Cupellini
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Il film è ciò che mostra e si vede
e infatti rimane sempre li, ancorato per terra anche se questo non è poi necessariamente un difetto.
È fermo e inchiodato sulla pellicola.
Non è un film che cambia la vita.
Non è un film che entra con forza nella storia del cinema.
Non è un film che lascia dietro di sé qualcosa o alcunché.
È un film semplice, snello, con un ottimo sviluppo narrativo e una sceneggiatura molto poco italiana.
È un film scritto bene e girato in modo sobrio.
La musica non è mai invadente.
La fotografia mai eccessivamente drammatica.
I movimenti di macchina puntuali e precisi.
I personaggi sono ben delineati. Nel loro sviluppo e nei loro cambi continui si ha accesso alla loro dimensione psicologica nonostante qualche stereotipo di troppo soprattutto nel personaggio di Nadine, a volte dipinta in modo vagamente grezzo e grottesco e nel personaggio di Sandro (un grandissimo Valerio Binasco) decisamente stereotipato nei panni del gestore del locale notturno che cerca denaro e successo.
FINE.
Non ho nient’altro da aggiungere.
Questo film non mi mette nella condizione di dire altro.
E quando non si ha niente da dire è giusto tacere.
Come direbbe un Papa moderno.
Amen.
Veniamo alle pagelle:
Due stellette
Due pallette
È un sei tondo tondo per il nostro Cupellini
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 18
“Suburra” di Stefano Sollima
Sceneggiatura di: Stefano Rulli, Sandro Petraglia, Carlo Bonini, Giancarlo De Cataldo
Fotografia: Paolo Carnera
Montaggio: Patrizio Marone
Con: Pier Francesco Favino, Claudio Amendola, Elio Germano, Alessandro Borghi, Greta Scarano, Giulia Elettra Gorietti
Prodotto da: Cattleya, RAI Cinema, La Chauve Souris, Cofinova 11, Cinemage 9
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Cammino.
E’ quasi buio.
Ho la macchina fotografica in mano.
Non al collo.
In mano.
Non ho mai messo in vita mia la macchina fotografica al collo così come non ho mai portato un marsupio né tantomeno indossato un paio di sandali, sono simboli diversi che fanno parte di un’unica grande famiglia: la sconfitta.
Voglio fotografare delle persone sole sotto la luce dei lampioni ma ancora non è buio,
i lampioni sono spenti e ci sono pochissime persone.
Le poche che ci sono non sono sole.
O meglio siamo tutti soli ma sempre in mezzo alla gente.
E questo è banale.
Non siamo un tutto siamo solo la somma di tanti.
E anche questo è banale ma forse un po’ meno.
Sono quasi tutti in coppia o al massimo a gruppi di tre.
I gruppi di tre sono formati prevalentemente da donne.
I gruppi più numerosi sono gruppi di giovani che arrivano alla mezza dozzina.
Come le uova.
Non scatto manco una foto.
Mi capita spesso.
E’ segno di maturità dicono.
O di depressione penso.
Che poi sono una parte dell’altra.
E’ quasi buio.
Ho la macchina fotografica in mano.
Non al collo.
In mano.
Non ho mai messo in vita mia la macchina fotografica al collo così come non ho mai portato un marsupio né tantomeno indossato un paio di sandali, sono simboli diversi che fanno parte di un’unica grande famiglia: la sconfitta.
Voglio fotografare delle persone sole sotto la luce dei lampioni ma ancora non è buio,
i lampioni sono spenti e ci sono pochissime persone.
Le poche che ci sono non sono sole.
O meglio siamo tutti soli ma sempre in mezzo alla gente.
E questo è banale.
Non siamo un tutto siamo solo la somma di tanti.
E anche questo è banale ma forse un po’ meno.
Sono quasi tutti in coppia o al massimo a gruppi di tre.
I gruppi di tre sono formati prevalentemente da donne.
I gruppi più numerosi sono gruppi di giovani che arrivano alla mezza dozzina.
Come le uova.
Non scatto manco una foto.
Mi capita spesso.
E’ segno di maturità dicono.
O di depressione penso.
Che poi sono una parte dell’altra.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il cinema Principe è un cinema blu.
Accanto al cinema, un bar omonimo.
Bianco.
Accanto al bar, una sala scommesse.
Blu e marrone.
Solo uomini.
Di ogni sorta.
Alcuni da foto, altri meno.
Non scatto manco una foto, ho timore e rispetto.
Hanno sicuramente perso il perdibile e forse anche più.
Ci vuole rispetto per chi rischia, scommette e poi perde.
Perdere è una nobile arte.
Per essere eroe si deve sempre perdere qualcosa.
Ci vuole sempre un nemico contro il quale rivolgersi.
Davanti al cinema una mamma e un bambino.
La mamma sembra simpatica, il bambino un po’ meno.
Chiede alla madre di fargli una foto con il suo Samsung Galaxy S6.
Lui in posa lei scatta.
Sono venti alle sei.
E’ l’ora di entrare.
Accanto al cinema, un bar omonimo.
Bianco.
Accanto al bar, una sala scommesse.
Blu e marrone.
Solo uomini.
Di ogni sorta.
Alcuni da foto, altri meno.
Non scatto manco una foto, ho timore e rispetto.
Hanno sicuramente perso il perdibile e forse anche più.
Ci vuole rispetto per chi rischia, scommette e poi perde.
Perdere è una nobile arte.
Per essere eroe si deve sempre perdere qualcosa.
Ci vuole sempre un nemico contro il quale rivolgersi.
Davanti al cinema una mamma e un bambino.
La mamma sembra simpatica, il bambino un po’ meno.
Chiede alla madre di fargli una foto con il suo Samsung Galaxy S6.
Lui in posa lei scatta.
Sono venti alle sei.
E’ l’ora di entrare.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Suburra Gomorra.
Gomorra Suburra.
Suburra Gomorra.
“La sala sotto” mi indica la maschera strappando il biglietto.
Non è un caso penso io.
Suburra, il mondo di sotto.
Invece è un caso e se non fosse un caso sarebbe comunque una di quelle inutili attenzioni con le quali sono solito riempire i vuoti della mia vita tanto per riempire, per poi svuotare e poi di nuovo riempire.
E’ un movimento anoressico.
Bulimico.
E comunque Suburra non è il mondo di sotto ma “il mondo di mezzo” anzi “la terra di mezzo”.
“Suburra” è il mondo di “mafia capitale”, “der Cecato”, “de Buzzi”, della “Cooperativa 29 Giugno” a braccetto con gli ex NAR e “la banda della Magliana”, dei Casamonica, i giostrai padroni di Roma, di un sacco di politici, preti e mignotte di ogni sorta, razza, forma e colore.
Ma quanti sono i re di Roma?
Sentasette.
Viviamo a Suburra.
Viviamo a Gomorra.
Il mondo è Gomorra e la sua capitale è Suburra.
Io la mia Suburra la immagino diversa da come la immagina Sollima,il regista del film.
Se penso a Suburra non mi immagino il ghetto dei sottoproletari della Roma di un tempo e manco Buzzi e “er Cecato” che mangiano abbacchio e cicoria e si leccano le dita con le bazze unte di olio alla mensa del papa.
Mi immagino altri film, altri mondi.
Gomorra Suburra.
Suburra Gomorra.
“La sala sotto” mi indica la maschera strappando il biglietto.
Non è un caso penso io.
Suburra, il mondo di sotto.
Invece è un caso e se non fosse un caso sarebbe comunque una di quelle inutili attenzioni con le quali sono solito riempire i vuoti della mia vita tanto per riempire, per poi svuotare e poi di nuovo riempire.
E’ un movimento anoressico.
Bulimico.
E comunque Suburra non è il mondo di sotto ma “il mondo di mezzo” anzi “la terra di mezzo”.
“Suburra” è il mondo di “mafia capitale”, “der Cecato”, “de Buzzi”, della “Cooperativa 29 Giugno” a braccetto con gli ex NAR e “la banda della Magliana”, dei Casamonica, i giostrai padroni di Roma, di un sacco di politici, preti e mignotte di ogni sorta, razza, forma e colore.
Ma quanti sono i re di Roma?
Sentasette.
Viviamo a Suburra.
Viviamo a Gomorra.
Il mondo è Gomorra e la sua capitale è Suburra.
Io la mia Suburra la immagino diversa da come la immagina Sollima,il regista del film.
Se penso a Suburra non mi immagino il ghetto dei sottoproletari della Roma di un tempo e manco Buzzi e “er Cecato” che mangiano abbacchio e cicoria e si leccano le dita con le bazze unte di olio alla mensa del papa.
Mi immagino altri film, altri mondi.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
E’ umido, umidissimo.
Fa caldo, caldissimo.
Piove il cielo.
Il Vietnam ad Agosto.
La Cambogia.
Il Laos.
La Thailandia.
Tutta l’Indocina.
Le piante che sudano.
Un mercato straniero.
Un mercato orientale.
Fumi che si mischiano a puzzi e profumi.
Biciclette, taxi, mezzi di locomozione a pedali e con ruote,
avveniristici ma consumati.
Ruggine.
Infilo un piede in una pozza.
Mi danno una spinta.
Passa un ragazzo,
ha un’età indecifrabile,
tra i dieci e i quaranta ,
sulla testa una gabbia,
dentro la gabbia due gatti,
sul naso un par d’occhi,
sugl’occhi gl’ occhiali di quelli che si illuminano e lampeggiano.
Spinge un vecchio sdraiato in un polmone d’acciaio a tre ruote,
è sdentato e sorride,
canta a gran voce la sua litania.
Un tizio implora il suo dio, le mani al cielo e in alto i calici,
è fermo dinanzi una bancarella ricoperta da un vetro,
sotto il vetro serpenti,
mi chiede se voglio un pitone,
del veleno di cobra per vedere anche al buio o un occhio di boa per cancellare i ricordi.
Fumo.
Pioggia.
Fa caldo, caldissimo.
Piove il cielo.
Il Vietnam ad Agosto.
La Cambogia.
Il Laos.
La Thailandia.
Tutta l’Indocina.
Le piante che sudano.
Un mercato straniero.
Un mercato orientale.
Fumi che si mischiano a puzzi e profumi.
Biciclette, taxi, mezzi di locomozione a pedali e con ruote,
avveniristici ma consumati.
Ruggine.
Infilo un piede in una pozza.
Mi danno una spinta.
Passa un ragazzo,
ha un’età indecifrabile,
tra i dieci e i quaranta ,
sulla testa una gabbia,
dentro la gabbia due gatti,
sul naso un par d’occhi,
sugl’occhi gl’ occhiali di quelli che si illuminano e lampeggiano.
Spinge un vecchio sdraiato in un polmone d’acciaio a tre ruote,
è sdentato e sorride,
canta a gran voce la sua litania.
Un tizio implora il suo dio, le mani al cielo e in alto i calici,
è fermo dinanzi una bancarella ricoperta da un vetro,
sotto il vetro serpenti,
mi chiede se voglio un pitone,
del veleno di cobra per vedere anche al buio o un occhio di boa per cancellare i ricordi.
Fumo.
Pioggia.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Sopra il mercato il buio della notte.
Filari di lampadine che dondolano aggrappate ai tendoni che coprono i banchi,
sono trapezisti, acrobati e circensi.
Reduci della guerra del Golfo ancora armati e in mimetica ma senza le gambe bevono birra di drago intorno a un minuscolo fuoco al primo incrocio che trovo.
Un bambino alto due metri e quaranta mi mostra la mano,
si sputa su un palmo e mi chiede dei soldi.
Due africani color dell’ebano mi guardano e ridono,
mi guardano e ridono,
vendono Rolex, denti e lumache lucenti.
Una donna mi guarda anche lei,
ammicca e sorride,
bisbiglia qualcosa in una lingua straniera,
indossa un vestito rosso da sera con le cosce di fuori.
E’ un uomo.
Mi dice di bere.
Io bevo, è anice e menta.
Mi brucia la bocca, la lingua, la gola, il petto e la testa.
Penso che muoio.
Tre uomini bassi,
più bassi dei bassi,
con gli occhi di gatto mi tirano forte per la camicia,
non capisco che vogliono,
mi tendono le mani per essere presi di peso e sollevati nel cielo come neonati.
Me ne vado impaurito, loro berciano e ridono.
Incontro il mio sosia ma con gli occhi cattivi,
si presenta spavaldo tendendo la mano poi dice:”ciao io sono te”.
E’ identico a me ma ha una voce diversa,
un’altra espressione,
un’esperienza di vita negl’occhi degna di un ladro magiaro e di un marinaio di Amburgo.
Filari di lampadine che dondolano aggrappate ai tendoni che coprono i banchi,
sono trapezisti, acrobati e circensi.
Reduci della guerra del Golfo ancora armati e in mimetica ma senza le gambe bevono birra di drago intorno a un minuscolo fuoco al primo incrocio che trovo.
Un bambino alto due metri e quaranta mi mostra la mano,
si sputa su un palmo e mi chiede dei soldi.
Due africani color dell’ebano mi guardano e ridono,
mi guardano e ridono,
vendono Rolex, denti e lumache lucenti.
Una donna mi guarda anche lei,
ammicca e sorride,
bisbiglia qualcosa in una lingua straniera,
indossa un vestito rosso da sera con le cosce di fuori.
E’ un uomo.
Mi dice di bere.
Io bevo, è anice e menta.
Mi brucia la bocca, la lingua, la gola, il petto e la testa.
Penso che muoio.
Tre uomini bassi,
più bassi dei bassi,
con gli occhi di gatto mi tirano forte per la camicia,
non capisco che vogliono,
mi tendono le mani per essere presi di peso e sollevati nel cielo come neonati.
Me ne vado impaurito, loro berciano e ridono.
Incontro il mio sosia ma con gli occhi cattivi,
si presenta spavaldo tendendo la mano poi dice:”ciao io sono te”.
E’ identico a me ma ha una voce diversa,
un’altra espressione,
un’esperienza di vita negl’occhi degna di un ladro magiaro e di un marinaio di Amburgo.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
“Vendo gemme preziose”,
mi afferra anche il braccio poi mi sussurra all’orecchio:”comprami, fidati, io sono te”
Profumo di oppio nell’aria.
La camicia che si attacca all’addome sudato.
Ho bisogno di una pioggia più fresca.
Alcune prostitute con gli occhi di ghiaccio e d’oriente e il naso schiacciato aspettano e fumano davanti a una porta.
E’ rossa la porta.
E’ la porta di un tempio.
Dietro la porta flebili luci segrete.
Le donne mi guardano.
Non parlano.
Sorridono dietro le bocche serrate.
Mi fanno cenno di entrare.
Una mi guida e io seguo.
Profumo di oppio nell’aria.
Piscio di gatto.
Seguo la donna in silenzio.
Cammina in punta dei piedi con la testa piegata su un lato.
Il sinistro.
Guardo per terra.
Il pavimento è bagnato, marcio, fangoso,
come se fosse all’aperto,
come se ci piovesse da anni, da sempre.
Un’ unica stanza e al suo interno tante piccole alcove ognuna separata dall’altra da arazzi preziosi, paraventi di seta,
ventagli cinesi e giganti.
Una fila di donne gemelle camminano in cerchio
avvolte in kimoni di carta
stringono in pugno di mano delle caraffe fumanti
mi afferra anche il braccio poi mi sussurra all’orecchio:”comprami, fidati, io sono te”
Profumo di oppio nell’aria.
La camicia che si attacca all’addome sudato.
Ho bisogno di una pioggia più fresca.
Alcune prostitute con gli occhi di ghiaccio e d’oriente e il naso schiacciato aspettano e fumano davanti a una porta.
E’ rossa la porta.
E’ la porta di un tempio.
Dietro la porta flebili luci segrete.
Le donne mi guardano.
Non parlano.
Sorridono dietro le bocche serrate.
Mi fanno cenno di entrare.
Una mi guida e io seguo.
Profumo di oppio nell’aria.
Piscio di gatto.
Seguo la donna in silenzio.
Cammina in punta dei piedi con la testa piegata su un lato.
Il sinistro.
Guardo per terra.
Il pavimento è bagnato, marcio, fangoso,
come se fosse all’aperto,
come se ci piovesse da anni, da sempre.
Un’ unica stanza e al suo interno tante piccole alcove ognuna separata dall’altra da arazzi preziosi, paraventi di seta,
ventagli cinesi e giganti.
Una fila di donne gemelle camminano in cerchio
avvolte in kimoni di carta
stringono in pugno di mano delle caraffe fumanti
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
La donna si volta e mi guarda,
mi invita a sedere con lei su dei grandi cuscini che accolgono rossi ricami di scene dorate campestri e d’oriente.
La donna non parla.
L’aria è in penombra.
Solo qualche lampada ad olio emette una debole luce che non si sparge nell’aria ma rimane sul posto.
Giallo e arancione.
Ancora penombra.
La donna al mio fianco mi passa una pipa di legno intarsiata,
la ha appena riempita con grazia di oppio pregiato,
cinese, afgano, birmano, curdo e giordano.
La donna non parla. Accenna col mento.
Ci sono altri uomini nella penombra della stanza nebbiosa,
li sento tossire.
Mi sposto solo di un metro per guardare un po’oltre.
Non posso vedere nessuno.
La sordomuta al mio fianco mi accenna col mento di rimanere al mio posto.
Mi stendo di nuovo.
Penso a quegli uomini che non vedo ma sento tossire.
Saranno cittadini del mondo,
lupi di mare,
commercianti di stoffe,
esploratori falliti,
criminali di guerra,
cercatori di pietre preziose.
Hanno il petto nudo e rigonfio,
le braccia disegnate da arterie di china.
Alcuni dormono sul fianco in attesa che il piacere li colga.
Altri con gli occhi stipati guardano il fumo che come poesia gli esce di bocca.
Altri ancora sono pronti a morire tra cinque minuti trivellati di colpi davanti a un bordello.
La mia pipa che fuma.
Ha un sapore di spezie e catrame.
Il fumo è bianco e denso e mi inonda i polmoni.
Tossisco.
Mi perdo in quei ricami dorati.
Chiudo gli occhi un istante.
Li riapro di colpo.
La donna è svanita.
E’ una sorda che canta.
Sono solo con la mia pipa.
La osservo.
E’ calda.
Ha disegnata su sé una folta foresta.
Ho caldo.
mi invita a sedere con lei su dei grandi cuscini che accolgono rossi ricami di scene dorate campestri e d’oriente.
La donna non parla.
L’aria è in penombra.
Solo qualche lampada ad olio emette una debole luce che non si sparge nell’aria ma rimane sul posto.
Giallo e arancione.
Ancora penombra.
La donna al mio fianco mi passa una pipa di legno intarsiata,
la ha appena riempita con grazia di oppio pregiato,
cinese, afgano, birmano, curdo e giordano.
La donna non parla. Accenna col mento.
Ci sono altri uomini nella penombra della stanza nebbiosa,
li sento tossire.
Mi sposto solo di un metro per guardare un po’oltre.
Non posso vedere nessuno.
La sordomuta al mio fianco mi accenna col mento di rimanere al mio posto.
Mi stendo di nuovo.
Penso a quegli uomini che non vedo ma sento tossire.
Saranno cittadini del mondo,
lupi di mare,
commercianti di stoffe,
esploratori falliti,
criminali di guerra,
cercatori di pietre preziose.
Hanno il petto nudo e rigonfio,
le braccia disegnate da arterie di china.
Alcuni dormono sul fianco in attesa che il piacere li colga.
Altri con gli occhi stipati guardano il fumo che come poesia gli esce di bocca.
Altri ancora sono pronti a morire tra cinque minuti trivellati di colpi davanti a un bordello.
La mia pipa che fuma.
Ha un sapore di spezie e catrame.
Il fumo è bianco e denso e mi inonda i polmoni.
Tossisco.
Mi perdo in quei ricami dorati.
Chiudo gli occhi un istante.
Li riapro di colpo.
La donna è svanita.
E’ una sorda che canta.
Sono solo con la mia pipa.
La osservo.
E’ calda.
Ha disegnata su sé una folta foresta.
Ho caldo.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Chiudo gli occhi.
Sale da terra un canto stonato e dimesso.
Tante voci straniere l’un l’altra bisbigliano.
Sono tutti in procinto di addormentarsi nel fumo.
Stanno tutti nascosti nel silenzio del sonno e dell’oppio che sale.
Apro gli occhi di nuovo.
Fumo.
Delle ombre si muovono stanche dietro i ventagli giganti di lino e di seta che mi separano dalle vite degl’altri.
Ho sempre più caldo.
Sudo.
Mi ammalo.
Fumo ancora.
Chiudo gli occhi.
Dove sono?
Siamo a Suburra.
Sale da terra un canto stonato e dimesso.
Tante voci straniere l’un l’altra bisbigliano.
Sono tutti in procinto di addormentarsi nel fumo.
Stanno tutti nascosti nel silenzio del sonno e dell’oppio che sale.
Apro gli occhi di nuovo.
Fumo.
Delle ombre si muovono stanche dietro i ventagli giganti di lino e di seta che mi separano dalle vite degl’altri.
Ho sempre più caldo.
Sudo.
Mi ammalo.
Fumo ancora.
Chiudo gli occhi.
Dove sono?
Siamo a Suburra.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
L’immaginazione è fatta di ricordi e esperienze più o meno consce.
Non inventiamo più niente possiamo solo montare in maniera più o meno lucida e originale frammenti di cose già viste, vissute e sentite.
(cfr. ”C’era una volta in America”1984 Sergio Leone, Noodles nella fumeria d’oppio)
Siamo solo moscerini in questa terra di mezzo insalubre e ferita,
dove le fogne son fiumi, le pozze son mari, le parole pretese e minacce.
Avremmo dovuto essere tutti alti prelati col vizio del gioco,
costruttori di case di panna,
banchieri di dio,
servi della gleba al servizio di un papa corrotto,
sottosegretari ai trasporti su gomma,
consiglieri con delega alle canne di coca,
vice capi di gabinetto che spacciano cialis,
assessori all’amianto,
onorevoli che si autoleccano il culo,
zingari obesi sul trono di Roma.
E invece?
E invece siamo soltanto un pugno di mosche in attesa che qualcuno ci schiacci.
Non inventiamo più niente possiamo solo montare in maniera più o meno lucida e originale frammenti di cose già viste, vissute e sentite.
(cfr. ”C’era una volta in America”1984 Sergio Leone, Noodles nella fumeria d’oppio)
Siamo solo moscerini in questa terra di mezzo insalubre e ferita,
dove le fogne son fiumi, le pozze son mari, le parole pretese e minacce.
Avremmo dovuto essere tutti alti prelati col vizio del gioco,
costruttori di case di panna,
banchieri di dio,
servi della gleba al servizio di un papa corrotto,
sottosegretari ai trasporti su gomma,
consiglieri con delega alle canne di coca,
vice capi di gabinetto che spacciano cialis,
assessori all’amianto,
onorevoli che si autoleccano il culo,
zingari obesi sul trono di Roma.
E invece?
E invece siamo soltanto un pugno di mosche in attesa che qualcuno ci schiacci.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Sono andato a vedere “Suburra”.
E non “Gomorra”.
“Suburra” non c’entra niente con Gomorra che è un altro film,
un’altra città e presto anche un’altra serie.
E invece no.
C’entra e come se c’entra, perché il regista della serie “Gomorra” (e non del film) è Stefano Sollima che è anche il regista del film “Suburra”, che non parla di Napoli e zone limitrofe ma di Roma e di Ostia, che è poi anche il regista della serie “Romanzo criminale”, di “ACAB” e che sarà anche il regista di “Zero, zero, zero” l’ultimo romanzo di Roberto Saviano.
Non avrei voluto scrivere di questo film, ho provato a guardarne altri ma niente da fare.
Ero pronto per scrivere di “Everest” ma poi ho letto un paio di recensioni e allora mi è andata via la voglia.
Uno scalatore mancato.
Anzi fallito, ecco cosa sono.
Uno scalatore fallito.
Di questo “Suburra” credo sia stato detto tutto e di più.
Suburra, la terra di nessuno, di mezzo e di tutti o anzi di pochi dalla quale si comanda l’Italia.
“Il mondo di mezzo”.
Nel film c’è tutto e di più:
Benedetto XVI che si dimette.
Politici corrotti che pippano, scopano, fumano il crack.
Malavitosi ignoranti.
Favino che piscia su Roma.
Malavitosi in borghese.
Roma cafona.
Poi ancora il governo che cade,
guerre al mercato,
fucilate silenti,
eroina iniettata e fumata ,
sesso di gruppo,
famiglie di zingari in ville barocche,
auto di lusso,
piove a dirotto,
bambini rapiti,
feste buzzurre.
C’è tutto.
C’è troppo.
E’ un film grasso, pieno.
C’è anche tanta, tantissima musica come in tutti gli ultimi film italiani più grandi (parlo da un punto di vista produttivo),che come sempre quando è troppa sembra volere coprire qualcosa che manca, riempire dei vuoti, colmare voragini.
Mentre guardo il film la prima cosa che mi viene in mente è questa: è un film tamarro.
Anzi burino, siamo a Roma, non si dice tamarro, si dice burino. Coatto.
Mi spiego meglio: non ho ancora chiaro se il film sia volutamente burino perché parla di persone burine o sia Stefano Sollima stesso un regista burino.
Riflettendoci anche la serie “Gomorra” è un po’ burina e sono sicuro in questo caso che quello che io definisco burino va oltre i personaggi e il mondo che si raccontano nel film.
Personaggi burini di un mondo burino.
Vorrei andare oltre.
In effetti il film “Gomorra” girato da Matteo Garrone, a differenza della serie omonima non è per niente burino, anzi è crudo e asciutto parecchio.
Detto questo la soluzione sembra una: Sollima è un burino.
Possibile?
Non credo sia questo il punto.
Non ho il coraggio e non mi permetto di dirlo.
Credo piuttosto che Sollima affronti un genere cinematografico ben preciso (che genere è? Poliziesco? Noir? Chi se ne frega?) e lo faccia calcando molto la mano su alcuni tratti che sommati gli uni agli altri rendono le sue opere eccessivamente cariche.
La recitazione è sempre molto pesante, debordante, stereotipata, viziosa, in due parole troppa e tanta.
Gli attori non sono mai credibili e sono sempre artificiosi.
Sempre.
Siano essi il ciccione di “Gomorra” (la serie), siano il capo della banda della Magliana in “Romanzo criminale” (la serie), sia Favino in “Suburra”.
I personaggi sono al limite del grottesco.
Sono ridicoli.
Sottolineano le loro azioni e i loro pensieri con delle espressioni dementi tali da rendere gli attori delle macchiette. Non sembrano dei personaggi, sembrano le imitazioni di quei personaggi.
Favino sembra a volte una rana gigante altre volte un pornodivo.
La fotografia è sempre barocca e melodrammatica.
Le scenografie eccessivamente didascaliche sostituiscono il trattamento psicologico e drammaturgico assenti dei personaggi. Parlano al posto loro. Il che non è necessariamente un difetto.
La sceneggiatura utilizza una serie infinita di scene a forti tinte drammatiche per colpire, stupire e portare avanti la narrazione: scene di nudo, scene cruente, inseguimenti esasperati, donne punk e tossiche che ammazzano tutti.
Insomma Sollima non sarà certo un burino ma neanche un regista sobrio, asciutto e minimale.
Nei personaggi del film non c’è traccia alcuna di approfondimento psicologico, di morale, sia essa positiva e negativa, di speranza, dubbio, certezza.
Sono personaggi vuoti anzi pieni di frasi manifesto e sguardi di plastica che preannunciano una pistolettata, una fuga, una riga di coca.
Non c’è spazio per momenti estemporanei, assurdi, leggeri. Tutto gira intorno a una serie di scene drammatiche e corpose nelle quali si ricerca l’epica costi quel che costi.
Si cerca con insistenza il film di culto.
Si cerca con forza di piacere.
Si cerca in tutti i modi lo stereotipo del film di mafia, del film sui criminali e il malaffare e da quello stereotipo non ci si distacca di un passo, non si aggiunge niente di nuovo e manco lo si imita a modo.
Non basta mostrare un criminale mafioso, un faccendiere corrotto, un sesso che piscia, la droga e la morte per consacrare ed urlare un film alla storia del cinema.
Questo film ha un esplicito intento ovvero quello di divenire di culto e questo è mio modo di vedere uno slancio povero e triste.
Si punta al risultato tralasciando forma e contenuto.
I lavori di Sollima non hanno il peso, la caratura, la sincerità, la vita di quelli di Scorsese, Coppola, De Palma e Leone e per questo non potranno mai divenire dei classici,
proprio perché puntano dichiaratamente a tale obbiettivo: non rinnovano un mito e manco ne raccontan di nuovi.
Il mito del criminale, del narcotrafficante, del mafioso è un mito già consumato da tanto buon cinema, da tanti romanzi e dal buon giornalismo d’inchiesta.
I miti non si reinventano, non si modernizzano, restano per definizione eterni e uguali a se stessi. Sono dei miti e dunque dei classici.
“Suburra” è un film povero che fa leva su piccole cose che impressionano, urlano e sono berciate,
che sono per coloro che non vedono e guardano,
per tutti coloro che quello che vogliono è l’intrattenimento e il riposo.
Non c’è la denuncia.
Non si sente il racconto di qualcosa che esiste e scorre tra noi.
Non si sente il peso della ricostruzione storica, l’approfondimento giornalistico, l’autorialità di una storia raccontata e che esiste.
Non mi sento coinvolto con spirito critico mentre guardo questa rappresentazione del mondo di mezzo nel quale impotente sosto in attesa.
Vedo soltanto una serie di scene montate una sull’altra che intendono scioccare e stupire berciando, che poi sono sempre le stesse: scene di sesso, scene di droga, pistolettate, onore e machismo.
C’è anche Elio Germano che si contiene ed è bravo.
C’è Alessandro Borghi che è il più bravo di tutti (“Non essere cattivo”di Claudio Caligari 2015).
I suoi occhi spiritati di azzurro sembrano palle di biliardo impazzite proprio come quella col numero otto che ha tatuata sul capo.
Il personaggio di Amendola è l’unico sobrio e realistico.
Mi è piaciuto e ha stupito, sembra andarci quasi a braccetto col male, il dolore, il malaffare e il potere.
Poi ci sono un paio di donne nude e drogate che fanno ben poco oltre essere nude, scopare, drogarsi, sparare e morire.
Stop.
E non “Gomorra”.
“Suburra” non c’entra niente con Gomorra che è un altro film,
un’altra città e presto anche un’altra serie.
E invece no.
C’entra e come se c’entra, perché il regista della serie “Gomorra” (e non del film) è Stefano Sollima che è anche il regista del film “Suburra”, che non parla di Napoli e zone limitrofe ma di Roma e di Ostia, che è poi anche il regista della serie “Romanzo criminale”, di “ACAB” e che sarà anche il regista di “Zero, zero, zero” l’ultimo romanzo di Roberto Saviano.
Non avrei voluto scrivere di questo film, ho provato a guardarne altri ma niente da fare.
Ero pronto per scrivere di “Everest” ma poi ho letto un paio di recensioni e allora mi è andata via la voglia.
Uno scalatore mancato.
Anzi fallito, ecco cosa sono.
Uno scalatore fallito.
Di questo “Suburra” credo sia stato detto tutto e di più.
Suburra, la terra di nessuno, di mezzo e di tutti o anzi di pochi dalla quale si comanda l’Italia.
“Il mondo di mezzo”.
Nel film c’è tutto e di più:
Benedetto XVI che si dimette.
Politici corrotti che pippano, scopano, fumano il crack.
Malavitosi ignoranti.
Favino che piscia su Roma.
Malavitosi in borghese.
Roma cafona.
Poi ancora il governo che cade,
guerre al mercato,
fucilate silenti,
eroina iniettata e fumata ,
sesso di gruppo,
famiglie di zingari in ville barocche,
auto di lusso,
piove a dirotto,
bambini rapiti,
feste buzzurre.
C’è tutto.
C’è troppo.
E’ un film grasso, pieno.
C’è anche tanta, tantissima musica come in tutti gli ultimi film italiani più grandi (parlo da un punto di vista produttivo),che come sempre quando è troppa sembra volere coprire qualcosa che manca, riempire dei vuoti, colmare voragini.
Mentre guardo il film la prima cosa che mi viene in mente è questa: è un film tamarro.
Anzi burino, siamo a Roma, non si dice tamarro, si dice burino. Coatto.
Mi spiego meglio: non ho ancora chiaro se il film sia volutamente burino perché parla di persone burine o sia Stefano Sollima stesso un regista burino.
Riflettendoci anche la serie “Gomorra” è un po’ burina e sono sicuro in questo caso che quello che io definisco burino va oltre i personaggi e il mondo che si raccontano nel film.
Personaggi burini di un mondo burino.
Vorrei andare oltre.
In effetti il film “Gomorra” girato da Matteo Garrone, a differenza della serie omonima non è per niente burino, anzi è crudo e asciutto parecchio.
Detto questo la soluzione sembra una: Sollima è un burino.
Possibile?
Non credo sia questo il punto.
Non ho il coraggio e non mi permetto di dirlo.
Credo piuttosto che Sollima affronti un genere cinematografico ben preciso (che genere è? Poliziesco? Noir? Chi se ne frega?) e lo faccia calcando molto la mano su alcuni tratti che sommati gli uni agli altri rendono le sue opere eccessivamente cariche.
La recitazione è sempre molto pesante, debordante, stereotipata, viziosa, in due parole troppa e tanta.
Gli attori non sono mai credibili e sono sempre artificiosi.
Sempre.
Siano essi il ciccione di “Gomorra” (la serie), siano il capo della banda della Magliana in “Romanzo criminale” (la serie), sia Favino in “Suburra”.
I personaggi sono al limite del grottesco.
Sono ridicoli.
Sottolineano le loro azioni e i loro pensieri con delle espressioni dementi tali da rendere gli attori delle macchiette. Non sembrano dei personaggi, sembrano le imitazioni di quei personaggi.
Favino sembra a volte una rana gigante altre volte un pornodivo.
La fotografia è sempre barocca e melodrammatica.
Le scenografie eccessivamente didascaliche sostituiscono il trattamento psicologico e drammaturgico assenti dei personaggi. Parlano al posto loro. Il che non è necessariamente un difetto.
La sceneggiatura utilizza una serie infinita di scene a forti tinte drammatiche per colpire, stupire e portare avanti la narrazione: scene di nudo, scene cruente, inseguimenti esasperati, donne punk e tossiche che ammazzano tutti.
Insomma Sollima non sarà certo un burino ma neanche un regista sobrio, asciutto e minimale.
Nei personaggi del film non c’è traccia alcuna di approfondimento psicologico, di morale, sia essa positiva e negativa, di speranza, dubbio, certezza.
Sono personaggi vuoti anzi pieni di frasi manifesto e sguardi di plastica che preannunciano una pistolettata, una fuga, una riga di coca.
Non c’è spazio per momenti estemporanei, assurdi, leggeri. Tutto gira intorno a una serie di scene drammatiche e corpose nelle quali si ricerca l’epica costi quel che costi.
Si cerca con insistenza il film di culto.
Si cerca con forza di piacere.
Si cerca in tutti i modi lo stereotipo del film di mafia, del film sui criminali e il malaffare e da quello stereotipo non ci si distacca di un passo, non si aggiunge niente di nuovo e manco lo si imita a modo.
Non basta mostrare un criminale mafioso, un faccendiere corrotto, un sesso che piscia, la droga e la morte per consacrare ed urlare un film alla storia del cinema.
Questo film ha un esplicito intento ovvero quello di divenire di culto e questo è mio modo di vedere uno slancio povero e triste.
Si punta al risultato tralasciando forma e contenuto.
I lavori di Sollima non hanno il peso, la caratura, la sincerità, la vita di quelli di Scorsese, Coppola, De Palma e Leone e per questo non potranno mai divenire dei classici,
proprio perché puntano dichiaratamente a tale obbiettivo: non rinnovano un mito e manco ne raccontan di nuovi.
Il mito del criminale, del narcotrafficante, del mafioso è un mito già consumato da tanto buon cinema, da tanti romanzi e dal buon giornalismo d’inchiesta.
I miti non si reinventano, non si modernizzano, restano per definizione eterni e uguali a se stessi. Sono dei miti e dunque dei classici.
“Suburra” è un film povero che fa leva su piccole cose che impressionano, urlano e sono berciate,
che sono per coloro che non vedono e guardano,
per tutti coloro che quello che vogliono è l’intrattenimento e il riposo.
Non c’è la denuncia.
Non si sente il racconto di qualcosa che esiste e scorre tra noi.
Non si sente il peso della ricostruzione storica, l’approfondimento giornalistico, l’autorialità di una storia raccontata e che esiste.
Non mi sento coinvolto con spirito critico mentre guardo questa rappresentazione del mondo di mezzo nel quale impotente sosto in attesa.
Vedo soltanto una serie di scene montate una sull’altra che intendono scioccare e stupire berciando, che poi sono sempre le stesse: scene di sesso, scene di droga, pistolettate, onore e machismo.
C’è anche Elio Germano che si contiene ed è bravo.
C’è Alessandro Borghi che è il più bravo di tutti (“Non essere cattivo”di Claudio Caligari 2015).
I suoi occhi spiritati di azzurro sembrano palle di biliardo impazzite proprio come quella col numero otto che ha tatuata sul capo.
Il personaggio di Amendola è l’unico sobrio e realistico.
Mi è piaciuto e ha stupito, sembra andarci quasi a braccetto col male, il dolore, il malaffare e il potere.
Poi ci sono un paio di donne nude e drogate che fanno ben poco oltre essere nude, scopare, drogarsi, sparare e morire.
Stop.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Era meglio se scrivevo di “Everest”.
Mi faranno querela perchè gli ho detto burino.
Lasciatemi perdere sono solo uno scalatore fallito.
Vado a vedere “Alaska” al Fiorella,
non so di che parla
ha un bellissimo titolo.
Se faccio una figlia la chiamerò Alaska.
Se faccio un figliolo lo cresco in Alaska.
Se cresci in Alaska sali anche sui muri.
Mi faranno querela perchè gli ho detto burino.
Lasciatemi perdere sono solo uno scalatore fallito.
Vado a vedere “Alaska” al Fiorella,
non so di che parla
ha un bellissimo titolo.
Se faccio una figlia la chiamerò Alaska.
Se faccio un figliolo lo cresco in Alaska.
Se cresci in Alaska sali anche sui muri.
Veniamo alle pagelle:
Una palletta
Una stelletta.
E’ un quattro tondo tondo per il vecchio Sollima.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Una palletta
Una stelletta.
E’ un quattro tondo tondo per il vecchio Sollima.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 17
"Ritorno alla vita"
di Wim Wenders
Sceneggiatura di: Bjorn Olaf Johannessenn
Fotografia: Benoit Debie
Montaggio: Toni Froschhammer
Con: James Franco, Charlotte Gainsbourg, Rachel McAdams, Marie Josee Croze
Prodotto da: Neue Road movies
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Caro Wim Wenders,
mi chiamo Lorenzo ho trentatré anni
e ti scrivo da un posto molto lontano
dove il vino sgorga dai fiori,
l’acqua scorre sugli alberi,
i pesci son foglie
e le stelle nascon di giorno.
Ti scrivo per farti solo una semplice domanda:
Perché hai fatto quest’ultimo film?
Questa è sempre una buona domanda da porre a un regista
e non ho mai capito perché non sia prassi
porla ogni qualvolta venga presentato un nuovo film.
Ma queste sono solo mie riflessioni.
Perdona la mia digressione e torniamo a noi.
Perché hai fatto quest’ultimo film?
Io che sono un tuo fan,
che sono cresciuto con i tuoi film degli anni ’70 e ’80 e pure ’90,
quelli fotografati da Robbie Muller con il suo bianco e nero che amo e ho amato
come il sole,
più dei pesci,
come il vino.
Quegli stessi film che tre volte su tre erano interpretati da quello strano esempio di maschio tedesco che è Rudriger Vogler.
Io che ho sognato per anni di rifare il tuo capolavoro “Nel corso del tempo” (1976 ). Io che ho amato i tuoi documentari,
gli ultimi e i primi (su tutti “Nick’s movie, lampi sull’acqua”1980).
Io che avrei voluto girare
“Alice nelle città” (1973) ma ancora non c’ero,
“Lo stato delle cose” (1982) ma stavo nascendo,
“Paris Texas” (1984) ma avevo due anni,
“Così lontano così vicino” (1993) e ancora
“The Million Dollar Hotel” (2000) e
“Il sale della terra” (2014)
Io che avrei voluto essere tedesco proprio come te.
Io che avrei voluto avere i tuoi capelli,
i tuoi occhiali e il tuo naso,
io che avrei voluto che i miei film avessero quello stesso bianco e nero che hanno i tuoi e quello stesso bianco e nero che hanno i tuoi capelli ruggenti.
Io che avrei voluto amare il cinema come te,
io che avrei voluto non avere paura di niente come te
e fare un sacco di film strani e di ricerca senza prestare attenzione a quello che dice la gente,
a quello che pensa la gente,
a quello che vuole e che vede la gente.
Ecco,
io che sono anzi non sono tutto questo
ti chiedo: «ma cosa ti passava per la testa,
tra quei capelli bianchi e neri proprio come i tuoi primi film
quando hai deciso che quella sceneggiatura scritta dal giovane Bjorn Olaf Johannessenn sarebbe diventata il tuo ultimo lavoro?»
mi chiamo Lorenzo ho trentatré anni
e ti scrivo da un posto molto lontano
dove il vino sgorga dai fiori,
l’acqua scorre sugli alberi,
i pesci son foglie
e le stelle nascon di giorno.
Ti scrivo per farti solo una semplice domanda:
Perché hai fatto quest’ultimo film?
Questa è sempre una buona domanda da porre a un regista
e non ho mai capito perché non sia prassi
porla ogni qualvolta venga presentato un nuovo film.
Ma queste sono solo mie riflessioni.
Perdona la mia digressione e torniamo a noi.
Perché hai fatto quest’ultimo film?
Io che sono un tuo fan,
che sono cresciuto con i tuoi film degli anni ’70 e ’80 e pure ’90,
quelli fotografati da Robbie Muller con il suo bianco e nero che amo e ho amato
come il sole,
più dei pesci,
come il vino.
Quegli stessi film che tre volte su tre erano interpretati da quello strano esempio di maschio tedesco che è Rudriger Vogler.
Io che ho sognato per anni di rifare il tuo capolavoro “Nel corso del tempo” (1976 ). Io che ho amato i tuoi documentari,
gli ultimi e i primi (su tutti “Nick’s movie, lampi sull’acqua”1980).
Io che avrei voluto girare
“Alice nelle città” (1973) ma ancora non c’ero,
“Lo stato delle cose” (1982) ma stavo nascendo,
“Paris Texas” (1984) ma avevo due anni,
“Così lontano così vicino” (1993) e ancora
“The Million Dollar Hotel” (2000) e
“Il sale della terra” (2014)
Io che avrei voluto essere tedesco proprio come te.
Io che avrei voluto avere i tuoi capelli,
i tuoi occhiali e il tuo naso,
io che avrei voluto che i miei film avessero quello stesso bianco e nero che hanno i tuoi e quello stesso bianco e nero che hanno i tuoi capelli ruggenti.
Io che avrei voluto amare il cinema come te,
io che avrei voluto non avere paura di niente come te
e fare un sacco di film strani e di ricerca senza prestare attenzione a quello che dice la gente,
a quello che pensa la gente,
a quello che vuole e che vede la gente.
Ecco,
io che sono anzi non sono tutto questo
ti chiedo: «ma cosa ti passava per la testa,
tra quei capelli bianchi e neri proprio come i tuoi primi film
quando hai deciso che quella sceneggiatura scritta dal giovane Bjorn Olaf Johannessenn sarebbe diventata il tuo ultimo lavoro?»
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Come direbbe Sailor (Nicholas Cage) a Lula (Laura Dern) in “Cuore selvaggio” (David Lynch,1990) “il modo in cui funziona la tua testa è uno dei più grandi misteri del creato”
e aggiungerei io,
il modo in cui funzionano anche i tuoi capelli è un grande mistero del creato,
proprio come quelli di David Lynch che infatti sono simili ai tuoi.
Wim questo e quanto,
spero tu possa rispondermi al più presto,
se poi non mi rispondi amen.
Sul retro della busta potrai trovare il mio indirizzo.
Ti ringrazio per la tua gentile attenzione,
un abbraccio grande,
Lorenzo.
Sono ancora al cinema Portico.
Di nuovo.
Sono sempre qui.
Ormai sono di casa.
Ultima fila.
Sono disteso ma seduto.
Stravaccato.
Il proiezionista del cinema qualche giorno fa,
dopo aver letto la mia recensione precedente del film “L’attesa” di Piero Messina
mi ha scritto su Facebook
e per fortuna non si è arrabbiato per tutti gli stupidi commenti che ho fatto sulla sua sala e i vecchi che la abitano,
ma anzi,
dice di aver apprezzato la mia recensione,
eravamo in disaccordo solo rispetto alla Chiesa del “Sacro cuore di Gesù” (accanto al cinema Portico di Firenze) che lui trova bella e io orrenda.
e aggiungerei io,
il modo in cui funzionano anche i tuoi capelli è un grande mistero del creato,
proprio come quelli di David Lynch che infatti sono simili ai tuoi.
Wim questo e quanto,
spero tu possa rispondermi al più presto,
se poi non mi rispondi amen.
Sul retro della busta potrai trovare il mio indirizzo.
Ti ringrazio per la tua gentile attenzione,
un abbraccio grande,
Lorenzo.
Sono ancora al cinema Portico.
Di nuovo.
Sono sempre qui.
Ormai sono di casa.
Ultima fila.
Sono disteso ma seduto.
Stravaccato.
Il proiezionista del cinema qualche giorno fa,
dopo aver letto la mia recensione precedente del film “L’attesa” di Piero Messina
mi ha scritto su Facebook
e per fortuna non si è arrabbiato per tutti gli stupidi commenti che ho fatto sulla sua sala e i vecchi che la abitano,
ma anzi,
dice di aver apprezzato la mia recensione,
eravamo in disaccordo solo rispetto alla Chiesa del “Sacro cuore di Gesù” (accanto al cinema Portico di Firenze) che lui trova bella e io orrenda.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Forse ha ragione lui che la guarda tutti i giorni.
Se una cosa la guardi tutti i giorni è un po’ anche tua
e se una cosa è anche tua magari non la conosci meglio
ma hai una certa autorità per parlarne con gli altri.
Non so se è realmente brutta ma so di certo che non è bella.
Chissà Signor Proiezionista se ci incontreremo mai di persona?
Speriamo di sì.
Io sarò quello con l’ombrello di altri tempi.
Lei mi riconoscerà.
Io le darò la mano,
lei mi darà la mano,
ci diremo “piacere”,
lei mi spiegherà i segreti di quella Chiesa moderna e confusa,
io quelli del calcio totale dell’Olanda di Cruijff,
lei mi dirà che del calcio sa tutto e che giocava ala destra,
io le dirò di quando incontrai Conti, Garrincha, Lombardo e Fuser
insieme per mano,
a mangiare il gelato sul porto di Bari guardando le barche.
Solo a quel punto lei mi dirà dei segreti e dell’arte del suo magico e antico lavoro,
di quando il proiezionista nascosto dietro al suo proiettore
per amore del cinema rischiava di saltare per aria o di proiettare un film al contrario.
E io capirò.
E dirò che sì,
quella chiesa è anche bella,
sì è bella davvero,
che ho giocato a calcio da giovane ed ero anch’io ala destra e col numero sette,
che l’Olanda di Cruijff,
sì, forse era peggio del Milan di Sacchi
ma anche meglio della Juve di Lippi
e che i film fino a qualche anno fa potevano esplodere e saltare per aria.
Lo raccontava Wim Wenders nel film “Nel corso del tempo” (1976),
ma non lo sanno poi tutti,
un film è di chi lo gira,
di chi lo paga,
di chi lo illumina,
di chi lo monta,
di chi lo guarda ma anche di chi lo proietta.
In molti dimenticano o forse non sanno che proiettare un film è un’arte
e che senza chi di quell’arte dispone il miracolo del cinema mai si sarebbe compiuto.
Del resto proiettare non è così diverso da riprendere,
sono uno parte dell’altro e non a caso nati gemelli e siamesi.
Arrivederci Signor Proiezionista.
Ci vedremo tra qualche giorno “Nel corso del tempo” (Wim Wenders 1976),
quel film è per lei.
E grazie ancora una volta per tutti quei film che nel corso di questi trentatre anni
lei ha illuminato per me.
Se una cosa la guardi tutti i giorni è un po’ anche tua
e se una cosa è anche tua magari non la conosci meglio
ma hai una certa autorità per parlarne con gli altri.
Non so se è realmente brutta ma so di certo che non è bella.
Chissà Signor Proiezionista se ci incontreremo mai di persona?
Speriamo di sì.
Io sarò quello con l’ombrello di altri tempi.
Lei mi riconoscerà.
Io le darò la mano,
lei mi darà la mano,
ci diremo “piacere”,
lei mi spiegherà i segreti di quella Chiesa moderna e confusa,
io quelli del calcio totale dell’Olanda di Cruijff,
lei mi dirà che del calcio sa tutto e che giocava ala destra,
io le dirò di quando incontrai Conti, Garrincha, Lombardo e Fuser
insieme per mano,
a mangiare il gelato sul porto di Bari guardando le barche.
Solo a quel punto lei mi dirà dei segreti e dell’arte del suo magico e antico lavoro,
di quando il proiezionista nascosto dietro al suo proiettore
per amore del cinema rischiava di saltare per aria o di proiettare un film al contrario.
E io capirò.
E dirò che sì,
quella chiesa è anche bella,
sì è bella davvero,
che ho giocato a calcio da giovane ed ero anch’io ala destra e col numero sette,
che l’Olanda di Cruijff,
sì, forse era peggio del Milan di Sacchi
ma anche meglio della Juve di Lippi
e che i film fino a qualche anno fa potevano esplodere e saltare per aria.
Lo raccontava Wim Wenders nel film “Nel corso del tempo” (1976),
ma non lo sanno poi tutti,
un film è di chi lo gira,
di chi lo paga,
di chi lo illumina,
di chi lo monta,
di chi lo guarda ma anche di chi lo proietta.
In molti dimenticano o forse non sanno che proiettare un film è un’arte
e che senza chi di quell’arte dispone il miracolo del cinema mai si sarebbe compiuto.
Del resto proiettare non è così diverso da riprendere,
sono uno parte dell’altro e non a caso nati gemelli e siamesi.
Arrivederci Signor Proiezionista.
Ci vedremo tra qualche giorno “Nel corso del tempo” (Wim Wenders 1976),
quel film è per lei.
E grazie ancora una volta per tutti quei film che nel corso di questi trentatre anni
lei ha illuminato per me.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Piove anche oggi.
Nemmeno una bici.
Manco un calesse.
Manco un cavallo.
Il solito ombrello.
Una camicia.
Niente cappello.
Piedi bagnati.
Passo veloce.
Sono un atleta.
Sono un atleta.
Uno scalatore mancato.
No,
sono un cowboy.
Sono un cowboy.
Ho gli speroni.
Un cinturone con le pistole e un fucile.
Devo mettere gli stivali più spesso.
L’ultimo film di Wim Wenders che non c’entra niente con i cowboy è un film in 3d,
come il terz’ultimo (“Pina”, 2011),
e non come il penultimo (“Il sale della terra”, 2014).
Io me lo guardo in 2d un po’ perché annuso che il 3d in questo film non serve a un tubo,
un po’ perché mettermi quegli occhialetti rossi e blu mi provoca un profondo fastidio,
mi stanno sempre grandi e ho il terrore di prendere la congiuntivite e l’orzaiolo.
E poi diciamocelo,
il 3d per me è una gran cavolata.È marketing,
solo marketing.
È spettacolo.
Solo spettacolo
E io non voglio vedere lo spettacolo,
io voglio vedere il cinema.
Fanculo alla spettacolarizzazione di tutto e di tutti.
Fanculo allo show must go on.
Fanculo allo showbitz.
Fanculo allo show.
Fanculo al fumo negl’occhi.
Fanculo all’intrattenimento.
Fanculo agl’occhialetti.
Fanculo i dinosauri e le astronavi.
Abbiamo bisogno di contenuti,
di emozioni e di nuovi linguaggi
non di patatine e cheerleaders.
Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film funziona di più?
Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film ti coinvolge di più?
Chi ha mai detto che un film debba essere un’esperienza di coinvolgimento totale?
Chi ha mai detto che due dimensioni sono poche e tre sono meglio?
Chi ha mai detto che è bello entrar dentro a un film o scansare asteroidi?
Beh qualcuno lo ha detto,
anzi in tanti,
ciò non toglie che io non la penso così
e non solo credo che il cinema sia in due dimensioni perché sono un conservatore
ma soprattutto perché il cinema è vita e morte
e la vita e la morte le vivi in tre, quattro, quattrocentocinquantamila dimensioni
ma le pensi,
le racconti e le ricordi in due.
E quello che conta è ciò che racconti a te stesso di quello che sei e di quello che fai più di quello che realmente sei e fai.
Quindi ancora una volta fanculo.
Calma.
Proverò a dire qualcosa adesso:
l’utilizzo del 3d aveva più senso in “Pina” (2011),
nel quale il suo uso aveva uno scopo ben preciso e cioè quello di sottolineare il dinamismo e la muscolarità dei corpi,
sembra quasi esserci un tentativo da parte di Wenders di far diventare lo spettatore stesso parte della coreografia.
In una parola: un ballerino.
E questa è una cosa che ha senso.
E questa è una legge che nel cinema spesso va a farsi fottere.
Perché usi quella speciale tecnica di ripresa?
Perché usi quel tipo di luce?
Perché metti la macchina da presa proprio li e non da un’altra parte?
Risposta:
Perché per dire quello che voglio dire devo e posso fare solo quello che sto facendo.
Ad esempio:
la macchina da presa deve stare li e non da altre parti,
ogni singola inquadratura di uno stesso soggetto ma da angolature diverse ha un senso e un significato differente.
Non ci devono essere movimenti di macchina,
la macchina a mano esprime una cosa,
la macchina fissa ne esprime un’altra,
il dolly un’altra ancora.
Voglio una luce fredda e di taglio e non un controluce…
Voglio questo perché solo in questo modo posso dire quello che intendo dire.
Questo è un ragionamento cinematografico che ha senso.
Questo è un uso consapevole della grammatica del cinema.
Questo è quello che si definisce linguaggio cinematografico.
A differenza dell’uso spregiudicato e privo di senso di droni,
telecamere volanti,
occhialetti rossi e blu,
terze dimensioni e stady-cam radiocomandate
buttate per aria senza una logica e senza alcuna esigenza narrativa ed espressiva.
E questa si chiama regia.
Devo sapere con quali parole (strumenti tecnici)
dire (mettere in scena) ciò che voglio dire.
Si può essere opulenti,
carichi,
dimostrativi e pacchiani
basta che tutti quegli orpelli abbiano senso di esistere.
Io comunque nel mio piccolo continuo a tifare per la sobrietà,
per i poveri e quelli magri e malmessi.
Nemmeno una bici.
Manco un calesse.
Manco un cavallo.
Il solito ombrello.
Una camicia.
Niente cappello.
Piedi bagnati.
Passo veloce.
Sono un atleta.
Sono un atleta.
Uno scalatore mancato.
No,
sono un cowboy.
Sono un cowboy.
Ho gli speroni.
Un cinturone con le pistole e un fucile.
Devo mettere gli stivali più spesso.
L’ultimo film di Wim Wenders che non c’entra niente con i cowboy è un film in 3d,
come il terz’ultimo (“Pina”, 2011),
e non come il penultimo (“Il sale della terra”, 2014).
Io me lo guardo in 2d un po’ perché annuso che il 3d in questo film non serve a un tubo,
un po’ perché mettermi quegli occhialetti rossi e blu mi provoca un profondo fastidio,
mi stanno sempre grandi e ho il terrore di prendere la congiuntivite e l’orzaiolo.
E poi diciamocelo,
il 3d per me è una gran cavolata.È marketing,
solo marketing.
È spettacolo.
Solo spettacolo
E io non voglio vedere lo spettacolo,
io voglio vedere il cinema.
Fanculo alla spettacolarizzazione di tutto e di tutti.
Fanculo allo show must go on.
Fanculo allo showbitz.
Fanculo allo show.
Fanculo al fumo negl’occhi.
Fanculo all’intrattenimento.
Fanculo agl’occhialetti.
Fanculo i dinosauri e le astronavi.
Abbiamo bisogno di contenuti,
di emozioni e di nuovi linguaggi
non di patatine e cheerleaders.
Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film funziona di più?
Chi ha mai detto che se delle robe ti vengono addosso il film ti coinvolge di più?
Chi ha mai detto che un film debba essere un’esperienza di coinvolgimento totale?
Chi ha mai detto che due dimensioni sono poche e tre sono meglio?
Chi ha mai detto che è bello entrar dentro a un film o scansare asteroidi?
Beh qualcuno lo ha detto,
anzi in tanti,
ciò non toglie che io non la penso così
e non solo credo che il cinema sia in due dimensioni perché sono un conservatore
ma soprattutto perché il cinema è vita e morte
e la vita e la morte le vivi in tre, quattro, quattrocentocinquantamila dimensioni
ma le pensi,
le racconti e le ricordi in due.
E quello che conta è ciò che racconti a te stesso di quello che sei e di quello che fai più di quello che realmente sei e fai.
Quindi ancora una volta fanculo.
Calma.
Proverò a dire qualcosa adesso:
l’utilizzo del 3d aveva più senso in “Pina” (2011),
nel quale il suo uso aveva uno scopo ben preciso e cioè quello di sottolineare il dinamismo e la muscolarità dei corpi,
sembra quasi esserci un tentativo da parte di Wenders di far diventare lo spettatore stesso parte della coreografia.
In una parola: un ballerino.
E questa è una cosa che ha senso.
E questa è una legge che nel cinema spesso va a farsi fottere.
Perché usi quella speciale tecnica di ripresa?
Perché usi quel tipo di luce?
Perché metti la macchina da presa proprio li e non da un’altra parte?
Risposta:
Perché per dire quello che voglio dire devo e posso fare solo quello che sto facendo.
Ad esempio:
la macchina da presa deve stare li e non da altre parti,
ogni singola inquadratura di uno stesso soggetto ma da angolature diverse ha un senso e un significato differente.
Non ci devono essere movimenti di macchina,
la macchina a mano esprime una cosa,
la macchina fissa ne esprime un’altra,
il dolly un’altra ancora.
Voglio una luce fredda e di taglio e non un controluce…
Voglio questo perché solo in questo modo posso dire quello che intendo dire.
Questo è un ragionamento cinematografico che ha senso.
Questo è un uso consapevole della grammatica del cinema.
Questo è quello che si definisce linguaggio cinematografico.
A differenza dell’uso spregiudicato e privo di senso di droni,
telecamere volanti,
occhialetti rossi e blu,
terze dimensioni e stady-cam radiocomandate
buttate per aria senza una logica e senza alcuna esigenza narrativa ed espressiva.
E questa si chiama regia.
Devo sapere con quali parole (strumenti tecnici)
dire (mettere in scena) ciò che voglio dire.
Si può essere opulenti,
carichi,
dimostrativi e pacchiani
basta che tutti quegli orpelli abbiano senso di esistere.
Io comunque nel mio piccolo continuo a tifare per la sobrietà,
per i poveri e quelli magri e malmessi.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
“Ritorno alla vita”(e non “Wim Wenders –Ritorno alla vita-“ come molti chiamano il film su siti web e carta stampata, che detto così sembra un film su Wenders che resuscita) è un film con James Franco e Charlotte Gainsbourg.
Non sapevo cosa aspettarmi.
Non sapevo niente,
tranne appunto chi fosse il regista e quali i due attori protagonisti,
entrambi a mio modo di vedere ormai un po’ troppo sovraesposti
e quando si sovraespone lo si sa,
c’è il rischio di bruciare.
Chissà cosa si è inventato a questo giro il vecchio Wim ho pensato?
Intanto ha presentato il suo film al Festival di Berlino
e si è portato a casa un Orso d’oro alla carriera che male non fa.
Chissà se lo ha messo sopra la mensola del camino in salotto accanto al Leone,
anche lui alla carriera,
con il quale a Venezia nel ’95 lo abbiamo premiato?
Speriamo di sì,
almeno fanno amicizia.
Chissà se ha un camino?
Chi vince tra un orso e un leone?
L’orso senz’ombra di dubbio.
Il film in due parole racconta dodici anni di vita di uno scrittore, James Franco,
che si è rifugiato in mezzo alla neve per ritrovare l’ispirazione perduta.
Un giorno inavvertitamente,
a bordo della sua Jeep Wagooner con inserti in finta radica sulla fiancata,
investe e uccide uno dei due bambini di Charlotte Gainsbourg,
un’illustratrice un po’ triste e sola.
Passano gli anni e James Franco fa i conti con il senso di colpa,
la responsabilità e l’ispirazione,
metabolizza il trauma dell’incidente accaduto
sfogandolo nella scrittura.
Cambia donna,
cambia auto,
scrive tantissimi libri,
si compra una villa,
diventa felice e famoso.
Non sapevo cosa aspettarmi.
Non sapevo niente,
tranne appunto chi fosse il regista e quali i due attori protagonisti,
entrambi a mio modo di vedere ormai un po’ troppo sovraesposti
e quando si sovraespone lo si sa,
c’è il rischio di bruciare.
Chissà cosa si è inventato a questo giro il vecchio Wim ho pensato?
Intanto ha presentato il suo film al Festival di Berlino
e si è portato a casa un Orso d’oro alla carriera che male non fa.
Chissà se lo ha messo sopra la mensola del camino in salotto accanto al Leone,
anche lui alla carriera,
con il quale a Venezia nel ’95 lo abbiamo premiato?
Speriamo di sì,
almeno fanno amicizia.
Chissà se ha un camino?
Chi vince tra un orso e un leone?
L’orso senz’ombra di dubbio.
Il film in due parole racconta dodici anni di vita di uno scrittore, James Franco,
che si è rifugiato in mezzo alla neve per ritrovare l’ispirazione perduta.
Un giorno inavvertitamente,
a bordo della sua Jeep Wagooner con inserti in finta radica sulla fiancata,
investe e uccide uno dei due bambini di Charlotte Gainsbourg,
un’illustratrice un po’ triste e sola.
Passano gli anni e James Franco fa i conti con il senso di colpa,
la responsabilità e l’ispirazione,
metabolizza il trauma dell’incidente accaduto
sfogandolo nella scrittura.
Cambia donna,
cambia auto,
scrive tantissimi libri,
si compra una villa,
diventa felice e famoso.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
L’ultimo film di Wim Wenders è un film inutile?
Credo di sì.
A cosa serve?
A niente.
Che senso ha?
Nessuno.
Magari è un film fatto per essere contemplato,
un film fatto per il cinema?
No.
È un film fatto così tanto per fare?
Potrebbe sembrarlo.
Cosa c’è nel film oltre la storiella dello scrittore?
Il senso di colpa.
Poi?
Una riflessione sull’arte e sulla creazione di essa.
Che senso ha il senso di colpa nella vita moderna?
Nessuno.
Il senso di colpa lo ha inventato la Chiesa cattolica
e questo lo sanno anche i muri.
Il senso di colpa è la più grande delle azioni “paracule” nelle quali siamo soliti nuotare: commettiamo errori che continuiamo a ripetere all’infinito e poi soffriamo per quel che abbiamo deliberatamente commesso.
Il senso di colpa non ha senso, è la colpa ad averne.
Infatti se al senso di colpa togli il senso che cosa rimane?
La colpa.
Il senso di colpa è il male del mondo di oggi.
Il senso di colpa è il male dell’uomo cretino.
Il senso di colpa spesso guida e determina la vita e gli eventi.
Il senso di colpa lasciamolo ai preti.
Grazie al senso di colpa puoi diventare un grande scrittore.
Il film è noioso.
È noiosissimo.
Non ci sono colpi di scena,
non ci sono cambi repentini,
in due parole non succede un tubo:
passano gl’anni.
Si assiste semplicemente al cammino verso il successo di uno scrittore un po’ troppo bello per essere vero, che è riuscito a incanalare il suo senso di colpa e la sua sofferenza nella creazione e nell’arte.
Dobbiamo fargliene una colpa o forse rendergli merito?
Non credo.
Ognuno nei propri romanzi ci mette quel cavolo che gli pare.
Ognuno i propri traumi li metabolizza come meglio crede.
Ognuno il proprio senso di colpa lo estingue a modo suo o se lo tiene per tutta la vita.
Se qualcuno si sente in colpa non ce ne importa poi tanto,
sono affari suoi,
come è giusto che sia.
Noi cowboy la pensiamo così.
La vita è un rodeo
e le mie gambe son cavalli.
Il senso di colpa è un movimento dell’animo abietto e bigotto,
stupido e basso.
Fa bene lo scrittore James Franco ad anestetizzare il dolore
e a trasformare le sue pene in best seller
piuttosto che passare la vita a piangersi addosso.
Il personaggio di James Franco da questo punto di vista è onesto:
è interessante che Wenders ci racconti questa prospettiva piuttosto che quella scontata e banale del tizio che annaspa nel dolore per tutta la vita senza trovar via d’uscita.
Lo scrittore raccontato da Wenders non chiede perdono,
non si crogiola nel dolore,
si sente in colpa ma reagisce e torna alla vita grazie allo stesso trauma che da voragine diventa una molla;
nuota nel senso di colpa,
ci annaspa e lo mastica,
lo assapora e digerisce
poi lo sputa e rifiuta.
Poi c’è il personaggio di Charlotte Gainsbourg,
la madre sola e triste alla quale viene a mancare un figlio.
Un personaggio tetro,
noir,
catatonico,
avvolto in una strana atmosfera che scema tra la depressione,
la schizofrenia e la tizia di “Misery non deve morire” (Rob Reiner, 1990).
A un certo punto del film scompare nel niente e festa finita.
Dove è finita quella musona della Gainsbourg?
Boh.
Non ho ben capito che funzione debba avere questo personaggio:
è la madre del figlio che viene a mancare e fino a qui tutto bene,
è anche lei un’artista e questo probabilmente serve a fare da specchio a James Franco,
a sottolineare il forte legame che c’è tra dolore e creazione.
Poi?
Non lo so.
Serve a poco.
Infatti scompare.
Il film ,
come tutti i film di Wenders,
come del resto il Cinema stesso,
è anche una riflessione sul tempo e il suo scorrere.
L’opera per altro fotografa dodici anni di vita.
Ritorna una posizione ormai consueta dell’autore tedesco sull’ineluttabilità del tempo, sul suo correre e trascorrere e portarci via con lui,
un po’ come il vento ma senza aumentare o fermarsi,
senza la bora e il maestrale,
un vento costante,
una brezza leggera.
Credo di sì.
A cosa serve?
A niente.
Che senso ha?
Nessuno.
Magari è un film fatto per essere contemplato,
un film fatto per il cinema?
No.
È un film fatto così tanto per fare?
Potrebbe sembrarlo.
Cosa c’è nel film oltre la storiella dello scrittore?
Il senso di colpa.
Poi?
Una riflessione sull’arte e sulla creazione di essa.
Che senso ha il senso di colpa nella vita moderna?
Nessuno.
Il senso di colpa lo ha inventato la Chiesa cattolica
e questo lo sanno anche i muri.
Il senso di colpa è la più grande delle azioni “paracule” nelle quali siamo soliti nuotare: commettiamo errori che continuiamo a ripetere all’infinito e poi soffriamo per quel che abbiamo deliberatamente commesso.
Il senso di colpa non ha senso, è la colpa ad averne.
Infatti se al senso di colpa togli il senso che cosa rimane?
La colpa.
Il senso di colpa è il male del mondo di oggi.
Il senso di colpa è il male dell’uomo cretino.
Il senso di colpa spesso guida e determina la vita e gli eventi.
Il senso di colpa lasciamolo ai preti.
Grazie al senso di colpa puoi diventare un grande scrittore.
Il film è noioso.
È noiosissimo.
Non ci sono colpi di scena,
non ci sono cambi repentini,
in due parole non succede un tubo:
passano gl’anni.
Si assiste semplicemente al cammino verso il successo di uno scrittore un po’ troppo bello per essere vero, che è riuscito a incanalare il suo senso di colpa e la sua sofferenza nella creazione e nell’arte.
Dobbiamo fargliene una colpa o forse rendergli merito?
Non credo.
Ognuno nei propri romanzi ci mette quel cavolo che gli pare.
Ognuno i propri traumi li metabolizza come meglio crede.
Ognuno il proprio senso di colpa lo estingue a modo suo o se lo tiene per tutta la vita.
Se qualcuno si sente in colpa non ce ne importa poi tanto,
sono affari suoi,
come è giusto che sia.
Noi cowboy la pensiamo così.
La vita è un rodeo
e le mie gambe son cavalli.
Il senso di colpa è un movimento dell’animo abietto e bigotto,
stupido e basso.
Fa bene lo scrittore James Franco ad anestetizzare il dolore
e a trasformare le sue pene in best seller
piuttosto che passare la vita a piangersi addosso.
Il personaggio di James Franco da questo punto di vista è onesto:
è interessante che Wenders ci racconti questa prospettiva piuttosto che quella scontata e banale del tizio che annaspa nel dolore per tutta la vita senza trovar via d’uscita.
Lo scrittore raccontato da Wenders non chiede perdono,
non si crogiola nel dolore,
si sente in colpa ma reagisce e torna alla vita grazie allo stesso trauma che da voragine diventa una molla;
nuota nel senso di colpa,
ci annaspa e lo mastica,
lo assapora e digerisce
poi lo sputa e rifiuta.
Poi c’è il personaggio di Charlotte Gainsbourg,
la madre sola e triste alla quale viene a mancare un figlio.
Un personaggio tetro,
noir,
catatonico,
avvolto in una strana atmosfera che scema tra la depressione,
la schizofrenia e la tizia di “Misery non deve morire” (Rob Reiner, 1990).
A un certo punto del film scompare nel niente e festa finita.
Dove è finita quella musona della Gainsbourg?
Boh.
Non ho ben capito che funzione debba avere questo personaggio:
è la madre del figlio che viene a mancare e fino a qui tutto bene,
è anche lei un’artista e questo probabilmente serve a fare da specchio a James Franco,
a sottolineare il forte legame che c’è tra dolore e creazione.
Poi?
Non lo so.
Serve a poco.
Infatti scompare.
Il film ,
come tutti i film di Wenders,
come del resto il Cinema stesso,
è anche una riflessione sul tempo e il suo scorrere.
L’opera per altro fotografa dodici anni di vita.
Ritorna una posizione ormai consueta dell’autore tedesco sull’ineluttabilità del tempo, sul suo correre e trascorrere e portarci via con lui,
un po’ come il vento ma senza aumentare o fermarsi,
senza la bora e il maestrale,
un vento costante,
una brezza leggera.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
“Noi uomini immobili e inermi con le facce nel vento
spalancate sul tempo e su i treni che passano e corrono,
rincorrono il tempo,
e chissà dove vanno quei treni nel vento?” (cit. da “Treni blu” di F. Sokolov)
Il film ha una bella fotografia (Benoit Debie),
è interessante la scelta di contrapporre in maniera nitida gli interni bui e scarsamente illuminati,
agli esterni nevosi,
luccicanti e ben illuminati,
contrapposizione che sembra sottolineare metaforicamente la condizione esistenziale dell’artista:
il suo ambiente interiore,
scarsamente illuminato,
intimo,
soggettivo e creativo
nel quale l’artista si rifugia
contrapposto al mondo esterno,
degli altri,
all’oggettività,
il freddo,
il ghiaccio,
la neve,
il pericolo.
Cose che mi sono piaciute di questo film?
Una.
Le macchine del protagonista.
spalancate sul tempo e su i treni che passano e corrono,
rincorrono il tempo,
e chissà dove vanno quei treni nel vento?” (cit. da “Treni blu” di F. Sokolov)
Il film ha una bella fotografia (Benoit Debie),
è interessante la scelta di contrapporre in maniera nitida gli interni bui e scarsamente illuminati,
agli esterni nevosi,
luccicanti e ben illuminati,
contrapposizione che sembra sottolineare metaforicamente la condizione esistenziale dell’artista:
il suo ambiente interiore,
scarsamente illuminato,
intimo,
soggettivo e creativo
nel quale l’artista si rifugia
contrapposto al mondo esterno,
degli altri,
all’oggettività,
il freddo,
il ghiaccio,
la neve,
il pericolo.
Cose che mi sono piaciute di questo film?
Una.
Le macchine del protagonista.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
All’inizio del film James Franco si aggira nel deserto di neve su una bellissima Jeep Wagoneer che anche io avrei tanto voluto
e che mi ha fatto ricordare la mia cara e ormai defunta “Sandrona”,
una Jeep Cherokee Laredo bordeaux del 1985 con interni crema,
che per qualche anno ho avuto l’onore di cavalcare nei deserti e nelle praterie,
su gli Appennini,
le Alpi,
le Ande,
la Sierra Nevada,
l’Italia,
l’Europa e la Azzorre.
Nella seconda parte del film James Franco,
ormai scrittore di culto,
abbandona il Wagoneer (errore imperdonabile) per passare a un classico della storia dei classici tra scrittori, professori e intellettuali con le toppe:
la Volvo Polar station wagon.
Bella, non c’è niente da dire
ma niente a che vedere con la mia “Sandrona”.
Non ho nient’altro da aggiungere.
Per oggi è tutto.
Viaggio in mezzo alla neve a bordo della mia Jeep.
Ho una camica a quadri,
un paio di jeans,
uno stivale di pelle.
Il cappello sul sedile al mio fianco.
Nella macchina risuonano i Creedence.
Sotto il cappello la mia nuova pistola,
si chiama Susanna è argentata e lucente,
ha incisa sopra la canna una donna nuda e sdraiata.
Adesso non piove.
Nevica forte.
È tutto bianco.
Sento un rumore.
Nello specchietto cromato vedo spuntare dalla bauliera la testa di un cervo.
Mi fermo.
Sposto il cappello, accarezzo Susanna.
Mi volto di scatto.
La faccia della Gainsbourg è parecchio allungata.
e che mi ha fatto ricordare la mia cara e ormai defunta “Sandrona”,
una Jeep Cherokee Laredo bordeaux del 1985 con interni crema,
che per qualche anno ho avuto l’onore di cavalcare nei deserti e nelle praterie,
su gli Appennini,
le Alpi,
le Ande,
la Sierra Nevada,
l’Italia,
l’Europa e la Azzorre.
Nella seconda parte del film James Franco,
ormai scrittore di culto,
abbandona il Wagoneer (errore imperdonabile) per passare a un classico della storia dei classici tra scrittori, professori e intellettuali con le toppe:
la Volvo Polar station wagon.
Bella, non c’è niente da dire
ma niente a che vedere con la mia “Sandrona”.
Non ho nient’altro da aggiungere.
Per oggi è tutto.
Viaggio in mezzo alla neve a bordo della mia Jeep.
Ho una camica a quadri,
un paio di jeans,
uno stivale di pelle.
Il cappello sul sedile al mio fianco.
Nella macchina risuonano i Creedence.
Sotto il cappello la mia nuova pistola,
si chiama Susanna è argentata e lucente,
ha incisa sopra la canna una donna nuda e sdraiata.
Adesso non piove.
Nevica forte.
È tutto bianco.
Sento un rumore.
Nello specchietto cromato vedo spuntare dalla bauliera la testa di un cervo.
Mi fermo.
Sposto il cappello, accarezzo Susanna.
Mi volto di scatto.
La faccia della Gainsbourg è parecchio allungata.
Veniamo alle pagelle:
Una palletta
Una stelletta.
È un quattro e mezzo per il vecchio Wim.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Una palletta
Una stelletta.
È un quattro e mezzo per il vecchio Wim.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 16
“L’attesa”
di Piero Messina
Sceneggiatura di: Giacomo Bendotti, Ilaria Macchia, Andrea Paolo Massara, Piero Messina
Fotografia: Francesco Di Giacomo
Montaggio: Paola Freddi
Con: Juliette Binoche, Lou de Laage, Giorgio Colangeli, Giovanni Anzaldo, Domenico Diele, Antonio Folletto
Prodotto da: Indigo Film
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Piove anche oggi.
Speriamo piova per sempre.
Per giorni, per anni.
Almeno rimango in casa a nuotare e al riparo.
Ho un dolore lancinante alla parte nord orientale della schiena
che in alcuni momenti arriva a toccare anche il torace.
L’oceano.
Morirò?
No, ce la farò.
Nuoterò senza tregua.
Solo col braccio sinistro.
Come un nuotatore monco e mancino.
Un eroe delle correnti.
Sarà per questa pioggia.
Sarà per l’umidità.
Sarà per il cambio di stagione.
Sarà questo autunno.
Gli alberi verdi.
Le foglie che ancora non cadono.
I pesci che muoiono.
Gli uccelli che strisciano.
I paesi sprofondano.
E la vita che ci scappa di mano.
Dalla destra perché la sinistra non c’è.
Pace all’anima mia.
Prendo un antidolorifico.
Il terzo da ieri.
Speriamo piova per sempre.
Per giorni, per anni.
Almeno rimango in casa a nuotare e al riparo.
Ho un dolore lancinante alla parte nord orientale della schiena
che in alcuni momenti arriva a toccare anche il torace.
L’oceano.
Morirò?
No, ce la farò.
Nuoterò senza tregua.
Solo col braccio sinistro.
Come un nuotatore monco e mancino.
Un eroe delle correnti.
Sarà per questa pioggia.
Sarà per l’umidità.
Sarà per il cambio di stagione.
Sarà questo autunno.
Gli alberi verdi.
Le foglie che ancora non cadono.
I pesci che muoiono.
Gli uccelli che strisciano.
I paesi sprofondano.
E la vita che ci scappa di mano.
Dalla destra perché la sinistra non c’è.
Pace all’anima mia.
Prendo un antidolorifico.
Il terzo da ieri.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Esco di casa col mio ombrello marrone e d’altri tempi.
Faccio le scale.
Apro il portone.
Piove.
Mi nascondo da quelli del bar sottocasa,
maledetti curiosi,
sarei costretto altrimenti a parlare,
a sorridere e a bere un altro caffè,
il terzo,
come gli antidolorifici che ho in corpo
e non ne ho alcuna voglia.
Cerco la mia bicicletta.
Non c’è.
Dov’è?
Dove l’ho messa?
Me l’hanno rubata.
È forse la sesta,
forse la settima volta che capita.
Forse l’ho dimenticata da qualche parte.
Mi capita spesso,
specie quando arrivo in un posto da solo e me ne vado con qualcuno che è senza la bici.
No.
Non l’ho dimenticata.
Me l’hanno rubata.
Una volta me ne hanno rubata una che era legata a un cartello,
hanno svitato il cartello dal palo,
l’hanno sollevata su in cielo
e portata via chissà dove.
Nel paradiso delle mie biciclette.
Un’altra volta sono venuti a rubarmela fin dentro il portone.
Un’altra volta ancora avevo dimenticato di legarla e me ne sono andato in vacanza.
A nuotare.
Adesso passerà molto tempo prima che me ne rubino un’altra.
E passerà questo autunno.
E passerà un altro inverno.
Poi la primavera
e poi sarà di nuovo voglia di pedalare in discesa.
In piedi sui pedali a scalare le Ardenne,
col sole in faccia e il vento tra i capelli.
Faccio le scale.
Apro il portone.
Piove.
Mi nascondo da quelli del bar sottocasa,
maledetti curiosi,
sarei costretto altrimenti a parlare,
a sorridere e a bere un altro caffè,
il terzo,
come gli antidolorifici che ho in corpo
e non ne ho alcuna voglia.
Cerco la mia bicicletta.
Non c’è.
Dov’è?
Dove l’ho messa?
Me l’hanno rubata.
È forse la sesta,
forse la settima volta che capita.
Forse l’ho dimenticata da qualche parte.
Mi capita spesso,
specie quando arrivo in un posto da solo e me ne vado con qualcuno che è senza la bici.
No.
Non l’ho dimenticata.
Me l’hanno rubata.
Una volta me ne hanno rubata una che era legata a un cartello,
hanno svitato il cartello dal palo,
l’hanno sollevata su in cielo
e portata via chissà dove.
Nel paradiso delle mie biciclette.
Un’altra volta sono venuti a rubarmela fin dentro il portone.
Un’altra volta ancora avevo dimenticato di legarla e me ne sono andato in vacanza.
A nuotare.
Adesso passerà molto tempo prima che me ne rubino un’altra.
E passerà questo autunno.
E passerà un altro inverno.
Poi la primavera
e poi sarà di nuovo voglia di pedalare in discesa.
In piedi sui pedali a scalare le Ardenne,
col sole in faccia e il vento tra i capelli.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Fino ad allora me ne andrò in giro a piedi nudi,
uscirò di casa in anticipo e mi guarderò un po’più intorno
perché come tutti sappiamo più sei lento nel muoverti più cogli i dettagli che respiri nell’aria.
Proprio come le tartarughe,
alle quali notoriamente non sfugge mai niente.
È una legge.
E faremo del cinema,
perché il cinema lo si fa prima di tutto coi piedi.
E faremo l’amore perché l’amore lo si fa a piedi nudi.
Cammino sotto la pioggia col mio ombrello di legno.
Piove.
Non piove.
Piove.
Non piove.
Scatto alcune foto a una chiesa che da quando sono nato mi stupisce per la sua bruttezza e lo fa ancora oggi.
È un suo grande merito.
A volte la bruttezza così come la bellezza viene a noia e svanisce,
smette di essere brutta e diviene già vista,
un dato acquisito,
altre volte,
come nel caso di questa chiesa,
rimane solida,
tangibile
e imperturbata per anni.
E questo è un sicuro valore.
uscirò di casa in anticipo e mi guarderò un po’più intorno
perché come tutti sappiamo più sei lento nel muoverti più cogli i dettagli che respiri nell’aria.
Proprio come le tartarughe,
alle quali notoriamente non sfugge mai niente.
È una legge.
E faremo del cinema,
perché il cinema lo si fa prima di tutto coi piedi.
E faremo l’amore perché l’amore lo si fa a piedi nudi.
Cammino sotto la pioggia col mio ombrello di legno.
Piove.
Non piove.
Piove.
Non piove.
Scatto alcune foto a una chiesa che da quando sono nato mi stupisce per la sua bruttezza e lo fa ancora oggi.
È un suo grande merito.
A volte la bruttezza così come la bellezza viene a noia e svanisce,
smette di essere brutta e diviene già vista,
un dato acquisito,
altre volte,
come nel caso di questa chiesa,
rimane solida,
tangibile
e imperturbata per anni.
E questo è un sicuro valore.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Eccomi al cinema Portico,
un cinema accanto a una chiesa,
quella di prima.
Il Portico è un cinema da vecchi e pieno di vecchi,
si respira l’odore dei divani ricoperti di plastica,
dei telecomandi ricoperti di plastica,
dei cassetti con dentro la plastica,
del profumo delle signore anche loro ricoperte di plastica.
È uno dei pochi cinema rimasti in questa città a fare una programmazione decente
e per vecchi decenti e di plastica.
Sono le quattro e qualcosa,
piove e non piove ci sono alcune persone.
Il cinema è chiuso,
aspetto sotto la pensilina che mi protegge dalla debole pioggia.
Sono in attesa.
un cinema accanto a una chiesa,
quella di prima.
Il Portico è un cinema da vecchi e pieno di vecchi,
si respira l’odore dei divani ricoperti di plastica,
dei telecomandi ricoperti di plastica,
dei cassetti con dentro la plastica,
del profumo delle signore anche loro ricoperte di plastica.
È uno dei pochi cinema rimasti in questa città a fare una programmazione decente
e per vecchi decenti e di plastica.
Sono le quattro e qualcosa,
piove e non piove ci sono alcune persone.
Il cinema è chiuso,
aspetto sotto la pensilina che mi protegge dalla debole pioggia.
Sono in attesa.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
È tutta la vita che aspetto.
Aspetto qualcuno,
aspetto qualcosa,
aspetto dei treni.
Aspetto perché anticipo sempre,
anticipo perché vivo nell’ansia,
vivo nell’ansia perché la mia prefigurazione del futuro corre più veloce di quel treno che mi passa sul naso.
A poco a poco siamo una quindicina di vecchi e di vecchie.
Plastica e non.
Basta io entro!
Uno.
“L’attesa”.
Sei euro.
Sala blu.
Sono lontano dallo schermo ma posso allungare le gambe.
Sono venuto a vedere “L’attesa”,
un film italiano in concorso a Venezia e diretto da Piero Messina che è un esordiente,
ha trentaquattro anni,
solo un anno più vecchio di me.
Tra un anno io non sarò di certo a Venezia a far vedere il mio film e
questa cosa mi riempie il cuore di rabbia.
C’era da aspettarselo.
Il film è coprodotto da Indigo Film
ovvero da Nicola Giuliano e Francesca Cima,
quelli stessi che hanno prodotto “La grande bellezza” e “Youth” di Sorrentino.
Piero Messina ha fatto il DAMS (dipartimento arte musica e spettacolo)
poi il CSC (centro sperimentale di cinematografia)
e poi ancora l’assistente di Sorrentino nei suoi ultimi film.
Non so niente di questo film,
niente di niente.
Non so di che parla,
chi sono gli attori,
quali sono i colori,
non ho visto immagine alcuna,
tantomeno il suo trailer.
Aspetto “L’attesa” e non so quel che mi aspetta.
Questa cosa mi piace,
lo devo fare più spesso.
L’attesa preserva.
L’ignoto è fantastico perché può essere tutto.
Si spengono le luci.
Che il film abbia inizio.
La storia in tre parole racconta il rapporto tra due donne,
una, Juliette Binoche,
è la madre di un ragazzo che è morto,
la seconda, Lou de Laage,
è la fidanzata del ragazzo che è morto.
La ragazza arriva dalla Francia in Sicilia per passare qualche giorno col fidanzato
ma non sa che lui è venuto a mancare
e non lo scopre fino alla fine del film.
La madre non ha il coraggio di dirglielo
e finge che a morire sia stato il cognato.
Il soggetto del film è liberamente tratto da “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello che io peraltro non ho letto.
Detto questo,
non so bene come fare a scrivere questa recensione,
infatti come diciamo noi gente di mare
sto remando sì
ma con un braccio solo,
o come direbbero quelli di montagna mi sto arrampicando sugli specchi sì
ma con un braccio solo,
il sinistro, l’unico rimasto.
Non ho provato emozioni mentre guardavo il film.
Non provo emozioni adesso che ci penso.
In fin dei conti non so se il film un po’ mi è piaciuto
o un po’ mi ha fatto schifo.
La risposta in questi casi è quasi sempre tutti e due.
È un film un po’ distante da quello che io cerco nel cinema.
È un film un po’ da donne che detto così non vuol dire poi niente.
È un film che ha un ottimo soggetto e una sceneggiatura con delle voragini,
basti pensare che la maggior parte degli snodi narrativi sono affidati alla segreteria telefonica di un cellulare.
E questo si sa quelli bravi non lo fanno.
È un film che ha una bellissima fotografia.
È un film ambientato nei primi anni duemila e non ho capito perché,
lo si capisce da una scena nella quale viene inquadrata una televisione che trasmette un telegiornale con Giovanni Paolo II.
Solo da quello.
La regia è elegante e stilizzata, fredda
e si confà perfettamente alla storia che il film intende raccontare.
Ci sono tante inquadrature simmetriche e a macchina fissa che ho trovato eleganti, pertinenti e ben illuminate.
Fin dai primi secondi del film sono stato attraversato dalla paura che il regista dopo alcuni lavori da assistente di Sorrentino tendesse a una sua emulazione:
il fatto non sussiste.
O meglio:
si colgono delle atmosfere e dei sapori sorrentiniani solo all’inizio del film nelle immagini che raccontano il funerale e in qualche immagine metaforica fortemente poetica
(la scena del materassino che vola via e che poi viene sgonfiato dalla madre del ragazzo defunto e quella del bicchiere che sta per cadere).
Ho rivisto Sorrentino dentro queste scene
ma questo non significa niente.
Quelle immagini pur piacendosi molto
sono belle ed efficaci,
hanno spessore e drammaticità.
E poi diciamocelo,
se non avessi saputo che il regista è stato assistente di Sorrentino
avrei visto queste similitudini in modo meno strumentale.
Più che vederlo Sorrentino l’ho sentito nell’uso della musica
e credo che questo di per sé non sia un fatto eclatante e probabilmente neppure degno di nota.
Juliette Binoche è brava,
è molto brava quanto sa di esser brava,
infatti a tratti è irritante.
Emerge con forza il suo talento e il suo essere “grande attrice”,
cosa che non smette mai di ricordarci in ogni singola inquadratura,
in ogni piega del volto,
in ogni lampo di luce che attraversa il suo sguardo.
È un’attrice “grossa”,
sempre in battere e mai in levare,
non è minimale e sottolinea con forza ogni suo gesto.
È tecnica e si perde nel suo tecnicismo tanto da risultare perfetta
e dunque finita.
Eccessivamente drammatica.
Eccessivamente intensa.
Si compiace seriosa del suo essere brava e potente
perdendo in tal modo il lato ludico e fantasioso del mestiere dell’attore.
La ragazza,
Loue de Laage ,
è bella.
È molto bella e non sbaglia mai niente,
perché quello che deve fare è essere bella e piena di quella bellezza li,
di quelle bellezze eteree,
sofisticate,
un po’alla moda e un po’sovversive,
in tre parole francesi e con le labbra carnose.
Non ho notato niente di particolare nella sua prestazione
e se ci fossero dei problemi sarebbero imputabili alla sceneggiatura piuttosto che all’interpretazione.
È sufficientemente brava nella forma in cui la sua bravura si misura in proporzione alla sua naturalezza
e a me lei è sembrata molto naturale;
fa poco e questo mi piace e mi basta.
Aspetto qualcuno,
aspetto qualcosa,
aspetto dei treni.
Aspetto perché anticipo sempre,
anticipo perché vivo nell’ansia,
vivo nell’ansia perché la mia prefigurazione del futuro corre più veloce di quel treno che mi passa sul naso.
A poco a poco siamo una quindicina di vecchi e di vecchie.
Plastica e non.
Basta io entro!
Uno.
“L’attesa”.
Sei euro.
Sala blu.
Sono lontano dallo schermo ma posso allungare le gambe.
Sono venuto a vedere “L’attesa”,
un film italiano in concorso a Venezia e diretto da Piero Messina che è un esordiente,
ha trentaquattro anni,
solo un anno più vecchio di me.
Tra un anno io non sarò di certo a Venezia a far vedere il mio film e
questa cosa mi riempie il cuore di rabbia.
C’era da aspettarselo.
Il film è coprodotto da Indigo Film
ovvero da Nicola Giuliano e Francesca Cima,
quelli stessi che hanno prodotto “La grande bellezza” e “Youth” di Sorrentino.
Piero Messina ha fatto il DAMS (dipartimento arte musica e spettacolo)
poi il CSC (centro sperimentale di cinematografia)
e poi ancora l’assistente di Sorrentino nei suoi ultimi film.
Non so niente di questo film,
niente di niente.
Non so di che parla,
chi sono gli attori,
quali sono i colori,
non ho visto immagine alcuna,
tantomeno il suo trailer.
Aspetto “L’attesa” e non so quel che mi aspetta.
Questa cosa mi piace,
lo devo fare più spesso.
L’attesa preserva.
L’ignoto è fantastico perché può essere tutto.
Si spengono le luci.
Che il film abbia inizio.
La storia in tre parole racconta il rapporto tra due donne,
una, Juliette Binoche,
è la madre di un ragazzo che è morto,
la seconda, Lou de Laage,
è la fidanzata del ragazzo che è morto.
La ragazza arriva dalla Francia in Sicilia per passare qualche giorno col fidanzato
ma non sa che lui è venuto a mancare
e non lo scopre fino alla fine del film.
La madre non ha il coraggio di dirglielo
e finge che a morire sia stato il cognato.
Il soggetto del film è liberamente tratto da “La vita che ti diedi” di Luigi Pirandello che io peraltro non ho letto.
Detto questo,
non so bene come fare a scrivere questa recensione,
infatti come diciamo noi gente di mare
sto remando sì
ma con un braccio solo,
o come direbbero quelli di montagna mi sto arrampicando sugli specchi sì
ma con un braccio solo,
il sinistro, l’unico rimasto.
Non ho provato emozioni mentre guardavo il film.
Non provo emozioni adesso che ci penso.
In fin dei conti non so se il film un po’ mi è piaciuto
o un po’ mi ha fatto schifo.
La risposta in questi casi è quasi sempre tutti e due.
È un film un po’ distante da quello che io cerco nel cinema.
È un film un po’ da donne che detto così non vuol dire poi niente.
È un film che ha un ottimo soggetto e una sceneggiatura con delle voragini,
basti pensare che la maggior parte degli snodi narrativi sono affidati alla segreteria telefonica di un cellulare.
E questo si sa quelli bravi non lo fanno.
È un film che ha una bellissima fotografia.
È un film ambientato nei primi anni duemila e non ho capito perché,
lo si capisce da una scena nella quale viene inquadrata una televisione che trasmette un telegiornale con Giovanni Paolo II.
Solo da quello.
La regia è elegante e stilizzata, fredda
e si confà perfettamente alla storia che il film intende raccontare.
Ci sono tante inquadrature simmetriche e a macchina fissa che ho trovato eleganti, pertinenti e ben illuminate.
Fin dai primi secondi del film sono stato attraversato dalla paura che il regista dopo alcuni lavori da assistente di Sorrentino tendesse a una sua emulazione:
il fatto non sussiste.
O meglio:
si colgono delle atmosfere e dei sapori sorrentiniani solo all’inizio del film nelle immagini che raccontano il funerale e in qualche immagine metaforica fortemente poetica
(la scena del materassino che vola via e che poi viene sgonfiato dalla madre del ragazzo defunto e quella del bicchiere che sta per cadere).
Ho rivisto Sorrentino dentro queste scene
ma questo non significa niente.
Quelle immagini pur piacendosi molto
sono belle ed efficaci,
hanno spessore e drammaticità.
E poi diciamocelo,
se non avessi saputo che il regista è stato assistente di Sorrentino
avrei visto queste similitudini in modo meno strumentale.
Più che vederlo Sorrentino l’ho sentito nell’uso della musica
e credo che questo di per sé non sia un fatto eclatante e probabilmente neppure degno di nota.
Juliette Binoche è brava,
è molto brava quanto sa di esser brava,
infatti a tratti è irritante.
Emerge con forza il suo talento e il suo essere “grande attrice”,
cosa che non smette mai di ricordarci in ogni singola inquadratura,
in ogni piega del volto,
in ogni lampo di luce che attraversa il suo sguardo.
È un’attrice “grossa”,
sempre in battere e mai in levare,
non è minimale e sottolinea con forza ogni suo gesto.
È tecnica e si perde nel suo tecnicismo tanto da risultare perfetta
e dunque finita.
Eccessivamente drammatica.
Eccessivamente intensa.
Si compiace seriosa del suo essere brava e potente
perdendo in tal modo il lato ludico e fantasioso del mestiere dell’attore.
La ragazza,
Loue de Laage ,
è bella.
È molto bella e non sbaglia mai niente,
perché quello che deve fare è essere bella e piena di quella bellezza li,
di quelle bellezze eteree,
sofisticate,
un po’alla moda e un po’sovversive,
in tre parole francesi e con le labbra carnose.
Non ho notato niente di particolare nella sua prestazione
e se ci fossero dei problemi sarebbero imputabili alla sceneggiatura piuttosto che all’interpretazione.
È sufficientemente brava nella forma in cui la sua bravura si misura in proporzione alla sua naturalezza
e a me lei è sembrata molto naturale;
fa poco e questo mi piace e mi basta.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
E adesso finalmente parliamo di morte.
“L’attesa” è un film che parla di morte,
parla di elaborazione del lutto,
parla della perdita di un figlio,
parla dell’essere umano dinanzi alla morte,
alla morte di un altro,
alla morte di un figlio.
Una cosa su tutte:
il film nel suo parlar di morte riesce a farlo con grazia e con garbo.
La morte è taciuta,
non la si vede accadere,
non si calca la mano sul ricordo di chi se ne va,
non ci sono cordoglio,
condoglianze e disperazione.
La morte è quanto mai evocata nelle conseguenze,
nei segni che lascia sul volto e nei gesti di Juliette Binoche.
Il soggetto e la struttura stessa del film sono pensati per lavorare sulla morte in modo raffinato ed evocativo:
lo stratagemma di costruire il film sulla menzogna rappresenta esso stesso la negazione della morte
e quindi il suo stesso celarsi
e quindi ancora una volta,
il suo manifestarsi nei resti,
nelle conseguenze di un’emozione sofferta.
Anche nelle scene finali,
nel sogno della Binoche,
quando il figlio compare e ritorna,
lui stesso è evocato e impalpabile,
con grazia e maestria il regista lo inscena evocandolo e basta,
non mostra mai il volto del ragazzo scomparso.
Il film è costruito interamente sul tema della perdita:
Juliette Binoche non accetta la perdita del figlio e quindi la nega?
Jiuliette Binoche nega la morte del figlio al cospetto della giovane Jeanne per preservare almeno lei da un così grande dolore?
Juliette Binoche non ha la forza e le risorse per potere gestire anche il dolore di un altro?
Juliette Binoche cerca di far rivivere il figlio perduto per qualche attimo ancora attraverso gli occhi e le labbra della giovane donna?
Non lo so.
Come in precedenza direi che le risposte sono valide tutte.
Resta il fatto che alcune cose di questo film le capisco altre un po’meno:
capisco mentire e negare,
non capisco restare e aspettare.
Perché questa bella ragazza non se ne torna a casa sua quando al posto del fidanzato trova un funerale?
Perché rimane più giorni con una donna psichicamente provata e senza risposte dal ragazzo scomparso?
Non lo so.
E chiedo perdono.
Queste domande non si pongono a un film,
è la sua interezza che ci deve interessare,
non si deve applicare a un film una logica nostra e stringente per farci tornare le cose.
È sempre un delitto cercar di capire sia esso “L’attesa”, Tarkovskij, il cinema di Lynch o al cospetto di un’opera d’arte moderna.
Dunque non mi faccio domande ma osservo e rifletto.
Lo strazio di cui si racconta nel film attraversa una sola dimensione:
tutta l’opera è costruita su un’unica tensione e cioè quella che prima o poi la ragazza scopra che il suo fidanzato è venuto a mancare.
È troppo poco.
È tutto troppo piatto.
È monodimensionale.
Mancano le possibilità dei cambi repentini,
dei colpi di scena e degli scarti di lato.
Ci sono dei momenti nei quali lo spettatore viene fregato e stupito
ma sono piccole cose,
piccoli cambi rispetto all’unico gancio che traina l’intero film.
Lo spettatore aspetta per cento minuti che la giovane donna scopra la morte.
La giovane donna aspetta per cento minuti che il suo ragazzo faccia ritorno ma ciò che realmente la attende non sa.
“L’attesa” è un film che parla di morte,
parla di elaborazione del lutto,
parla della perdita di un figlio,
parla dell’essere umano dinanzi alla morte,
alla morte di un altro,
alla morte di un figlio.
Una cosa su tutte:
il film nel suo parlar di morte riesce a farlo con grazia e con garbo.
La morte è taciuta,
non la si vede accadere,
non si calca la mano sul ricordo di chi se ne va,
non ci sono cordoglio,
condoglianze e disperazione.
La morte è quanto mai evocata nelle conseguenze,
nei segni che lascia sul volto e nei gesti di Juliette Binoche.
Il soggetto e la struttura stessa del film sono pensati per lavorare sulla morte in modo raffinato ed evocativo:
lo stratagemma di costruire il film sulla menzogna rappresenta esso stesso la negazione della morte
e quindi il suo stesso celarsi
e quindi ancora una volta,
il suo manifestarsi nei resti,
nelle conseguenze di un’emozione sofferta.
Anche nelle scene finali,
nel sogno della Binoche,
quando il figlio compare e ritorna,
lui stesso è evocato e impalpabile,
con grazia e maestria il regista lo inscena evocandolo e basta,
non mostra mai il volto del ragazzo scomparso.
Il film è costruito interamente sul tema della perdita:
Juliette Binoche non accetta la perdita del figlio e quindi la nega?
Jiuliette Binoche nega la morte del figlio al cospetto della giovane Jeanne per preservare almeno lei da un così grande dolore?
Juliette Binoche non ha la forza e le risorse per potere gestire anche il dolore di un altro?
Juliette Binoche cerca di far rivivere il figlio perduto per qualche attimo ancora attraverso gli occhi e le labbra della giovane donna?
Non lo so.
Come in precedenza direi che le risposte sono valide tutte.
Resta il fatto che alcune cose di questo film le capisco altre un po’meno:
capisco mentire e negare,
non capisco restare e aspettare.
Perché questa bella ragazza non se ne torna a casa sua quando al posto del fidanzato trova un funerale?
Perché rimane più giorni con una donna psichicamente provata e senza risposte dal ragazzo scomparso?
Non lo so.
E chiedo perdono.
Queste domande non si pongono a un film,
è la sua interezza che ci deve interessare,
non si deve applicare a un film una logica nostra e stringente per farci tornare le cose.
È sempre un delitto cercar di capire sia esso “L’attesa”, Tarkovskij, il cinema di Lynch o al cospetto di un’opera d’arte moderna.
Dunque non mi faccio domande ma osservo e rifletto.
Lo strazio di cui si racconta nel film attraversa una sola dimensione:
tutta l’opera è costruita su un’unica tensione e cioè quella che prima o poi la ragazza scopra che il suo fidanzato è venuto a mancare.
È troppo poco.
È tutto troppo piatto.
È monodimensionale.
Mancano le possibilità dei cambi repentini,
dei colpi di scena e degli scarti di lato.
Ci sono dei momenti nei quali lo spettatore viene fregato e stupito
ma sono piccole cose,
piccoli cambi rispetto all’unico gancio che traina l’intero film.
Lo spettatore aspetta per cento minuti che la giovane donna scopra la morte.
La giovane donna aspetta per cento minuti che il suo ragazzo faccia ritorno ma ciò che realmente la attende non sa.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO 2015
Il film è finito.
Alcune donne dopo l’attesa sono riverse in un pianto di plastica.
Adesso non piove ma minaccia di farlo.
Cammino e osservo le bici degli altri.
Quante bici ci sono come la mia.
Chissà dove si trova il paradiso delle mie biciclette?
Chissà se c’è il sole,
se piove o minaccia di farlo?
Chissà se in quei posti ci sono stagioni,
i treni e le ragazze francesi?
Chissà se è già autunno
e se la mia povera bici ha perso le foglie o aspetta che cadano?
Veniamo alle pagelle:
Due pallette
Tre stellette.
È un sei più per il vecchio Messina.
Alcune donne dopo l’attesa sono riverse in un pianto di plastica.
Adesso non piove ma minaccia di farlo.
Cammino e osservo le bici degli altri.
Quante bici ci sono come la mia.
Chissà dove si trova il paradiso delle mie biciclette?
Chissà se c’è il sole,
se piove o minaccia di farlo?
Chissà se in quei posti ci sono stagioni,
i treni e le ragazze francesi?
Chissà se è già autunno
e se la mia povera bici ha perso le foglie o aspetta che cadano?
Veniamo alle pagelle:
Due pallette
Tre stellette.
È un sei più per il vecchio Messina.
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 15
“Non essere cattivo”
di Claudio Caligari
Sceneggiatura di: Claudio Caligari, Francesca Serafini,
Giordano Meacci
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Mauro Bonanni
Con: Luca Marinelli, Alessandro Borghi, Silvia D’Amico
Prodotto da: Kimera film, Taodue Film, Andrea Leone Films
(c) Lorenzo Bechi – da “Halibut” (FILMSOLO)
Sto guidando in mezzo al traffico.
Fumo una sigaretta.
Piove.
Devo cambiare il tergicristallo.
Non ci penso neppure.
E’una di quelle cose che faceva forse solo mio padre
e negli anni’90.
E’ la seconda sigaretta del giorno.
Sembra Novembre.
Devo aprire il finestrino.
Siamo a Settembre.
E’ bello quando a Settembre sembra Novembre,
piove e vado al cinema in macchina.
E’ bello il cinema quando piove.
E’ bella la pioggia quando sei in macchina.
E’ bello andare in macchina al cinema e sotto la pioggia.
La pioggia sbatte sul vetro e sul tetto.
E’ una pioggia fine e violenta.
Non sento la musica
ascolto la pioggia.
Ho sbagliato strada come tutte le volte che vado a vedermi un film al cinema Flora, Piazza Dalmazia,
Firenze.
Fumo una sigaretta.
Piove.
Devo cambiare il tergicristallo.
Non ci penso neppure.
E’una di quelle cose che faceva forse solo mio padre
e negli anni’90.
E’ la seconda sigaretta del giorno.
Sembra Novembre.
Devo aprire il finestrino.
Siamo a Settembre.
E’ bello quando a Settembre sembra Novembre,
piove e vado al cinema in macchina.
E’ bello il cinema quando piove.
E’ bella la pioggia quando sei in macchina.
E’ bello andare in macchina al cinema e sotto la pioggia.
La pioggia sbatte sul vetro e sul tetto.
E’ una pioggia fine e violenta.
Non sento la musica
ascolto la pioggia.
Ho sbagliato strada come tutte le volte che vado a vedermi un film al cinema Flora, Piazza Dalmazia,
Firenze.
(c) Lorenzo Bechi, filmsolo, 2015
Faccio inversione a U e nessuno mi vede,
non ho mai imparato la strada,
credo sia una di quelle cose che capitano a tutti:
ci sono cose semplici nella vita che non si capiscono mai
e non si imparano mai.
Una delle mie è la strada per andare al cinema Flora.
Trovo parcheggio a due passi dal cinema.
Il cinema è ancora chiuso.
Il bar accanto è chiuso lui pure.
Che strano.
L’altro bar accanto ma sull’altro lato?
Strachiuso.
Che strano:
si chiama Caffè da Paris,
non mi piace per niente,
che nome del cavolo,
e poi non siamo mica a Parigi e manco vicini.
Era meglio Dalmazia,
Caffè di Dalmazia.
Uno spazzino pulisce i resti di un mercato ormai andato,
è una donna,
le faccio una foto sperando che lei non mi veda,
lei mi vede ma fa finta di niente,
io vedo che vede e faccio finta di niente,
quasi simmetrici,
è un gioco di specchi.
Nella piazza ci sono poche persone,
sembrano tutte aspettare qualcosa,
l’apertura del cinema?
Non credo,
sono le tre e venticinque e il film inizia alle quattro.
non ho mai imparato la strada,
credo sia una di quelle cose che capitano a tutti:
ci sono cose semplici nella vita che non si capiscono mai
e non si imparano mai.
Una delle mie è la strada per andare al cinema Flora.
Trovo parcheggio a due passi dal cinema.
Il cinema è ancora chiuso.
Il bar accanto è chiuso lui pure.
Che strano.
L’altro bar accanto ma sull’altro lato?
Strachiuso.
Che strano:
si chiama Caffè da Paris,
non mi piace per niente,
che nome del cavolo,
e poi non siamo mica a Parigi e manco vicini.
Era meglio Dalmazia,
Caffè di Dalmazia.
Uno spazzino pulisce i resti di un mercato ormai andato,
è una donna,
le faccio una foto sperando che lei non mi veda,
lei mi vede ma fa finta di niente,
io vedo che vede e faccio finta di niente,
quasi simmetrici,
è un gioco di specchi.
Nella piazza ci sono poche persone,
sembrano tutte aspettare qualcosa,
l’apertura del cinema?
Non credo,
sono le tre e venticinque e il film inizia alle quattro.
(c) Lorenzo Bechi, filmsolo, 2015
Ha smesso di piovere da qualche minuto,
poco prima che scendessi di macchina,
poco prima che scattassi la foto alla signora spazzina.
Mi siedo su una panchina davanti alla sala.
Oltre a me ci sono:
una coppia di vecchi,
lui dorme, lei no;
una signora indiana seduta da sola che guarda nel vuoto;
un gruppetto di uomini maschi che si beve una birra.
Aprono il cinema.
Entro per primo,
nessuno mi segue,
il gruppetto di uomini maschi con birra scopro poi essere:
maschera,
addetto ai biglietti
proiezionista.
Per il momento son solo.
A parte il gruppo di uomini maschi che però in sala non entra,
stanno dietro le quinte.
E’ anche merito loro se si celebra il rito,
un fascio di luce nel buio sopra le teste illumina un muro,
le immagini corrono,
eccoti il cinema.
Scelgo il posto migliore,
non proprio nel centro del centro,
una fila più indietro dove potere allungare le gambe.
Me ne frego del posto assegnato.
Non arriva nessuno.
Non capita spesso di stare in un cinema completamente da solo.
Accadrà questa volta?
Speriamo di sì.
Si abbassan le luci,
iniziano i trailer,
volume sparato.
Sono sempre più solo.
poco prima che scendessi di macchina,
poco prima che scattassi la foto alla signora spazzina.
Mi siedo su una panchina davanti alla sala.
Oltre a me ci sono:
una coppia di vecchi,
lui dorme, lei no;
una signora indiana seduta da sola che guarda nel vuoto;
un gruppetto di uomini maschi che si beve una birra.
Aprono il cinema.
Entro per primo,
nessuno mi segue,
il gruppetto di uomini maschi con birra scopro poi essere:
maschera,
addetto ai biglietti
proiezionista.
Per il momento son solo.
A parte il gruppo di uomini maschi che però in sala non entra,
stanno dietro le quinte.
E’ anche merito loro se si celebra il rito,
un fascio di luce nel buio sopra le teste illumina un muro,
le immagini corrono,
eccoti il cinema.
Scelgo il posto migliore,
non proprio nel centro del centro,
una fila più indietro dove potere allungare le gambe.
Me ne frego del posto assegnato.
Non arriva nessuno.
Non capita spesso di stare in un cinema completamente da solo.
Accadrà questa volta?
Speriamo di sì.
Si abbassan le luci,
iniziano i trailer,
volume sparato.
Sono sempre più solo.
(c) Lorenzo Bechi – da “Halibut” (filmsolo)
Sono venuto a vedere “Non essere cattivo”,
l’ultimo film di Claudio Caligari da pochi giorni presentato a Venezia fuori concorso.
Claudio Caligari ci ha lasciati prematuramente lo scorso maggio dopo un lungo calvario, non appena ultimate le riprese del suo ultimo film.
Sono colpito e toccato,
ci lascia un altro tra i pochi che ha cercato un cinema nuovo e diverso,
di valore,
per cifra espressiva,
codici,
linguaggi,
modalità produttive.
Caligari è un uomo da sempre rimasto segregato ai margini del cinema italiano.
Del cinema romano.
Un po’per scelta e un po’no.
Ha fatto tre lungometraggi e una manciata di documentari.
Il suo primo lungometraggio fu un vero e proprio cult degli anni ’80:
“Amore tossico”(1983),
un film nel quale si parlava della dipendenza dall’eroina raccontata attraverso le vite di un gruppo di ragazzi della periferia romana.
Poi per dodici anni di lui non si seppe più niente
fino a quando non uscì il suo secondo lungometraggio
dal titolo “L’odore della notte “(1995),
un noir sulla malavita romana interpretato tra gli altri da Valerio Mastrandrea e Marco Giallini.
l’ultimo film di Claudio Caligari da pochi giorni presentato a Venezia fuori concorso.
Claudio Caligari ci ha lasciati prematuramente lo scorso maggio dopo un lungo calvario, non appena ultimate le riprese del suo ultimo film.
Sono colpito e toccato,
ci lascia un altro tra i pochi che ha cercato un cinema nuovo e diverso,
di valore,
per cifra espressiva,
codici,
linguaggi,
modalità produttive.
Caligari è un uomo da sempre rimasto segregato ai margini del cinema italiano.
Del cinema romano.
Un po’per scelta e un po’no.
Ha fatto tre lungometraggi e una manciata di documentari.
Il suo primo lungometraggio fu un vero e proprio cult degli anni ’80:
“Amore tossico”(1983),
un film nel quale si parlava della dipendenza dall’eroina raccontata attraverso le vite di un gruppo di ragazzi della periferia romana.
Poi per dodici anni di lui non si seppe più niente
fino a quando non uscì il suo secondo lungometraggio
dal titolo “L’odore della notte “(1995),
un noir sulla malavita romana interpretato tra gli altri da Valerio Mastrandrea e Marco Giallini.
(c) Lorenzo Bechi – da “Bathrooms” (filmsolo)
Lo stesso Mastrandrea divenne poi negl’anni caro amico di Caligari al punto tale
di essere determinante nella produzione di quest’ultimo film,
ha scritto anche una lettera a Scorsese in persona (idolo e punto di riferimento di Caligari) esortandolo a dargli un aiuto nella ricerca dei fondi.
Il film adesso c’è
e scorre sotto i miei occhi illuminati dalle immagini che lo schermo del Flora rimbalza sul mio volto solitario in questo cinema vuoto e degli anni ‘50.
Quando sei al cinema da solo è come se quel film fosse solo per te
e a volte sembra proprio così,
ma sembra e non è,
perché infatti i film come tutte le cose del mondo
non sono mai solo per te
ma sono anche degl’altri,
per gl’altri,
di tutti,
ed esistono
e nascono
e hanno senso proprio per questo:
nell’essere degl’altri, per gl’altri.
L’esistenza è un fatto sociale.
Ma chi se ne frega,
io adesso son solo in questa sala deserta
e questo film è tutto per me.
di essere determinante nella produzione di quest’ultimo film,
ha scritto anche una lettera a Scorsese in persona (idolo e punto di riferimento di Caligari) esortandolo a dargli un aiuto nella ricerca dei fondi.
Il film adesso c’è
e scorre sotto i miei occhi illuminati dalle immagini che lo schermo del Flora rimbalza sul mio volto solitario in questo cinema vuoto e degli anni ‘50.
Quando sei al cinema da solo è come se quel film fosse solo per te
e a volte sembra proprio così,
ma sembra e non è,
perché infatti i film come tutte le cose del mondo
non sono mai solo per te
ma sono anche degl’altri,
per gl’altri,
di tutti,
ed esistono
e nascono
e hanno senso proprio per questo:
nell’essere degl’altri, per gl’altri.
L’esistenza è un fatto sociale.
Ma chi se ne frega,
io adesso son solo in questa sala deserta
e questo film è tutto per me.
(c) Lorenzo Bechi – da “Somewhere at the end of the world” (filmsolo)
E lo è non solo perché mi si dona in privato,
questo film è per me e lo sento da come si scaglia
contro la faccia,
addosso,
nel naso e negl’occhi,
mi scorre tra i piedi,
mi spacca le ossa,
mi alza le unghie,
mi buca la pelle.
Infatti sto male
e quando sto male accade qualcosa,
a volte qualcosa di grande,
a volte qualcosa di brutto,
a volte di grande, di brutto e di bello.
Veniamo al film:
il film è struggente,
è potente,
è miracolosamente vivo nel suo parlare di morte,
è delicato nel suo accarezzare con grazia le tragedie,
la vita,
l’amore,
la vita e l’amore che sono tragedia.
E’ un film che parla e trasuda vita,
morte e realtà
che poi sono l’una parte dell’altra.
Questa in due righe la storia:
Siamo a Ostia a metà degli anni’90,
ci sono due giovani,
Cesare interpretato da Luca Marinelli
e Vittorio interpretato da Alessandro Borghi.
I due giovani passano le loro lunghe giornate tra truffe,
rapine,
spaccio,
pasticche,
la cocaina,
le serate in discoteca,
l’eroina che c’è pure lei.
Poi ci sono le Golf,
quelle squadrate e di un tempo,
quelle con i due fari rotondi sul muso,
di quelle che se avevi il GTI eri un figo e il più bello di tutti.
Ci sono i giubbotti di jeans,
il bomber,
le giacche di pelle,
gli occhiali da sole con le lenti rotonde,
i capelli lunghi di sopra
e rasati di sotto,
il lavoro in nero e subappaltato,
le pistole e i fucili,
le siringhe di quelle che se non guardi bene dove cammini
le pesti e ti pungi,
la musica dance,
l’aids e manco un telefono.
questo film è per me e lo sento da come si scaglia
contro la faccia,
addosso,
nel naso e negl’occhi,
mi scorre tra i piedi,
mi spacca le ossa,
mi alza le unghie,
mi buca la pelle.
Infatti sto male
e quando sto male accade qualcosa,
a volte qualcosa di grande,
a volte qualcosa di brutto,
a volte di grande, di brutto e di bello.
Veniamo al film:
il film è struggente,
è potente,
è miracolosamente vivo nel suo parlare di morte,
è delicato nel suo accarezzare con grazia le tragedie,
la vita,
l’amore,
la vita e l’amore che sono tragedia.
E’ un film che parla e trasuda vita,
morte e realtà
che poi sono l’una parte dell’altra.
Questa in due righe la storia:
Siamo a Ostia a metà degli anni’90,
ci sono due giovani,
Cesare interpretato da Luca Marinelli
e Vittorio interpretato da Alessandro Borghi.
I due giovani passano le loro lunghe giornate tra truffe,
rapine,
spaccio,
pasticche,
la cocaina,
le serate in discoteca,
l’eroina che c’è pure lei.
Poi ci sono le Golf,
quelle squadrate e di un tempo,
quelle con i due fari rotondi sul muso,
di quelle che se avevi il GTI eri un figo e il più bello di tutti.
Ci sono i giubbotti di jeans,
il bomber,
le giacche di pelle,
gli occhiali da sole con le lenti rotonde,
i capelli lunghi di sopra
e rasati di sotto,
il lavoro in nero e subappaltato,
le pistole e i fucili,
le siringhe di quelle che se non guardi bene dove cammini
le pesti e ti pungi,
la musica dance,
l’aids e manco un telefono.
(c) Lorenzo Bechi, dal film “Bathrooms” (filmsolo)
I due giovani tra una serata e l’altra,
tra truffe e rapine,
discese e salite,
cazzotti e ore di noia,
prendono due strade diverse
e a uno va finire meglio e all’altro un po’peggio.
Ci sono i momenti di gioia e le ricadute,
la morte e i cambi di vita,
poca morale e poca speranza.
Se nasci dove il sole non batte,
bene che vada porti a casa la pelle,
non inciampi in galera e smetti di farti,
male che vada muori da solo e muori ammazzato.
Ma a te che va bene non ci fare la bocca,
dimentica la gloria,
il successo e la dolce vita;
dimentica gli ori,
gli incensi,
gli orpelli e la grande bellezza.
Dimentica il sogno
e se è quello che vuoi
te lo vendo per poco
a piccole dosi e in buste da un grammo,
poi lo schiacci,
lo stendi
e lo tiri col naso.
Il tuo sogno,
è il sogno che vendo,
dura una notte o un paio di ore,
è un sogno tagliato e sintetico,
artificiale e mediocre
brillante e traslucido.
Il film scorre via liscio come l’olio,
come la notte.
La narrazione è ben costruita e mai artificiosa.
Il racconto è credibile e ti entra nel fianco.
Non ci sono colpi ad effetto,
sterzate e scarti di lato,
ci sono le storie crude di una vita che esiste qualche metro più in la.
La regia è sobria e invisibile anche nei momenti più spinti e lisergici:
è bella la scena nella quale Vittorio (Alessandro Borghi)
nel fondo del fondo della notte di Ostia
si blocca in mezzo a una strada e vede i circensi,
vede se stesso
ma quello che vede non c’è.
I due attori sono bravi,
sono ancora più bravi,
sono stupefacenti,
muscolari e aggraziati,
dimostrano di sapere usare bene sia la testa che il corpo,
dimostrano di saper bene dosare tutte le corde,
le alte e le basse
cosa non facile quando quello che stringi nel pugno è materiale che scotta,
divampa ed esplode.
I due attori dimostrano di essere stati diretti con classe e sapienza
e di aver colto ciò che lo stesso regista chiedeva loro:
il realismo,
la vita e la morte
che poi sono l’una parte dell’altra.
“Non essere cattivo” è un film pasoliniano,
un film amaro e reale che racconta senza condanna,
senza morale e senza pietismo
le macerie della vita e dell’uomo nel nulla:
non c’è civiltà,
nessuna città,
non c’è società,
sono i non luoghi
i deserti nel buio nei quali muore la vita.
La città non esiste e nel regno dell’ombra non cresce più niente.
Qui non esistono “il poi” e i futuri anteriori,
“lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”
non è data la fuga,
solo il dolore che lento si sconta
e giorno dopo giorno ti mangia e ti strazia
e domani chissà.
La sala nel buio.
Sono avvolto nel buio.
I titoli di coda a cascata nel buio.
Il film è finito.
Si accende la luce.
Mi guardo un po’in giro.
Ho paura che la mia solitudine fosse solo illusione.
Non vedo nessuno.
Son solo.
Son salvo.
Questo film è per me.
tra truffe e rapine,
discese e salite,
cazzotti e ore di noia,
prendono due strade diverse
e a uno va finire meglio e all’altro un po’peggio.
Ci sono i momenti di gioia e le ricadute,
la morte e i cambi di vita,
poca morale e poca speranza.
Se nasci dove il sole non batte,
bene che vada porti a casa la pelle,
non inciampi in galera e smetti di farti,
male che vada muori da solo e muori ammazzato.
Ma a te che va bene non ci fare la bocca,
dimentica la gloria,
il successo e la dolce vita;
dimentica gli ori,
gli incensi,
gli orpelli e la grande bellezza.
Dimentica il sogno
e se è quello che vuoi
te lo vendo per poco
a piccole dosi e in buste da un grammo,
poi lo schiacci,
lo stendi
e lo tiri col naso.
Il tuo sogno,
è il sogno che vendo,
dura una notte o un paio di ore,
è un sogno tagliato e sintetico,
artificiale e mediocre
brillante e traslucido.
Il film scorre via liscio come l’olio,
come la notte.
La narrazione è ben costruita e mai artificiosa.
Il racconto è credibile e ti entra nel fianco.
Non ci sono colpi ad effetto,
sterzate e scarti di lato,
ci sono le storie crude di una vita che esiste qualche metro più in la.
La regia è sobria e invisibile anche nei momenti più spinti e lisergici:
è bella la scena nella quale Vittorio (Alessandro Borghi)
nel fondo del fondo della notte di Ostia
si blocca in mezzo a una strada e vede i circensi,
vede se stesso
ma quello che vede non c’è.
I due attori sono bravi,
sono ancora più bravi,
sono stupefacenti,
muscolari e aggraziati,
dimostrano di sapere usare bene sia la testa che il corpo,
dimostrano di saper bene dosare tutte le corde,
le alte e le basse
cosa non facile quando quello che stringi nel pugno è materiale che scotta,
divampa ed esplode.
I due attori dimostrano di essere stati diretti con classe e sapienza
e di aver colto ciò che lo stesso regista chiedeva loro:
il realismo,
la vita e la morte
che poi sono l’una parte dell’altra.
“Non essere cattivo” è un film pasoliniano,
un film amaro e reale che racconta senza condanna,
senza morale e senza pietismo
le macerie della vita e dell’uomo nel nulla:
non c’è civiltà,
nessuna città,
non c’è società,
sono i non luoghi
i deserti nel buio nei quali muore la vita.
La città non esiste e nel regno dell’ombra non cresce più niente.
Qui non esistono “il poi” e i futuri anteriori,
“lasciate ogni speranza, voi ch’intrate”
non è data la fuga,
solo il dolore che lento si sconta
e giorno dopo giorno ti mangia e ti strazia
e domani chissà.
La sala nel buio.
Sono avvolto nel buio.
I titoli di coda a cascata nel buio.
Il film è finito.
Si accende la luce.
Mi guardo un po’in giro.
Ho paura che la mia solitudine fosse solo illusione.
Non vedo nessuno.
Son solo.
Son salvo.
Questo film è per me.
Veniamo alle pagelle:
Cinque pallette
Cinque stellette.
E’ un otto e mezzo per il vecchio Caligari.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Cinque pallette
Cinque stellette.
E’ un otto e mezzo per il vecchio Caligari.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N. 14
“Taxi Teheran”
di Jafar Panahi
Sceneggiatura di: Jafar Panahi
Con: Jafar Panahi, Hana Saeidi
Prodotto da: Jafar Panahi
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Non ho nessuna voglia di scrivere.
Non ho nessuna voglia di leggere.
Non ho nessuna voglia di vedere un film.
Non ho voglia di fare niente.
Sono ormai giorni.
Ho il raffreddore.
Senza la febbre.
Sono malato e quindi devo stare a letto.
Prendetevi cura di me.
Portatemi dei succhi.
Sudore freddo e chimico,
è l’Aspirina e il suo sapore inconfondibile.
Ho anche mal di stomaco,
non di pancia,
di stomaco.
La mattina ormai inizia a fare freddo,
l’aria è fresca e con questo raffreddore mi ritrovo a bere il mio caffè a finestre chiuse,
da solo con i miei bacilli.
E’ iniziata la mostra del cinema di Venezia.
Devo correre a Venezia.
Devo parlare di Venezia.
Non ho nessuna voglia di leggere.
Non ho nessuna voglia di vedere un film.
Non ho voglia di fare niente.
Sono ormai giorni.
Ho il raffreddore.
Senza la febbre.
Sono malato e quindi devo stare a letto.
Prendetevi cura di me.
Portatemi dei succhi.
Sudore freddo e chimico,
è l’Aspirina e il suo sapore inconfondibile.
Ho anche mal di stomaco,
non di pancia,
di stomaco.
La mattina ormai inizia a fare freddo,
l’aria è fresca e con questo raffreddore mi ritrovo a bere il mio caffè a finestre chiuse,
da solo con i miei bacilli.
E’ iniziata la mostra del cinema di Venezia.
Devo correre a Venezia.
Devo parlare di Venezia.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Devo parlare dei divi di Venezia,
di Johnny Deep che è ingrassato,
del film di Bellocchio (“Sangue del mio sangue”),
di quello di Guadagnino (“A Bigger Splash”) che è un remake infatti si chiama uguale all’originale che lui,
Guadagnino,
dice di non avere visto,
perché,
dice ancora lui,
l’unica volta che ci ha provato aveva il lettore blu ray rotto.
Bugiardo.
Non ci credo.
Quello di Amos Gitai sulla vita di Rabin (“Rabin, the last day”),
quello di Egoyan (”Remember”) che google dice essere un thriller sul ricordo e sul trauma,
quello del compianto Claudio Caligari (“Non essere cattivo”) che andrò a vedere prossimamente.
Poi che film ci sono a Venezia?
Non lo so.
Ce ne sarà uno di sicuro con Scamarcio che infatti c’è (“La prima luce” di Vincenzo Marra),
qualche film orientale che infatti c’è pure lui
e poi non lo so,
chi se ne frega,
speriamo che affondi tutta la mostra del cinema di Venezia sotto il peso di quel ciccione di Johnny Depp mentre salta ubriaco da una gondola a un party.
Devo andare a Venezia.
Devo correre a Venezia.
Devo andare sul tappeto rosso a vedere le passerelle.
Devo scrivere più veloce.
Devo prendere contatti che potrebbero risultare poi utili.
Preziosi.
Calma.
Calma.
Sono anche malato.
Sudo Aspirina.
Vai a farti fottere Venezia.
Andate a quel paese parrucconi.
Ma a Venezia c’è la mostra del cinema o il carnevale?
Tutti e due.
Io me ne resto nel mio bagno,
odio il carnevale e anche i festival di cinema.
di Johnny Deep che è ingrassato,
del film di Bellocchio (“Sangue del mio sangue”),
di quello di Guadagnino (“A Bigger Splash”) che è un remake infatti si chiama uguale all’originale che lui,
Guadagnino,
dice di non avere visto,
perché,
dice ancora lui,
l’unica volta che ci ha provato aveva il lettore blu ray rotto.
Bugiardo.
Non ci credo.
Quello di Amos Gitai sulla vita di Rabin (“Rabin, the last day”),
quello di Egoyan (”Remember”) che google dice essere un thriller sul ricordo e sul trauma,
quello del compianto Claudio Caligari (“Non essere cattivo”) che andrò a vedere prossimamente.
Poi che film ci sono a Venezia?
Non lo so.
Ce ne sarà uno di sicuro con Scamarcio che infatti c’è (“La prima luce” di Vincenzo Marra),
qualche film orientale che infatti c’è pure lui
e poi non lo so,
chi se ne frega,
speriamo che affondi tutta la mostra del cinema di Venezia sotto il peso di quel ciccione di Johnny Depp mentre salta ubriaco da una gondola a un party.
Devo andare a Venezia.
Devo correre a Venezia.
Devo andare sul tappeto rosso a vedere le passerelle.
Devo scrivere più veloce.
Devo prendere contatti che potrebbero risultare poi utili.
Preziosi.
Calma.
Calma.
Sono anche malato.
Sudo Aspirina.
Vai a farti fottere Venezia.
Andate a quel paese parrucconi.
Ma a Venezia c’è la mostra del cinema o il carnevale?
Tutti e due.
Io me ne resto nel mio bagno,
odio il carnevale e anche i festival di cinema.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Se riesco a uscire dal mio bagno oggi vado al cinema,
lo prometto.
L’ultima volta che sono stato al cinema era giugno e pensavo che quest’estate si sarebbe portata via tanti pensieri e tanti problemi.
Mi ripetevo di lasciar perdere che tutto si sarebbe messo a posto da solo.
Come non detto.
Le cose non si risolvono mai da sole.
Perché dovrebbero farlo?
Perché sarebbe comodo
lo prometto.
L’ultima volta che sono stato al cinema era giugno e pensavo che quest’estate si sarebbe portata via tanti pensieri e tanti problemi.
Mi ripetevo di lasciar perdere che tutto si sarebbe messo a posto da solo.
Come non detto.
Le cose non si risolvono mai da sole.
Perché dovrebbero farlo?
Perché sarebbe comodo
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO (dal film “L’architetto dei bagni”, 2011)
Vado a vedere “Taxi Teheran” di Jafar Panahi al cinema Fiorella che più che un cinema detto così pare una parrucchiera di Rimini in un film di Fellini,
ma è un cinema e anche una pizzeria dove per altro la pizza non è per niente male:
si tratta di una pizza bassa,
leggera come dicono le donne,
fine,
una pizza di mare come dico io.
Molto meglio chiamare una pizzeria Fiorella piuttosto che un cinema.
Comunque è un nome simpatico a differenza di tutti quegli “Excelsior”, “Capitol”, “Astra”, “Odeon”e compagnia cantando.
Vado in bicicletta anche se la sala non è per niente vicina,
almeno penso,
perdo tempo e ossigeno il cervello.
Ho una bicicletta da donna,
verde,
col faro,
di quelle olandesi.
Fa schifo ma non tanto perché è brutta
ma piuttosto perché quando la guidi sembra sempre di scalare lo Zoncolan,
in due parole è faticosa.
ma è un cinema e anche una pizzeria dove per altro la pizza non è per niente male:
si tratta di una pizza bassa,
leggera come dicono le donne,
fine,
una pizza di mare come dico io.
Molto meglio chiamare una pizzeria Fiorella piuttosto che un cinema.
Comunque è un nome simpatico a differenza di tutti quegli “Excelsior”, “Capitol”, “Astra”, “Odeon”e compagnia cantando.
Vado in bicicletta anche se la sala non è per niente vicina,
almeno penso,
perdo tempo e ossigeno il cervello.
Ho una bicicletta da donna,
verde,
col faro,
di quelle olandesi.
Fa schifo ma non tanto perché è brutta
ma piuttosto perché quando la guidi sembra sempre di scalare lo Zoncolan,
in due parole è faticosa.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Vorrei tanto avere una mountain bike
o una di quelle bici da uomo d’altri tempi verde bottiglia con i “freni a bacchetta”,
il sellino e le manopole in pelle e alcuni inserti in metallo cromato.
Faccio fatica a pedalare,
sarà perché ho sempre le ruote sgonfie,
sarà perché sono stanco,
sarà perché sono malato,
sarà perché questa bicicletta fa schifo,
sarà per tutti questi motivi messi insieme.
Forse sto pedalando in una di quelle strade che sembrano in pianura ma in realtà sono in salita,
quelle strade bastarde che solo facendole al contrario ti accorgi che sono un po’ in discesa e infatti prima erano in salita.
Tipo Lungarno della Zecca Vecchia?
Esatto!
Bravo!
Questa è una bella metafora della vita.
La vita sembra in piano,
la vita sembra l’Olanda,
poi mentre pedali scopri che in realtà non è per niente l’Olanda ma nemmeno Lungarno della Zecca Vecchia ma piuttosto lo Zoncolan.
Sì, la vita sembra l’Olanda ma in realtà è un Giro d’Italia sempre con la stessa tappa che si ripete:
l’ascesa dello Zoncolan.
Sudo Aspirina.
Ho bisogno di una doccia.
E di un medico.
La bicicletta è comoda a Marzo,
a Aprile e nei primi giorni di maggio,
poi da metà settembre fino ai primi di ottobre,
per la restante parte dell’anno è una fregatura
perché o fa troppo caldo o fa troppo freddo,
poi magari piove,
tira vento,
c’è il sole malato,
grandina,
nevica anche.
Io sono un tifoso dei piedi,
sono per camminare.
E’ il mezzo di locomozione meno costoso,
più sicuro
e che ti permette di pensare,
osservare e rilassarti.
Ossigeno al cervello uguale idee.
o una di quelle bici da uomo d’altri tempi verde bottiglia con i “freni a bacchetta”,
il sellino e le manopole in pelle e alcuni inserti in metallo cromato.
Faccio fatica a pedalare,
sarà perché ho sempre le ruote sgonfie,
sarà perché sono stanco,
sarà perché sono malato,
sarà perché questa bicicletta fa schifo,
sarà per tutti questi motivi messi insieme.
Forse sto pedalando in una di quelle strade che sembrano in pianura ma in realtà sono in salita,
quelle strade bastarde che solo facendole al contrario ti accorgi che sono un po’ in discesa e infatti prima erano in salita.
Tipo Lungarno della Zecca Vecchia?
Esatto!
Bravo!
Questa è una bella metafora della vita.
La vita sembra in piano,
la vita sembra l’Olanda,
poi mentre pedali scopri che in realtà non è per niente l’Olanda ma nemmeno Lungarno della Zecca Vecchia ma piuttosto lo Zoncolan.
Sì, la vita sembra l’Olanda ma in realtà è un Giro d’Italia sempre con la stessa tappa che si ripete:
l’ascesa dello Zoncolan.
Sudo Aspirina.
Ho bisogno di una doccia.
E di un medico.
La bicicletta è comoda a Marzo,
a Aprile e nei primi giorni di maggio,
poi da metà settembre fino ai primi di ottobre,
per la restante parte dell’anno è una fregatura
perché o fa troppo caldo o fa troppo freddo,
poi magari piove,
tira vento,
c’è il sole malato,
grandina,
nevica anche.
Io sono un tifoso dei piedi,
sono per camminare.
E’ il mezzo di locomozione meno costoso,
più sicuro
e che ti permette di pensare,
osservare e rilassarti.
Ossigeno al cervello uguale idee.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Me lo ha insegnato Werner Herzog che a piedi si è girato mezzo mondo,
ha fatto mille film e dice che l’unica scuola di cinema che valga la pena frequentare nella vita e quella del camminare.
Ha ragione.
Grand’uomo.
Un eroe romantico.
Si potrebbe definirlo “uno che pensa con i piedi”
ma non lo si può fare perché nella nostra società al contrario “fare le cose con i piedi” significa farle male
e invece secondo me dovremmo essere molto più podalici e meno seduti e maneschi.
ha fatto mille film e dice che l’unica scuola di cinema che valga la pena frequentare nella vita e quella del camminare.
Ha ragione.
Grand’uomo.
Un eroe romantico.
Si potrebbe definirlo “uno che pensa con i piedi”
ma non lo si può fare perché nella nostra società al contrario “fare le cose con i piedi” significa farle male
e invece secondo me dovremmo essere molto più podalici e meno seduti e maneschi.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Perché non riesco a scrivere di questo film?
Non lo so.
Anzi sì lo so.
Non riesco a scrivere di questo film perché non mi va di parlare dell’Iran,
non mi va di parlare di politica,
non mi va di dire cose politically correct,
non intendo fare della retorica spicciola
e poi diciamocelo non sono molto informato sull’Iran di oggi
e non ho nessuna voglia di fare brutte figure.
Semplifichiamo.
L’Iran è una repubblica islamica,
il che vuol dire a occhio e croce che la legislazione è basata in larga parte sulla Sharia,
la legge islamica.
A comandare ci pensa “la guida suprema” ruolo oggi rivestito dallo ayatollah Ali Khamenei (dunque un religioso) ai tempi intimo consigliere dell’altro ayatollah che si chiama quasi come lui ma non è lui e cioè Ruhollah Khomeyni,
quello per capirsi che nel 1979 fu la guida spirituale della rivoluzione islamica che cacciò gli Scia per istaurare quel regime fondamentalista e teocratico che dura tutt’oggi.
Ahmadinejad,
l’ex presidente della Repubblica,
quello ossessionato del nucleare e dalla voglia di cancellare Israele dalla cartina geografica,
è appunto ex presidente
infatti non c’è più e al suo posto hanno messo tale Sig. Hassan Rouhani
che rispetto ad Ahmadinejad viene considerato un po’ più di centro,
più riformista ma con la stessa passione del suo predecessore per le bombe nucleari.
Poi?
Non lo so.
Anzi sì lo so.
Non riesco a scrivere di questo film perché non mi va di parlare dell’Iran,
non mi va di parlare di politica,
non mi va di dire cose politically correct,
non intendo fare della retorica spicciola
e poi diciamocelo non sono molto informato sull’Iran di oggi
e non ho nessuna voglia di fare brutte figure.
Semplifichiamo.
L’Iran è una repubblica islamica,
il che vuol dire a occhio e croce che la legislazione è basata in larga parte sulla Sharia,
la legge islamica.
A comandare ci pensa “la guida suprema” ruolo oggi rivestito dallo ayatollah Ali Khamenei (dunque un religioso) ai tempi intimo consigliere dell’altro ayatollah che si chiama quasi come lui ma non è lui e cioè Ruhollah Khomeyni,
quello per capirsi che nel 1979 fu la guida spirituale della rivoluzione islamica che cacciò gli Scia per istaurare quel regime fondamentalista e teocratico che dura tutt’oggi.
Ahmadinejad,
l’ex presidente della Repubblica,
quello ossessionato del nucleare e dalla voglia di cancellare Israele dalla cartina geografica,
è appunto ex presidente
infatti non c’è più e al suo posto hanno messo tale Sig. Hassan Rouhani
che rispetto ad Ahmadinejad viene considerato un po’ più di centro,
più riformista ma con la stessa passione del suo predecessore per le bombe nucleari.
Poi?
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Poi in Iran non si bevono alcolici,
le donne indossano lo chador e c’è la censura.
Il film di Panahi parla di Iran,
parla delle condizioni di vita in Iran,
parla del cinema in Iran e quindi parla anche di censura.
Panahi stesso dopo essere stato incarcerato,
è stato condannato a non fare film,
non espatriare,
non rilasciare interviste per vent’anni a causa delle sue “idee progressiste” e a causa dei suoi film che hanno “la colpa” di raccontare al mondo l’Iran di oggi.
le donne indossano lo chador e c’è la censura.
Il film di Panahi parla di Iran,
parla delle condizioni di vita in Iran,
parla del cinema in Iran e quindi parla anche di censura.
Panahi stesso dopo essere stato incarcerato,
è stato condannato a non fare film,
non espatriare,
non rilasciare interviste per vent’anni a causa delle sue “idee progressiste” e a causa dei suoi film che hanno “la colpa” di raccontare al mondo l’Iran di oggi.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Semplifichiamo,
veniamo al film:
“Taxi Theran” è un film sbagliato.
Ed è pure noioso.
Durante gli ottantadue minuti del film ho guardato più volte l’orologio sperando che il tempo passasse più in fretta,
brutto segno.
Pausa.
Chiedo scusa.
Non ce la faccio.
Non ci riesco.
Non voglio scrivere male ancora una volta di un film,
visto che sarebbe il quarto che stronco nelle ultime cinque recensioni.
Non voglio scrivere male di questo film che prima di essere un film giusto o sbagliato,
bello o brutto,
è in primo luogo un atto eroico.
Peccato perché l’idea che sta alla base di questo film è un’idea valida,
di quelle che mi piacciono da impazzire.
Ma?
Ma il film non è buono.
Mi spiego meglio.
veniamo al film:
“Taxi Theran” è un film sbagliato.
Ed è pure noioso.
Durante gli ottantadue minuti del film ho guardato più volte l’orologio sperando che il tempo passasse più in fretta,
brutto segno.
Pausa.
Chiedo scusa.
Non ce la faccio.
Non ci riesco.
Non voglio scrivere male ancora una volta di un film,
visto che sarebbe il quarto che stronco nelle ultime cinque recensioni.
Non voglio scrivere male di questo film che prima di essere un film giusto o sbagliato,
bello o brutto,
è in primo luogo un atto eroico.
Peccato perché l’idea che sta alla base di questo film è un’idea valida,
di quelle che mi piacciono da impazzire.
Ma?
Ma il film non è buono.
Mi spiego meglio.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Semplifico ancora:
l’idea era un ottimo spunto per un grande documentario:
voglio raccontare lo stato in cui versa l’Iran e lo devo fare di nascosto perché mi hanno vietato di fare film per vent’anni,
come faccio?
Bene,
prendo un taxi,
mi fingo tassista,
ci infilo una telecamera dentro e riprendo i passeggeri che mi raccontano scampoli delle loro vite.
Ecco fatto,
risultato di sicuro successo.
Eccoti l’Iran di oggi,
che con grazia emerge e viene evocato da quello che semplicemente la macchina da presa coglie,
registra,
da ciò che semplicemente accade all’interno di quel taxi,
che è un taxi ma poteva essere un bagno,
una cucina,
una cabina telefonica,
che manco a Teheran esistono più,
insomma un contenitore di storie,
all’interno del quale il mondo,
la vita,
il cinema,
che poi sono uno parte dell’altra,
appaiono e si manifestano.
L’idea dicevo,
sarebbe stata valida se fosse stato un documentario,
ma essendo un film di finzione il risultato è un’opera retorica dove tutto si dice e niente si evoca.
E’ un film didascalico.
E’ un film dove tutto è detto.
Semplifico ancora di più:
“Taxi Teheran” è l’ultimo film di Jafar Panahi e il terzo girato clandestinamente.
Il regista non può girare film per vent’anni ma vuole fare i film
quindi che fa?
Gira i film di nascosto.
E questo è il terzo e ha anche vinto l’orso d’oro a Berlino.
Gli altri due sono:
“Thi is not a film” (2011) e “Closed Curtain” (2013) con il quale sempre a Berlino vince l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura.
Quindi tornando al film,
l’idea sembra azzeccata ma il film non è un documentario,
è un film di finzione,
un film con gli attori e la sceneggiatura,
la realtà non è osservata nel suo scorrere naturale
ma bensì è messa in scena.
E il problema non è tanto la messa in scena che ripeto parte da un’ottima anche se non originale idea di fondo,
il problema sta nella scrittura stessa del film,
nella sceneggiatura che è debole perché non cinematografica.
Il testo soffre di un difetto su tutti:
è detto e mai evocato,
mai sottinteso,
niente alleggia,
si respira e si intuisce.
Semplifichiamo ancora di più:
il film è pieno di parole e di proclami ma privo di vita.
Quindi il film è retorico e un po’ noioso
e questo mi dispiace dirlo,
mi dispiace veramente.
Perché?
Perché un uomo che ha il coraggio di fare tre film di nascosto è prima di tutto un eroe.
Un uomo che è stato condannato,
messo in carcere e poi ancora limitato nella sua espressione
è un uomo che merita la stima e l’onore.
Come si fa poi a fare un film di nascosto?
Non ne ho idea.
Ciò non toglie che il film c’è,
il film esiste e resiste ma secondo me non funziona.
L’importanza di un film non risiede mai nel suo essere bello o brutto,
nel suo funzionare o meno,
che sono poi tutti aspetti che rientrano nella sfera del giudizio soggettivo. L’importanza di un film risiede nella sua essenza,
nell’esserci e nell’essere dunque per gli altri,
nell’essere appunto film,
essere cinema,
mostrare e raccontare.
“Taxi Teheran” c’è ed è un film che a me non è piaciuto,
ciò non toglie che io stesso ritenga importante il suo manifestarsi ai miei occhi e nel mondo.
E’ la sommatoria di quello che ci piace e di quello che non ci piace a creare la nostra esperienza,
la nostra cultura,
la nostra conoscenza del mondo,
nient’altro.
Ci piacciono alcune cose perché non ce ne piacciono altre e viceversa,
dunque l’importanza di qualcosa che ci piace e di qualcosa che non ci piace è assolutamente identica.
Poi c’è il valore di un’opera ma questo è un altro discorso.
Il valore è un qualcosa che va oltre il bello,
oltre il brutto,
oltre “il mi è piaciuto” e “il non mi è piaciuto”,
il valore è un qualcosa che di per se stesso ha a che fare con l’oggettività,
con lo stato di cose vigente,
con il gesto,
con il pensiero dominante,
con la società,
la cultura,
la storia,
la politica.
l’idea era un ottimo spunto per un grande documentario:
voglio raccontare lo stato in cui versa l’Iran e lo devo fare di nascosto perché mi hanno vietato di fare film per vent’anni,
come faccio?
Bene,
prendo un taxi,
mi fingo tassista,
ci infilo una telecamera dentro e riprendo i passeggeri che mi raccontano scampoli delle loro vite.
Ecco fatto,
risultato di sicuro successo.
Eccoti l’Iran di oggi,
che con grazia emerge e viene evocato da quello che semplicemente la macchina da presa coglie,
registra,
da ciò che semplicemente accade all’interno di quel taxi,
che è un taxi ma poteva essere un bagno,
una cucina,
una cabina telefonica,
che manco a Teheran esistono più,
insomma un contenitore di storie,
all’interno del quale il mondo,
la vita,
il cinema,
che poi sono uno parte dell’altra,
appaiono e si manifestano.
L’idea dicevo,
sarebbe stata valida se fosse stato un documentario,
ma essendo un film di finzione il risultato è un’opera retorica dove tutto si dice e niente si evoca.
E’ un film didascalico.
E’ un film dove tutto è detto.
Semplifico ancora di più:
“Taxi Teheran” è l’ultimo film di Jafar Panahi e il terzo girato clandestinamente.
Il regista non può girare film per vent’anni ma vuole fare i film
quindi che fa?
Gira i film di nascosto.
E questo è il terzo e ha anche vinto l’orso d’oro a Berlino.
Gli altri due sono:
“Thi is not a film” (2011) e “Closed Curtain” (2013) con il quale sempre a Berlino vince l’Orso d’argento per la migliore sceneggiatura.
Quindi tornando al film,
l’idea sembra azzeccata ma il film non è un documentario,
è un film di finzione,
un film con gli attori e la sceneggiatura,
la realtà non è osservata nel suo scorrere naturale
ma bensì è messa in scena.
E il problema non è tanto la messa in scena che ripeto parte da un’ottima anche se non originale idea di fondo,
il problema sta nella scrittura stessa del film,
nella sceneggiatura che è debole perché non cinematografica.
Il testo soffre di un difetto su tutti:
è detto e mai evocato,
mai sottinteso,
niente alleggia,
si respira e si intuisce.
Semplifichiamo ancora di più:
il film è pieno di parole e di proclami ma privo di vita.
Quindi il film è retorico e un po’ noioso
e questo mi dispiace dirlo,
mi dispiace veramente.
Perché?
Perché un uomo che ha il coraggio di fare tre film di nascosto è prima di tutto un eroe.
Un uomo che è stato condannato,
messo in carcere e poi ancora limitato nella sua espressione
è un uomo che merita la stima e l’onore.
Come si fa poi a fare un film di nascosto?
Non ne ho idea.
Ciò non toglie che il film c’è,
il film esiste e resiste ma secondo me non funziona.
L’importanza di un film non risiede mai nel suo essere bello o brutto,
nel suo funzionare o meno,
che sono poi tutti aspetti che rientrano nella sfera del giudizio soggettivo. L’importanza di un film risiede nella sua essenza,
nell’esserci e nell’essere dunque per gli altri,
nell’essere appunto film,
essere cinema,
mostrare e raccontare.
“Taxi Teheran” c’è ed è un film che a me non è piaciuto,
ciò non toglie che io stesso ritenga importante il suo manifestarsi ai miei occhi e nel mondo.
E’ la sommatoria di quello che ci piace e di quello che non ci piace a creare la nostra esperienza,
la nostra cultura,
la nostra conoscenza del mondo,
nient’altro.
Ci piacciono alcune cose perché non ce ne piacciono altre e viceversa,
dunque l’importanza di qualcosa che ci piace e di qualcosa che non ci piace è assolutamente identica.
Poi c’è il valore di un’opera ma questo è un altro discorso.
Il valore è un qualcosa che va oltre il bello,
oltre il brutto,
oltre “il mi è piaciuto” e “il non mi è piaciuto”,
il valore è un qualcosa che di per se stesso ha a che fare con l’oggettività,
con lo stato di cose vigente,
con il gesto,
con il pensiero dominante,
con la società,
la cultura,
la storia,
la politica.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Detto questo spero che Panahi possa presto tornare libero
e libero di girare i suoi film alla luce del sole,
quello stesso che illumina Teheran e ha illuminato tante grandi pellicole che l’Iran ci ha regalato grazie a Panahi stesso,
al suo maestro Kiarostami,
ad Amir Naderi e a tutta una generazione di grandi registi persiani.
Lasciamo adesso che Panahi scenda dal suo taxi e che quell’auto prosegua il suo cammino da sola,
attraverso l’Iran,
correndo in Turchia,
passando la Grecia,
e toccando l’Italia cavalchi i mari e gli oceani per attraccare in America,
nel buio del buio della notte Newyorchese dove ad aspettarlo sul ponte di Brooklyn possa trovare altre migliaia di taxi pieni di vita e di storie
come quelli di Jarmush e Benigni
e i loro “Taxisti di notte”.
e libero di girare i suoi film alla luce del sole,
quello stesso che illumina Teheran e ha illuminato tante grandi pellicole che l’Iran ci ha regalato grazie a Panahi stesso,
al suo maestro Kiarostami,
ad Amir Naderi e a tutta una generazione di grandi registi persiani.
Lasciamo adesso che Panahi scenda dal suo taxi e che quell’auto prosegua il suo cammino da sola,
attraverso l’Iran,
correndo in Turchia,
passando la Grecia,
e toccando l’Italia cavalchi i mari e gli oceani per attraccare in America,
nel buio del buio della notte Newyorchese dove ad aspettarlo sul ponte di Brooklyn possa trovare altre migliaia di taxi pieni di vita e di storie
come quelli di Jarmush e Benigni
e i loro “Taxisti di notte”.
Veniamo alle pagelle:
Due pallette
Due stellette.
E’ un cinque e mezzo per il vecchio Panahi.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
Due pallette
Due stellette.
E’ un cinque e mezzo per il vecchio Panahi.
Di Lorenzo Bechi
(www.filmsolo.org)
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N.13
"Mia madre" di Nanni Moretti
Sceneggiatura di: Nanni Moretti, Francesco Piccolo, Valia Santella
Fotografia: Arnaldo Catinari
Montaggio: Clelio Benevento
Con: Margherita Buy, Nanni Moretti, John Turturro
Prodotto da: Nanni Moretti e Domenico Procacci
Dal film “Il talento del bianco” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Sono nel mio bagno.
Sono le quattro e zero cinque.
Di notte.
Tra poco dovrò uscire.
Dal bagno.
Devo dormire.
Ho bisogno di riposo.
Mi sono svegliato alle due e venti.
Avevo caldo.
Ho fumato una sigaretta.
Due sigarette.
Guardato cose inutili su internet.
Tipo:
3bmeteo.com,
facebook.com,
gmail.com,
fiorentina.it.
repubblica.it,
casa.it,
immobiliare.it,
attico.it,
trovit.it,
kijiji.it.
Quando non so cosa fare guardo le case in vendita.
Lo faccio più volte al giorno,
anche in vacanza,
anche all’estero,
lo faccio sempre.
Le cerco a Firenze,
la città nella quale vivo,
le cerco in campagna,
a Milano,
in montagna,
al mare,
a Roma,
in val D’Orcia,
all’Abetone,
Selva di Val Gardena,
Madonna di Campiglio,
Brunico,
Vipiteno,
Canazei,
Ortisei,
Zermatt,
Bosco Gurin,
in Maremma,
Sardegna,
Grecia isole comprese,
Pietrasanta,
Parigi,
lago Thaoe,
San Francisco,
Anchorage,
San Pietroburgo,
San Casciano val di Pesa,
Tokyo e New York.
Mi piace cercare le case,
sognare le case,
guardare le case,
misurare le case,
inventarle,
valutarne il costo al metro quadro.
Sono ossessionato dalle case,
cercarle mi tranquillizza,
mi rilasso così,
che ci posso fare?
L’importante è avere delle strategie,
delle armi con le quali combattere l’ansia,
se poi d’ansia non si soffre meglio così.
Da bambino facevo la stessa cosa con le auto.
Mi facevo comprare “Quattroruote”e sapevo tutto di tutte le macchine in commercio. Nuotavo con gioia nel listino prezzi del nuovo e dell’usato in fondo alla rivista.
Il mio paradiso.
Da bambino le auto,
da adulto le case
e quando sarò vecchio?
Città,
nazioni,
continenti,
poi prima di morire i pianeti,
la tettonica a placche,
la deriva dei continenti,
ma cosa c’entrano?
Niente.
Le isole erano montagne prima di essere isole.
Eravamo una sorta di unico grande continente,
poi ci siamo allontanati,
un po’ come nell’amore,
un po’ come con gli amici,
menomale,
così siamo diversi,
ci possiamo scambiare informazioni e individuarci.
Questo è tutto quello che so sulla deriva dei continenti.
Della tettonica a placche non ricordo niente,
anche se feci una bellissima figura all’esame di maturità arrampicandomi sugli specchi e farneticando più o meno robe del tipo che la crosta terrestre si poggia su un numero definito di placche che non sono per niente stabili…
Passiamo a matematica.
Avremo sempre meno isole e più montagne e meno acqua?
Sì ma in che percentuale?
Avremo sempre più isole e meno montagne ma comunque meno acqua?
Sì ma in che percentuale?
Non ne ho idea.
Dal film “Somewhere at the end of the world” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
I numeri sono importanti permettono la definizione.
Noi comunque prima o poi andremo in cielo,
sottoterra,
saremo cenere nel vento,
nel mare
e cosa faremo?
Niente.
Non faremo più niente.
In numeri?
Zero.
Finalmente.
Morire sarà semplicemente diventare zero,
un valore assoluto,
sarà smettere di fare delle cose e lasciarne delle altre,
tipo la casa nella quale abitavi,
l’auto che ti portava a lavoro,
la città nella quale vivevi,
la nazione,
il mondo,
la terra,
la placca tettonica sulla quale hai camminato.
Beh poi ci sono i legami umani.
Ma in questo caso il problema è per chi rimane che a differenza di una casa,
di un’auto o di una placca tettonica,
parla,
ama,
pensa e soffre.
Fino a prova contraria.
Anzi no.
Le emozioni sono biochimica dunque matematica,
numeri,
quindi definite e definibili.
Sembra quasi un ragionamento di qualcuno che è distante anni luce dall’ansia,
un positivista del duemila,
un razionalista
e invece no.
L’ansia è un terrore generalizzato e irrazionale dell’accadimento di qualcosa,
della perdita di qualcosa,
dell’essere impreparato alla perdita di qualcosa,
dunque del manifestarsi di qualcosa che qualcuno se lo aspetti o meno.
L’ansia è in definitiva la sorpresa o meglio l’accadere,
la prefigurazione del futuro e dunque la vita;
che poi sono una parte dell’altra.
“Mia madre” di Nanni Moretti è un film sull’ansia,
come quasi tutti i film di Nanni Moretti.
Infatti parla di morte,
che è anche vita,
qualcosa che deve necessariamente accadere,
la prefigurazione del futuro e la negazione di esso.
Noi comunque prima o poi andremo in cielo,
sottoterra,
saremo cenere nel vento,
nel mare
e cosa faremo?
Niente.
Non faremo più niente.
In numeri?
Zero.
Finalmente.
Morire sarà semplicemente diventare zero,
un valore assoluto,
sarà smettere di fare delle cose e lasciarne delle altre,
tipo la casa nella quale abitavi,
l’auto che ti portava a lavoro,
la città nella quale vivevi,
la nazione,
il mondo,
la terra,
la placca tettonica sulla quale hai camminato.
Beh poi ci sono i legami umani.
Ma in questo caso il problema è per chi rimane che a differenza di una casa,
di un’auto o di una placca tettonica,
parla,
ama,
pensa e soffre.
Fino a prova contraria.
Anzi no.
Le emozioni sono biochimica dunque matematica,
numeri,
quindi definite e definibili.
Sembra quasi un ragionamento di qualcuno che è distante anni luce dall’ansia,
un positivista del duemila,
un razionalista
e invece no.
L’ansia è un terrore generalizzato e irrazionale dell’accadimento di qualcosa,
della perdita di qualcosa,
dell’essere impreparato alla perdita di qualcosa,
dunque del manifestarsi di qualcosa che qualcuno se lo aspetti o meno.
L’ansia è in definitiva la sorpresa o meglio l’accadere,
la prefigurazione del futuro e dunque la vita;
che poi sono una parte dell’altra.
“Mia madre” di Nanni Moretti è un film sull’ansia,
come quasi tutti i film di Nanni Moretti.
Infatti parla di morte,
che è anche vita,
qualcosa che deve necessariamente accadere,
la prefigurazione del futuro e la negazione di esso.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Ma ancora,
essendo io un ansioso di prim’ordine,
non ho voglia di parlarvi di questo film adesso
per il semplice motivo che ho paura di morire da un momento all’altro e quindi non poter dire delle cose alle quali tengo molto di più che all’ennesimo film di Moretti.
Tipo:
– vorrei scrivere un libro/girare un film dal titolo “Io sono un pellerossa”
– Scalare una montagna (tipo Everest, K2 o robe simili)
– Andare in Argentina
– Avere come amico un San Bernardo
– Essere un cowboy per alcuni mesi
-T irare l’ultimo rigore alla finale dei mondiali
Stop.
Il mio amico Mattia mi dice che parlo sempre di morte,
credo abbia ragione.
Sono un ansioso e la morte è l’amante prediletta di ogni ansioso.
Ma lasciamo per un attimo da parte l’ansia,
e questa tra l’altro è già di per se stessa una contraddizione,
e parliamo un po’ di morte.
La morte è l’unica cosa che è sicura di essere,
esistere,
accadere.
Certo c’è anche la nascita,
ma questa uno semplicemente in quanto non essendoci non può aspettarla,
attenderla,
dunque non può neppure porla in essere e immaginarla.
Può essere pensata solo da terzi
e dunque divenire fonte di ansia solo per gli altri,
coloro i quali si trovano già nella possibilità di prefigurarsi il futuro,
il pericolo:
i futuri padri,
le future madri
i futuri nonni,
e quindi non vale.
Non gli amici che ancora non ti conoscono e forse manco esistono
e se esistono per il momento non dovrebbero essere ancora ansiosi
(eccezion fatta per alcuni casi clinici riscontrati di sindrome ansiosa generalizzata del neonato)
Dunque la morte ha senso perché assume senso nell’ansia di vivere,
mentre la nascita è estremamente sopravvalutata,
un po’ come la bellezza come direbbe un mio amico
e al contrario dell’acqua come direi io,
che è molto sottovalutata da noi giovani.
essendo io un ansioso di prim’ordine,
non ho voglia di parlarvi di questo film adesso
per il semplice motivo che ho paura di morire da un momento all’altro e quindi non poter dire delle cose alle quali tengo molto di più che all’ennesimo film di Moretti.
Tipo:
– vorrei scrivere un libro/girare un film dal titolo “Io sono un pellerossa”
– Scalare una montagna (tipo Everest, K2 o robe simili)
– Andare in Argentina
– Avere come amico un San Bernardo
– Essere un cowboy per alcuni mesi
-T irare l’ultimo rigore alla finale dei mondiali
Stop.
Il mio amico Mattia mi dice che parlo sempre di morte,
credo abbia ragione.
Sono un ansioso e la morte è l’amante prediletta di ogni ansioso.
Ma lasciamo per un attimo da parte l’ansia,
e questa tra l’altro è già di per se stessa una contraddizione,
e parliamo un po’ di morte.
La morte è l’unica cosa che è sicura di essere,
esistere,
accadere.
Certo c’è anche la nascita,
ma questa uno semplicemente in quanto non essendoci non può aspettarla,
attenderla,
dunque non può neppure porla in essere e immaginarla.
Può essere pensata solo da terzi
e dunque divenire fonte di ansia solo per gli altri,
coloro i quali si trovano già nella possibilità di prefigurarsi il futuro,
il pericolo:
i futuri padri,
le future madri
i futuri nonni,
e quindi non vale.
Non gli amici che ancora non ti conoscono e forse manco esistono
e se esistono per il momento non dovrebbero essere ancora ansiosi
(eccezion fatta per alcuni casi clinici riscontrati di sindrome ansiosa generalizzata del neonato)
Dunque la morte ha senso perché assume senso nell’ansia di vivere,
mentre la nascita è estremamente sopravvalutata,
un po’ come la bellezza come direbbe un mio amico
e al contrario dell’acqua come direi io,
che è molto sottovalutata da noi giovani.
Dal film “Somewhere at the end of the world” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Altre cose che ho fatto stanotte prima di entrare in bagno:
Ho spiato quelli che dormono con la finestra aperta davanti al mio soggiorno.
Non c’era nessuno.
Non si vedeva niente o meglio poco.
Solo una finestra semiaperta e uno spiraglio di luce intermittente.
Dopo qualche secondo il miracolo:
accade ciò che speravo,
cade l’accaduto,
quando una cosa la vuoi a volte succede,
accade,
cade,
se vogliamo anche questa è ansia ma è anche la legge dei grandi numeri,
che sembra una cazzata,
ma in realtà è matematica,
statistica,
calcolo delle probabilità.
Compare una ragazza,
una donna,
illuminata a intermittenza da un fascio di luce,
forse la televisione accesa,
forse,
che ne so,
nuda?
Non riesco a vederlo.
Mi nascondo dietro la persiana col timore di essere visto,
provo a usare il vetro come specchio per spiare,
spero sia nuda,
non riesco ancora a vedere,
mi affaccio di nuovo per guardare,
tutto chiuso,
non c’è più nessuno.
Penso al cinema,
un bel pezzo di cinema si fonda sul guardare, vedere,
spiare.
Ci sono alcuni film,
tanti film,
che parlano di questo.
È un genere anzi un sottogenere di un sottogenere.
È un tipo di meta-cinema,
di cinema nel cinema,
o forse é possibile chiamarlo semplicemente il cinema voyeur.
Un cinema che mette in scena l’azione stessa dello spettatore,
guardare, vedere e spiare.
Penso al filone dei film voyeuristici e mi vengono in mente su tutti subito due film, chissà perché proprio loro:
“La finestra sul cortile” di Hitchcock (1954)
e “Bianca” di Nanni Moretti (1984) appunto,
due film molto diversi tra loro,
imparagonabili,
ma che parlano entrambi di quel qualcosa che anima il cinema,
guardare,
vedere,
immaginare,
evocare,
spiare.
Bevo dell’acqua.
Bevo ancora dell’acqua.
L’acqua è sottovalutata da noi giovani.
È adesso che mi chiudo nel mio bagno.
Eccomi.
Ho spiato quelli che dormono con la finestra aperta davanti al mio soggiorno.
Non c’era nessuno.
Non si vedeva niente o meglio poco.
Solo una finestra semiaperta e uno spiraglio di luce intermittente.
Dopo qualche secondo il miracolo:
accade ciò che speravo,
cade l’accaduto,
quando una cosa la vuoi a volte succede,
accade,
cade,
se vogliamo anche questa è ansia ma è anche la legge dei grandi numeri,
che sembra una cazzata,
ma in realtà è matematica,
statistica,
calcolo delle probabilità.
Compare una ragazza,
una donna,
illuminata a intermittenza da un fascio di luce,
forse la televisione accesa,
forse,
che ne so,
nuda?
Non riesco a vederlo.
Mi nascondo dietro la persiana col timore di essere visto,
provo a usare il vetro come specchio per spiare,
spero sia nuda,
non riesco ancora a vedere,
mi affaccio di nuovo per guardare,
tutto chiuso,
non c’è più nessuno.
Penso al cinema,
un bel pezzo di cinema si fonda sul guardare, vedere,
spiare.
Ci sono alcuni film,
tanti film,
che parlano di questo.
È un genere anzi un sottogenere di un sottogenere.
È un tipo di meta-cinema,
di cinema nel cinema,
o forse é possibile chiamarlo semplicemente il cinema voyeur.
Un cinema che mette in scena l’azione stessa dello spettatore,
guardare, vedere e spiare.
Penso al filone dei film voyeuristici e mi vengono in mente su tutti subito due film, chissà perché proprio loro:
“La finestra sul cortile” di Hitchcock (1954)
e “Bianca” di Nanni Moretti (1984) appunto,
due film molto diversi tra loro,
imparagonabili,
ma che parlano entrambi di quel qualcosa che anima il cinema,
guardare,
vedere,
immaginare,
evocare,
spiare.
Bevo dell’acqua.
Bevo ancora dell’acqua.
L’acqua è sottovalutata da noi giovani.
È adesso che mi chiudo nel mio bagno.
Eccomi.
Dal film “Halibut” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Mi sto guardando allo specchio.
Sto invecchiando e perdendo capelli senza che nessuno se ne accorga.
Lo so solo io,
non è che gli altri non me lo dicono per non essere scortesi
è che non se ne accorgono.
Gli altri non si accorgono di molte cose,
o se ne accorgono e non gliene importa un tubo e quindi è uguale
perchè quando ti accorgi di una cosa ma non te ne frega niente è come se la guardi ma non la vedi,
diciamo per semplificare che le persone tendono ad accorgersi solo di ciò che rientra nella sfera del loro diretto beneficio e tagliamo la testa al toro.
Il mio amico Mattia quando avevamo sedici anni mi diceva sempre una cosa illuminante oltre al fatto che parlo solo di morte:”le persone fanno cagare”,
secondo me aveva molta ragione,
chissà se lo pensa ancora oggi lui che è uno scienziato matto
mentre apre il cervello ai topolini per misurare quanto sono ansiosi?
Sono un quasi stempiato.
Soprattutto a destra.
Pelato starò molto male,
ho le orecchie non a sventola ma un po’a punta e all’infuori verso la vetta,
tipo Spock, quello di Star Trek,
e poi soprattutto mi manca un pezzo di testa,
nel senso che la mia testa non è solo piccola ma gli manca proprio il pezzo di dietro,
come dire…la rotondità posteriore;
a un certo punto c’è un taglio netto,
scosceso e verticale,
sono piatto dietro insomma,
“testa piatta” si dice,
sembro un basso rilievo,
un essere bidimensionale,
per fortuna che il mio amico Mattia mi ha detto che questo non ha alcuna correlazione con eventuali deficit delle capacità mentali.
Ora mi faccio una foto di profilo per valutare la piattezza del mio cranio,
non un selfie,
un meta-selfie,
neppure,
insomma mi faccio una foto allo specchio,
proprio come il cinema nel cinema o il cinema voyeur.
Guardo altrove,
cerco l’espressione migliore,
click.
Sono belle le fotografie nei bagni e dei bagni
anche quando i bagni sono brutti,
anzi più sono brutti più sono belle le fotografie che ci scatti.
Ci vogliono bagni bianchi,
sporchi,
poveri,
e possibilmente sudici,
se poi ci infili uno in vasca che si taglia le vene (parlo sempre di morte)
o uno seduto sul water a petto nudo con la cintura tra i denti che si fa una pera ancora meglio.
Larry Clark ha fatto un sacco di belle fotografie nei bagni.
E ha girato anche diversi film.
Lui è uno tosto,
lavora con gli adolescenti,
racconta storie di marginalità,
la sessualità tra i giovani,
la droga,
l’AIDS,
la provincia americana,
insomma tutto quello che funziona nel cinema indipendente e nella fotografia di reportage.
Non c’entra nulla manco lui con Nanni Moretti e col suo nuovo film ma c’entra con i bagni e io per definizione mi occupo di bagni.
Amen.
Sto invecchiando e perdendo capelli senza che nessuno se ne accorga.
Lo so solo io,
non è che gli altri non me lo dicono per non essere scortesi
è che non se ne accorgono.
Gli altri non si accorgono di molte cose,
o se ne accorgono e non gliene importa un tubo e quindi è uguale
perchè quando ti accorgi di una cosa ma non te ne frega niente è come se la guardi ma non la vedi,
diciamo per semplificare che le persone tendono ad accorgersi solo di ciò che rientra nella sfera del loro diretto beneficio e tagliamo la testa al toro.
Il mio amico Mattia quando avevamo sedici anni mi diceva sempre una cosa illuminante oltre al fatto che parlo solo di morte:”le persone fanno cagare”,
secondo me aveva molta ragione,
chissà se lo pensa ancora oggi lui che è uno scienziato matto
mentre apre il cervello ai topolini per misurare quanto sono ansiosi?
Sono un quasi stempiato.
Soprattutto a destra.
Pelato starò molto male,
ho le orecchie non a sventola ma un po’a punta e all’infuori verso la vetta,
tipo Spock, quello di Star Trek,
e poi soprattutto mi manca un pezzo di testa,
nel senso che la mia testa non è solo piccola ma gli manca proprio il pezzo di dietro,
come dire…la rotondità posteriore;
a un certo punto c’è un taglio netto,
scosceso e verticale,
sono piatto dietro insomma,
“testa piatta” si dice,
sembro un basso rilievo,
un essere bidimensionale,
per fortuna che il mio amico Mattia mi ha detto che questo non ha alcuna correlazione con eventuali deficit delle capacità mentali.
Ora mi faccio una foto di profilo per valutare la piattezza del mio cranio,
non un selfie,
un meta-selfie,
neppure,
insomma mi faccio una foto allo specchio,
proprio come il cinema nel cinema o il cinema voyeur.
Guardo altrove,
cerco l’espressione migliore,
click.
Sono belle le fotografie nei bagni e dei bagni
anche quando i bagni sono brutti,
anzi più sono brutti più sono belle le fotografie che ci scatti.
Ci vogliono bagni bianchi,
sporchi,
poveri,
e possibilmente sudici,
se poi ci infili uno in vasca che si taglia le vene (parlo sempre di morte)
o uno seduto sul water a petto nudo con la cintura tra i denti che si fa una pera ancora meglio.
Larry Clark ha fatto un sacco di belle fotografie nei bagni.
E ha girato anche diversi film.
Lui è uno tosto,
lavora con gli adolescenti,
racconta storie di marginalità,
la sessualità tra i giovani,
la droga,
l’AIDS,
la provincia americana,
insomma tutto quello che funziona nel cinema indipendente e nella fotografia di reportage.
Non c’entra nulla manco lui con Nanni Moretti e col suo nuovo film ma c’entra con i bagni e io per definizione mi occupo di bagni.
Amen.
Tiro lo sciacquone con cautela in modo che nessuno si svegli.
Adesso torno a letto.
La porta cigola.
Dormono tutti,
Passo felpato.
Sono un mago a non emettere suoni e rumori e a scomparire nel buio,
è sempre stata una delle mie tante ossessioni come:
i serpenti, il pesce, le case, le auto, il contare.
Devo trovare una bottiglia d’acqua accanto a letto e fare attenzione a non rovesciarla, ogni minimo errore potrebbe essere fatale al mio silenzio artificiale.
Devo bere e trovare un po’ di sonno.
Bevo.
Bevo ancora.
L’acqua è sottovalutata da noi giovani mi ripeto.
Non ho sonno.
Buonanotte.
A domani.
Adesso torno a letto.
La porta cigola.
Dormono tutti,
Passo felpato.
Sono un mago a non emettere suoni e rumori e a scomparire nel buio,
è sempre stata una delle mie tante ossessioni come:
i serpenti, il pesce, le case, le auto, il contare.
Devo trovare una bottiglia d’acqua accanto a letto e fare attenzione a non rovesciarla, ogni minimo errore potrebbe essere fatale al mio silenzio artificiale.
Devo bere e trovare un po’ di sonno.
Bevo.
Bevo ancora.
L’acqua è sottovalutata da noi giovani mi ripeto.
Non ho sonno.
Buonanotte.
A domani.
Dal film “Bathrooms” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Un novo giorno,
una buona colazione a base di un paio di biscotti al niente,
centodue flessioni,
dei buoni propositi.
Ho guardato ”Mia madre”di Nanni Moretti in biblioteca,
alle Oblate di Firenze,
un bel posto,
di quelli che sembrano il nord Europa ma sei in Italia
e infatti a tratti sembra anche un po’ la Somalia.
Lo guardo dal mio computer come sempre più spesso mi accade ultimamente.
Le auricolari nelle orecchie.
Il film sta iniziando e penso:
Quante volte ho scritto alla Sacher Film di Nanni Moretti e del suo ex socio Angelo Barbagallo?
Quante al loro cinema omonimo nel cuore di Trastevere?
In una delle tante mail che gli ho scritto cercando invano qualche proiezione per i miei film confessai pure il mio amore per la Sachertorte ma evidentemente non fu sufficiente per avere la loro attenzione.
Mi avessero risposto una volta.
Nessuno risponde mai a nessuno in questo mondo cattivo,
figuriamoci Nanni Moretti.
Chissà quali turbe si scatenano in lui quando legge,
vede, ascolta qualcosa d’altri?
È un uomo turbato.
È un uomo competitivo.
È un uomo noioso.
È un uomo che ha un pregio.
È un autore.
Riesce a imprimere un marchio sui suoi film tale che
non penseresti mai che potrebbero essere di nessun altro,
e questo è un valore.
Arriviamo al film.
Ma perché hanno preso John Torturro a fare questo film?
Boh.
Un grande boh.
Adesso mi sto annoiando quindi parto spedito.
Il film è scritto male,
è scritto forte,
è scritto troppo,
le immagini sono al servizio delle parole,
sono serve,
le immagini servono solo a contenere le parole,
le parole sono sopra le immagini.
Tutti i personaggi sono Nanni Moretti,
un mondo popolato di Nanni Moretti:
c’è Nanni Moretti madre,
Nanni Moretti sorella e regista,
Nanni Moretti fratello che lascia il lavoro,
Nanni Moretti amante e attore,
c’è Nanni Moretti ex marito.
Cosa sarebbe un mondo popolato da tanti Nanni Moretti che fanno mestieri e hanno ruoli diversi?
Sarebbe un inferno,
ecco cosa sarebbe.
Provate a immaginare.
Il Nanni Moretti vigile urbano con il quale discutere di una multa,
il Nanni Moretti medico che fa la sua diagnosi,
il Nanni Moretti professore di tecnica che vi dice che vostro figlio non sa manco tenere in mano un righello,
il Nanni Moretti cuoco anzi pasticcere ciccione,
il Nanni Moretti che ti da lo skilift e parla ladino,
il Nanni Moretti allo sportello bancario che si lecca le dita per contare i soldi con gli occhiali in punta di naso,
quello pompiere che rimpiange di non essere rispettato in Italia quanto in America,
il tassista pieno di gadget,
l’arbitro inflessibile che fischia impostato,
il dentista all’avanguardia che spiega ogni mossa del trapano,
l’architetto inflessibile,
il bibliotecario ossessionato dai gialli,
il badante emotivo,
il cameriere che quello purtroppo lo abbiamo finito,
il dog sitter che parla coi cani e li capisce davvero…
Tremendo.
Le parole,
i pensieri,
le seghe mentali di Nanni Moretti invadono il testo,
la sceneggiatura.
Il suo modo personale di ragionar parlando deborda dalle bocche dei suoi personaggi e mi irrita,
soprattutto quando mette se stesso nella bocca degli altri.
una buona colazione a base di un paio di biscotti al niente,
centodue flessioni,
dei buoni propositi.
Ho guardato ”Mia madre”di Nanni Moretti in biblioteca,
alle Oblate di Firenze,
un bel posto,
di quelli che sembrano il nord Europa ma sei in Italia
e infatti a tratti sembra anche un po’ la Somalia.
Lo guardo dal mio computer come sempre più spesso mi accade ultimamente.
Le auricolari nelle orecchie.
Il film sta iniziando e penso:
Quante volte ho scritto alla Sacher Film di Nanni Moretti e del suo ex socio Angelo Barbagallo?
Quante al loro cinema omonimo nel cuore di Trastevere?
In una delle tante mail che gli ho scritto cercando invano qualche proiezione per i miei film confessai pure il mio amore per la Sachertorte ma evidentemente non fu sufficiente per avere la loro attenzione.
Mi avessero risposto una volta.
Nessuno risponde mai a nessuno in questo mondo cattivo,
figuriamoci Nanni Moretti.
Chissà quali turbe si scatenano in lui quando legge,
vede, ascolta qualcosa d’altri?
È un uomo turbato.
È un uomo competitivo.
È un uomo noioso.
È un uomo che ha un pregio.
È un autore.
Riesce a imprimere un marchio sui suoi film tale che
non penseresti mai che potrebbero essere di nessun altro,
e questo è un valore.
Arriviamo al film.
Ma perché hanno preso John Torturro a fare questo film?
Boh.
Un grande boh.
Adesso mi sto annoiando quindi parto spedito.
Il film è scritto male,
è scritto forte,
è scritto troppo,
le immagini sono al servizio delle parole,
sono serve,
le immagini servono solo a contenere le parole,
le parole sono sopra le immagini.
Tutti i personaggi sono Nanni Moretti,
un mondo popolato di Nanni Moretti:
c’è Nanni Moretti madre,
Nanni Moretti sorella e regista,
Nanni Moretti fratello che lascia il lavoro,
Nanni Moretti amante e attore,
c’è Nanni Moretti ex marito.
Cosa sarebbe un mondo popolato da tanti Nanni Moretti che fanno mestieri e hanno ruoli diversi?
Sarebbe un inferno,
ecco cosa sarebbe.
Provate a immaginare.
Il Nanni Moretti vigile urbano con il quale discutere di una multa,
il Nanni Moretti medico che fa la sua diagnosi,
il Nanni Moretti professore di tecnica che vi dice che vostro figlio non sa manco tenere in mano un righello,
il Nanni Moretti cuoco anzi pasticcere ciccione,
il Nanni Moretti che ti da lo skilift e parla ladino,
il Nanni Moretti allo sportello bancario che si lecca le dita per contare i soldi con gli occhiali in punta di naso,
quello pompiere che rimpiange di non essere rispettato in Italia quanto in America,
il tassista pieno di gadget,
l’arbitro inflessibile che fischia impostato,
il dentista all’avanguardia che spiega ogni mossa del trapano,
l’architetto inflessibile,
il bibliotecario ossessionato dai gialli,
il badante emotivo,
il cameriere che quello purtroppo lo abbiamo finito,
il dog sitter che parla coi cani e li capisce davvero…
Tremendo.
Le parole,
i pensieri,
le seghe mentali di Nanni Moretti invadono il testo,
la sceneggiatura.
Il suo modo personale di ragionar parlando deborda dalle bocche dei suoi personaggi e mi irrita,
soprattutto quando mette se stesso nella bocca degli altri.
Dal film “mimancachiunque” (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Il film ha una storia e la storia è abbastanza facile da raccontare,
ci provo:
Margherita Buy è Nanni Moretti,
infatti fa la regista.
Nanni Moretti è il fratello di Margherita Buy
e non si capisce cosa faccia.
Dunque Nanni Moretti fa il fratello di se stesso
e la loro mamma,
dunque la sua,
sta morendo.
Margherita Buy sta girando un film con un attore americano beota che è un beota e fa il beota.
Poi la mamma muore.
FINE.
Risulta evidente che siamo per l’ennesima volta di fronte a un film di Nanni Moretti dove ci sono dei personaggi inutili
e così ancora una volta la vecchia legge del come si fa del buon cinema se ne va a quel paese,
ovvero quella regola secondo la quale
“tutto deve servire a qualcosa e se non serve fanne a meno”.
A cosa serve Turturro che fa il beota per un’ora e quaranta?
A niente.
Serve a far ridere chi?
Nessuno.
Forse l’attore di risonanza internazionale serve a far impennare gli incassi al botteghino?
Non credo,
non ho mai sentito nessuno dire:”vado a vedere l’ultimo di Turturro”.
Forse il motivo della sua presenza è rintracciabile in un futuro lancio del film in America?
Non scherziamo.
Serve a fare da contrappunto alla dimensione tragica dell’ansia,
della perdita,
della morte,
che poi sono una parte dell’altra?
Se serve a questo non funziona.
Serve a ingrassare il personaggio di Margherita Buy?
Il transfert e il controtransfert del rapporto attore-regista sono messi in scena per raccontare meglio la dimensione psicologica della protagonista?
Sì, forse serve a questo ma ho delle perplessità in merito.
Quando a un personaggio serve un altro personaggio per stare in piedi vuol dire che il primo personaggio (scusate il gioco di parole) è un po’ debole,
e se il primo personaggio è anche il protagonista del film nonché la diretta emanazione con la gonna dello stesso regista,
allora il problema è evidente.
A cosa serve il personaggio di Nanni Moretti che fa il fratello di se stesso?
A niente,
se non a sottolineare la trovata faticosa dell’autore di mettere in scena se stesso attraverso un personaggio femminile.
Del tipo io ti sembro questo personaggio che ha la mia faccia e i miei abiti ma in realtà sono lei,
che guarda un po’ fa il mio stesso lavoro e parla come me.
È forse una sorta di boutade?
Chi può dirlo?
Chissà…
La trovata risulta comunque faticosa già di partenza
e lo è ancora di più se quella parte femminile che metti in scena fa la regista,
ha i tuoi stessi problemi nella vita e sul lavoro.
Insomma tutto ciò risulta ancor più faticoso se l’unico scarto tra te e il personaggio che metti in scena per rappresentarti è l’essere di un altro sesso.
Forse volevi mettere in scena la tua parte femminile?
Non mi pare.
Ah e poi serve a far fare un ruolo a Nanni Moretti.
Ci mancherebbe,
che nelle vesti di questo personaggio inutile fa un se stesso incolore,
privo di senso e vagamente assorto nella rassegnazione della perdita.
Un personaggio maturo e al di sopra di tutto,
grigio,
inconsistente e quasi invisibile.
Forse questo è tutto quello che sogna di essere Nanni quando si accorge di risultare ingombrante,
debordante,
eccessivamente presente anche a se stesso.
Questa è un’idea.
Chissà?
Nanni Moretti dunque non si capisce bene cosa faccia,
anzi proprio cosa ci stia a fare nel film.
Ha lasciato un lavoro per badare alla madre malata e ogni tanto parla con la sorella che poi è se stesso.
Resta che il suo personaggio non ha alcun peso e alcun senso.
In altre parole non serve a un tubo ed era eliminabile così come specularmente era accaduto in Habemus Papam (Nanni Moretti, 2011) per il personaggio di Margherita Buy che interpreta la moglie di Nanni anche lei come lui psicanalista.
ci provo:
Margherita Buy è Nanni Moretti,
infatti fa la regista.
Nanni Moretti è il fratello di Margherita Buy
e non si capisce cosa faccia.
Dunque Nanni Moretti fa il fratello di se stesso
e la loro mamma,
dunque la sua,
sta morendo.
Margherita Buy sta girando un film con un attore americano beota che è un beota e fa il beota.
Poi la mamma muore.
FINE.
Risulta evidente che siamo per l’ennesima volta di fronte a un film di Nanni Moretti dove ci sono dei personaggi inutili
e così ancora una volta la vecchia legge del come si fa del buon cinema se ne va a quel paese,
ovvero quella regola secondo la quale
“tutto deve servire a qualcosa e se non serve fanne a meno”.
A cosa serve Turturro che fa il beota per un’ora e quaranta?
A niente.
Serve a far ridere chi?
Nessuno.
Forse l’attore di risonanza internazionale serve a far impennare gli incassi al botteghino?
Non credo,
non ho mai sentito nessuno dire:”vado a vedere l’ultimo di Turturro”.
Forse il motivo della sua presenza è rintracciabile in un futuro lancio del film in America?
Non scherziamo.
Serve a fare da contrappunto alla dimensione tragica dell’ansia,
della perdita,
della morte,
che poi sono una parte dell’altra?
Se serve a questo non funziona.
Serve a ingrassare il personaggio di Margherita Buy?
Il transfert e il controtransfert del rapporto attore-regista sono messi in scena per raccontare meglio la dimensione psicologica della protagonista?
Sì, forse serve a questo ma ho delle perplessità in merito.
Quando a un personaggio serve un altro personaggio per stare in piedi vuol dire che il primo personaggio (scusate il gioco di parole) è un po’ debole,
e se il primo personaggio è anche il protagonista del film nonché la diretta emanazione con la gonna dello stesso regista,
allora il problema è evidente.
A cosa serve il personaggio di Nanni Moretti che fa il fratello di se stesso?
A niente,
se non a sottolineare la trovata faticosa dell’autore di mettere in scena se stesso attraverso un personaggio femminile.
Del tipo io ti sembro questo personaggio che ha la mia faccia e i miei abiti ma in realtà sono lei,
che guarda un po’ fa il mio stesso lavoro e parla come me.
È forse una sorta di boutade?
Chi può dirlo?
Chissà…
La trovata risulta comunque faticosa già di partenza
e lo è ancora di più se quella parte femminile che metti in scena fa la regista,
ha i tuoi stessi problemi nella vita e sul lavoro.
Insomma tutto ciò risulta ancor più faticoso se l’unico scarto tra te e il personaggio che metti in scena per rappresentarti è l’essere di un altro sesso.
Forse volevi mettere in scena la tua parte femminile?
Non mi pare.
Ah e poi serve a far fare un ruolo a Nanni Moretti.
Ci mancherebbe,
che nelle vesti di questo personaggio inutile fa un se stesso incolore,
privo di senso e vagamente assorto nella rassegnazione della perdita.
Un personaggio maturo e al di sopra di tutto,
grigio,
inconsistente e quasi invisibile.
Forse questo è tutto quello che sogna di essere Nanni quando si accorge di risultare ingombrante,
debordante,
eccessivamente presente anche a se stesso.
Questa è un’idea.
Chissà?
Nanni Moretti dunque non si capisce bene cosa faccia,
anzi proprio cosa ci stia a fare nel film.
Ha lasciato un lavoro per badare alla madre malata e ogni tanto parla con la sorella che poi è se stesso.
Resta che il suo personaggio non ha alcun peso e alcun senso.
In altre parole non serve a un tubo ed era eliminabile così come specularmente era accaduto in Habemus Papam (Nanni Moretti, 2011) per il personaggio di Margherita Buy che interpreta la moglie di Nanni anche lei come lui psicanalista.
(c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Due parole su Margherita Buy.
Io non so se sia colpa sua o di chi la dirige o ancora di chi scrive i personaggi che lei interpreta.
Non lo so.
Fatto sta che quando recita in un film di Verdone fa Verdone,
quando recita in un film di Moretti fa Moretti
e io questa cosa la detesto,
detesto chi parla per bocca d’altri sia nella finzione quanto nella realtà.
Rendi tuo il personaggio,
masticalo, digeriscilo e fallo tuo,
sia questo il cinema, il teatro o la vita.
“Mia madre” è un film che non si sente bene.
Non nel senso che sia un film ammalato
ma nel senso che è un film con un audio pessimo.
Non so se le mie auricolari siano prodigiose,
non credo,
fatto sta che nel film ho notato dei bruschi abbassamenti dell’audio d’ambiente ogni qual volta che un attore parla per poi rialzarlo nelle pause dei dialoghi,
con il risultato della distruzione o meglio della materializzazione del meccanismo della finzione,
cosa che rende il film,
le scene,
i dialoghi,
i sospiri,
artificiosi e artificiali.
In due parole poco credibili.
A causa di questo e non solo,
non sono mai riuscito ad entrare dentro la storia,
a coinvolgermi, immedesimarmi,
ma solo a fare alcune riflessioni a posteriori
e questo credo non sia bello per un film che a mio modo di vedere deve vivere prima, durante e dopo la visione.
Ho sentito per la prima volta della musica in un film di Moretti.
Non che negli altri non ci sia ma in questo l’ho sentita,
l’ho notata,
l’ho trovata ingombrante e mal gestita,
nonostante gli stratagemmi utilizzati per dissimularla nel farla passare dall’extra diegetico al diegetico con trovate banali quali quella di qualcuno che spegne quello stereo dal quale si scopre provenire la musica.
C’è una scena di ballo.
Mi ha fatto ridere.
Io amo le scene di ballo con o senza musica.
In quella scena Turturro molla tutto,
molla la maschera di attore e improvvisa e si abbandona.
Il risultato è di qualcosa che funziona,
un po’ perché Turturro come me ha delle evidenti doti danzerecce,
un po’ perché nel cinema come nella vita,
che poi sono uno parte dell’altra,
i momenti di abbandono sono quelli che contano.
“Mia madre” è anche un film sul cinema.
Parliamo di nuovo di cinema nel cinema o meglio di meta-cinema,
che come detto in precedenza è un vero e proprio genere anzi un sottogenere,
ma anche un vizio di forma e un complesso,
un desiderio fragile,
una sega gigante,
la voglia di noi addetti ai lavori di dire qualcosa quando siamo a corto di idee e quindi parlare di noi stessi (ma perché dover per forza dire qualcosa? Ansia di non esistere per gli altri, dunque morire!) .
È il desiderio megalomane di raccontare quello che facciamo,
che ci sembra tanto grande da trovare incredibile quel menefreghismo che circonda il nostro fare quotidiano che crediamo irresistibile e unico.
Ma ripeto ancora una volta a nessuno frega niente di nessuno,
viviamo in un mondo cattivo,
figuriamoci a chi interessa delle professioni altrui,
tantomeno se hai la fortuna di passare il tuo tempo a ragionar di campi lunghi, “fegatelli”, profondità di campo, conflitti e trasfocature.
Il cineasta parla di cinema quando ha bisogno di colmare un’ansia da prestazione: “…anche io lavoro, anche io soffro, datemi rispetto e ponetemi in essere…come tu fai il fioraio e puoi dire di essere un fioraio e gli altri ti chiamano fioraio anche io faccio il regista, posso dire di essere un regista e voglio che gli altri mi chiamino regista…”.
Torniamo al cinema nel cinema che è meglio.
Il cinema che è una lente,
cornea,
pupilla,
iride,
coni e bastoncelli,
spia dal buco della serratura e facendosi meta diventa specchio di se stesso.
Quindi narciso,
vanitoso e autoreferenziale.
Tanto più quando la realtà e la rappresentazione di essa si mischiano senza fondersi e i volti diventano maschera, i corpi marionette e il regista burattinaio.
Che dire?
È un gioco psicanalitico,
delle parti e degli specchi,
è materia fragile,
c’è bisogno del bisturi,
dell’anestesista, del lettino e magari anche dell’interpretazione dei sogni.
È difficile fare bene col cinema nel cinema come lo è difficile col suicidio (parlo di cinema e come sempre anche di morte).
È una narrativa banale.
È filosofia spicciola,
facile,
e quindi antipatica e ridicola,
così come è facile e sbrigativo far morire un personaggio e toglierselo di torno.
A meno che…
A meno che nel cinema dentro il cinema non ci sia la vita e quindi la morte e quindi il suicidio, la tempesta e l’assalto,
che poi sono gli uni parti degli altri.
Chi?
Cosa?
Non lo so.
“Mia madre”oltre ad essere un film sul cinema è un film sull’ansia,
è soprattutto un film sull’ansia.
Il cinema di Moretti è un cinema sull’ansia,
dell’ansia,
non sulla nevrosi ma su una nevrosi,
l’ansia.
A volte verrebbe da pensare che il suo cinema si poggi sulla paranoia ma la paranoia è solo una tra le tante metastasi dell’ansia.
Altri direbbero che è un cinema ossessivo compulsivo
ma siamo sempre in un sottogenere,
pardon,
in una sottocategoria o meglio in un disturbo specifico facente parte della grande famiglia dei disturbi d’ansia.
A tal proposito in questo film ci sono anche delle cose belle,
ci sono delle cose che mi hanno toccato,
ci sono delle cose che mi hanno sfiorato dei fili scoperti.
È importante che un film tocchi dei fili scoperti,
non è fondamentale ma se lo fa non è male.
È inutile negare che il pensiero della morte è principio fondatore del concetto di vita.
È inutile negare che il padre e la madre sono il nostro super ego e in quanto tali il nostro rifugio, l’approdo sicuro e le ombre della nostra esistenza.
È inutile negare che è dinanzi a ciò che svanisce che prendono vita il senno di poi e il senso di colpa.
È inutile negarlo perché viviamo in un mondo,
in un’epoca,
dominati dall’ansia,
anzi dall’ansia negativa,
dall’ansia di perdere quello che non abbiamo ma che vorremmo,
quello che non siamo ma vorremo essere;
siamo ansiosi di perdere la madre non perché la perderemo ma perché non la abbiamo amata abbastanza e non glielo abbiamo mai detto.
Questa è l’ansia negativa,
una cosa che non si legge sui manuali di psichiatria,
una cosa che non esiste e che ho inventato io ora.
“A cosa stai pensando mamma?”
“A domani”
È una chiusa,
è una chiosa,
è retorica,
quella stessa retorica che Moretti dice di odiare attraverso le parole di Margherita Buy.
A me è sembrata una bella chiusa,
una buona retorica,
un buon colpo ad effetto.
Poi io amo le chiuse e le chiose.
Amo i finali e non amo la retorica
ma quelle due battute mi hanno detto qualcosa a differenza di altre.
A proposito di mamme:
la mamma di “Mia madre”,
interpretata da Giulia Lazzarini,
è una mamma ex insegnante e del nord Italia.
Il pensiero corre a Pier Paolo Pasolini e alla sua di mamma,
Susanna,
anche lei insegnante, anche lei del nord Italia.
“…Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”
(tratto da “Supplica a mia madre” di Pier Paolo Pasolini 25 aprile 1962, pubblicata nella prima edizione del libro “Poesia in forma di rosa” del 1964, nella prima sezione “La Realtà” della quale è la poesia numero quattro).
Veniamo adesso alle pagelle:
Due pallette
Due stellette.
È un cinque più per il vecchio Moretti.
Di Lorenzo Bechi
Io non so se sia colpa sua o di chi la dirige o ancora di chi scrive i personaggi che lei interpreta.
Non lo so.
Fatto sta che quando recita in un film di Verdone fa Verdone,
quando recita in un film di Moretti fa Moretti
e io questa cosa la detesto,
detesto chi parla per bocca d’altri sia nella finzione quanto nella realtà.
Rendi tuo il personaggio,
masticalo, digeriscilo e fallo tuo,
sia questo il cinema, il teatro o la vita.
“Mia madre” è un film che non si sente bene.
Non nel senso che sia un film ammalato
ma nel senso che è un film con un audio pessimo.
Non so se le mie auricolari siano prodigiose,
non credo,
fatto sta che nel film ho notato dei bruschi abbassamenti dell’audio d’ambiente ogni qual volta che un attore parla per poi rialzarlo nelle pause dei dialoghi,
con il risultato della distruzione o meglio della materializzazione del meccanismo della finzione,
cosa che rende il film,
le scene,
i dialoghi,
i sospiri,
artificiosi e artificiali.
In due parole poco credibili.
A causa di questo e non solo,
non sono mai riuscito ad entrare dentro la storia,
a coinvolgermi, immedesimarmi,
ma solo a fare alcune riflessioni a posteriori
e questo credo non sia bello per un film che a mio modo di vedere deve vivere prima, durante e dopo la visione.
Ho sentito per la prima volta della musica in un film di Moretti.
Non che negli altri non ci sia ma in questo l’ho sentita,
l’ho notata,
l’ho trovata ingombrante e mal gestita,
nonostante gli stratagemmi utilizzati per dissimularla nel farla passare dall’extra diegetico al diegetico con trovate banali quali quella di qualcuno che spegne quello stereo dal quale si scopre provenire la musica.
C’è una scena di ballo.
Mi ha fatto ridere.
Io amo le scene di ballo con o senza musica.
In quella scena Turturro molla tutto,
molla la maschera di attore e improvvisa e si abbandona.
Il risultato è di qualcosa che funziona,
un po’ perché Turturro come me ha delle evidenti doti danzerecce,
un po’ perché nel cinema come nella vita,
che poi sono uno parte dell’altra,
i momenti di abbandono sono quelli che contano.
“Mia madre” è anche un film sul cinema.
Parliamo di nuovo di cinema nel cinema o meglio di meta-cinema,
che come detto in precedenza è un vero e proprio genere anzi un sottogenere,
ma anche un vizio di forma e un complesso,
un desiderio fragile,
una sega gigante,
la voglia di noi addetti ai lavori di dire qualcosa quando siamo a corto di idee e quindi parlare di noi stessi (ma perché dover per forza dire qualcosa? Ansia di non esistere per gli altri, dunque morire!) .
È il desiderio megalomane di raccontare quello che facciamo,
che ci sembra tanto grande da trovare incredibile quel menefreghismo che circonda il nostro fare quotidiano che crediamo irresistibile e unico.
Ma ripeto ancora una volta a nessuno frega niente di nessuno,
viviamo in un mondo cattivo,
figuriamoci a chi interessa delle professioni altrui,
tantomeno se hai la fortuna di passare il tuo tempo a ragionar di campi lunghi, “fegatelli”, profondità di campo, conflitti e trasfocature.
Il cineasta parla di cinema quando ha bisogno di colmare un’ansia da prestazione: “…anche io lavoro, anche io soffro, datemi rispetto e ponetemi in essere…come tu fai il fioraio e puoi dire di essere un fioraio e gli altri ti chiamano fioraio anche io faccio il regista, posso dire di essere un regista e voglio che gli altri mi chiamino regista…”.
Torniamo al cinema nel cinema che è meglio.
Il cinema che è una lente,
cornea,
pupilla,
iride,
coni e bastoncelli,
spia dal buco della serratura e facendosi meta diventa specchio di se stesso.
Quindi narciso,
vanitoso e autoreferenziale.
Tanto più quando la realtà e la rappresentazione di essa si mischiano senza fondersi e i volti diventano maschera, i corpi marionette e il regista burattinaio.
Che dire?
È un gioco psicanalitico,
delle parti e degli specchi,
è materia fragile,
c’è bisogno del bisturi,
dell’anestesista, del lettino e magari anche dell’interpretazione dei sogni.
È difficile fare bene col cinema nel cinema come lo è difficile col suicidio (parlo di cinema e come sempre anche di morte).
È una narrativa banale.
È filosofia spicciola,
facile,
e quindi antipatica e ridicola,
così come è facile e sbrigativo far morire un personaggio e toglierselo di torno.
A meno che…
A meno che nel cinema dentro il cinema non ci sia la vita e quindi la morte e quindi il suicidio, la tempesta e l’assalto,
che poi sono gli uni parti degli altri.
Chi?
Cosa?
Non lo so.
“Mia madre”oltre ad essere un film sul cinema è un film sull’ansia,
è soprattutto un film sull’ansia.
Il cinema di Moretti è un cinema sull’ansia,
dell’ansia,
non sulla nevrosi ma su una nevrosi,
l’ansia.
A volte verrebbe da pensare che il suo cinema si poggi sulla paranoia ma la paranoia è solo una tra le tante metastasi dell’ansia.
Altri direbbero che è un cinema ossessivo compulsivo
ma siamo sempre in un sottogenere,
pardon,
in una sottocategoria o meglio in un disturbo specifico facente parte della grande famiglia dei disturbi d’ansia.
A tal proposito in questo film ci sono anche delle cose belle,
ci sono delle cose che mi hanno toccato,
ci sono delle cose che mi hanno sfiorato dei fili scoperti.
È importante che un film tocchi dei fili scoperti,
non è fondamentale ma se lo fa non è male.
È inutile negare che il pensiero della morte è principio fondatore del concetto di vita.
È inutile negare che il padre e la madre sono il nostro super ego e in quanto tali il nostro rifugio, l’approdo sicuro e le ombre della nostra esistenza.
È inutile negare che è dinanzi a ciò che svanisce che prendono vita il senno di poi e il senso di colpa.
È inutile negarlo perché viviamo in un mondo,
in un’epoca,
dominati dall’ansia,
anzi dall’ansia negativa,
dall’ansia di perdere quello che non abbiamo ma che vorremmo,
quello che non siamo ma vorremo essere;
siamo ansiosi di perdere la madre non perché la perderemo ma perché non la abbiamo amata abbastanza e non glielo abbiamo mai detto.
Questa è l’ansia negativa,
una cosa che non si legge sui manuali di psichiatria,
una cosa che non esiste e che ho inventato io ora.
“A cosa stai pensando mamma?”
“A domani”
È una chiusa,
è una chiosa,
è retorica,
quella stessa retorica che Moretti dice di odiare attraverso le parole di Margherita Buy.
A me è sembrata una bella chiusa,
una buona retorica,
un buon colpo ad effetto.
Poi io amo le chiuse e le chiose.
Amo i finali e non amo la retorica
ma quelle due battute mi hanno detto qualcosa a differenza di altre.
A proposito di mamme:
la mamma di “Mia madre”,
interpretata da Giulia Lazzarini,
è una mamma ex insegnante e del nord Italia.
Il pensiero corre a Pier Paolo Pasolini e alla sua di mamma,
Susanna,
anche lei insegnante, anche lei del nord Italia.
“…Ti supplico, ah, ti supplico: non voler morire.
Sono qui, solo, con te, in un futuro aprile…”
(tratto da “Supplica a mia madre” di Pier Paolo Pasolini 25 aprile 1962, pubblicata nella prima edizione del libro “Poesia in forma di rosa” del 1964, nella prima sezione “La Realtà” della quale è la poesia numero quattro).
Veniamo adesso alle pagelle:
Due pallette
Due stellette.
È un cinque più per il vecchio Moretti.
Di Lorenzo Bechi
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N.12
“il Ventilatore”
Sempre più caldo.
Fa sempre più caldo.
Non posso uscire dalla mia camera.
Non posso scappare dallo sguardo vigile del mio ventilatore cinese,
un Cat in finto metallo a tre velocità che sembra pure bello con la sua aria da oggetto di recupero industriale che fa tanto loft newyorkese.
In realtà è di plastica e non ventila un bel niente,
smuove masse d’aria calda.
E poi non siamo a New York ma siamo a Firenze.
Piazza di San Martino numero tre,
manco un albero nel raggio di un chilometro.
Non so quanti gradi ci siano per le strade infuocate e non lo voglio neppure sapere.
È quel momento dell’anno in cui i telegiornali mandano in onda i servizi d’archivio con i turisti in visiera che fanno la doccia nelle fontane romane e gli anziani sono seduti nell’ombra mentre sventolano qualcosa.
Alcuni muoiono.
Dovete bere tre litri d’acqua il giorno!
Impensabile.
Fa sempre più caldo.
Non posso uscire dalla mia camera.
Non posso scappare dallo sguardo vigile del mio ventilatore cinese,
un Cat in finto metallo a tre velocità che sembra pure bello con la sua aria da oggetto di recupero industriale che fa tanto loft newyorkese.
In realtà è di plastica e non ventila un bel niente,
smuove masse d’aria calda.
E poi non siamo a New York ma siamo a Firenze.
Piazza di San Martino numero tre,
manco un albero nel raggio di un chilometro.
Non so quanti gradi ci siano per le strade infuocate e non lo voglio neppure sapere.
È quel momento dell’anno in cui i telegiornali mandano in onda i servizi d’archivio con i turisti in visiera che fanno la doccia nelle fontane romane e gli anziani sono seduti nell’ombra mentre sventolano qualcosa.
Alcuni muoiono.
Dovete bere tre litri d’acqua il giorno!
Impensabile.
Immagine tratta dal film "Il Talento del Bianco" di Lorenzo Bechi, produzione FILMSOLO, Italia 2011
Non ho nessuna intenzione di andare a vedere un film al cinema,
poi di film che mi interessano non ce ne sono,
resiste solo Garrone ma io di fantasy non ne voglio proprio sapere.
Non ho mai letto Tolkien,
guardato una puntata di “Game of Thrones”,
non ho alcuna familiarità con orchi, troll, principesse e folletti,
i regni per quanto mi riguarda non esistono nemmeno nei cieli
e le uniche spade che conosco sono quelle di He-Man, Dartagnan, Portos e Aramis.
Però che strano un film fantasy fatto in Italia e da un italiano.
Certo, come dimenticare “Fantaghirò”(1991) del buon vecchio Lamberto Bava che comunque sia non ho mai visto interamente.
Poco male, tanto a Natale quando sarà finalmente inverno lo ridaranno su Italia uno,
in prima serata il ventiquattro dicembre.
Io avrò riposto in letargo il mio ventilatore,
sarò avvolto in due strati di golf e non lo vedrò neanche quest’anno.
Ma sarò felice perché al caldo nel freddo.
Non ho mai letto neppure i fumetti,
così come non ho mai giocato con le carte Magic e tantomeno partecipato a giochi di ruolo.
Non sono un fenomeno nemmeno sui cartoni animati se si escludono i classicissimi tipo:
“Holly e Benji”,
“Mila e Shiro”,
“Hello Spank”,
“Gigi la trottola”
e qualche robot,
infatti ho sempre fatto pena anche in fatto di sigle cosa invece di cui si vantano molti dei trentenni che conosco, i quali passano intere cene a cantare e cantare,
facendo a gara a chi ne sa di più
e io relegato in un angolo a tracannare il mio, il tuo vino rosso.
È un mondo che non conosco quello del fantasy
e che non voglio conoscere.
Sbaglio.
Il mio è un atteggiamento di chiusura aprioristica.
Amen.
Eppure sono pieno di amici che vanno matti per tutto questo genere di cose,
matti per la mitologia nordica,
i nani, i maghi, l’epica e la figura dell’eroe,
i manga giapponesi, le hits di Cristina D’Avena.
poi di film che mi interessano non ce ne sono,
resiste solo Garrone ma io di fantasy non ne voglio proprio sapere.
Non ho mai letto Tolkien,
guardato una puntata di “Game of Thrones”,
non ho alcuna familiarità con orchi, troll, principesse e folletti,
i regni per quanto mi riguarda non esistono nemmeno nei cieli
e le uniche spade che conosco sono quelle di He-Man, Dartagnan, Portos e Aramis.
Però che strano un film fantasy fatto in Italia e da un italiano.
Certo, come dimenticare “Fantaghirò”(1991) del buon vecchio Lamberto Bava che comunque sia non ho mai visto interamente.
Poco male, tanto a Natale quando sarà finalmente inverno lo ridaranno su Italia uno,
in prima serata il ventiquattro dicembre.
Io avrò riposto in letargo il mio ventilatore,
sarò avvolto in due strati di golf e non lo vedrò neanche quest’anno.
Ma sarò felice perché al caldo nel freddo.
Non ho mai letto neppure i fumetti,
così come non ho mai giocato con le carte Magic e tantomeno partecipato a giochi di ruolo.
Non sono un fenomeno nemmeno sui cartoni animati se si escludono i classicissimi tipo:
“Holly e Benji”,
“Mila e Shiro”,
“Hello Spank”,
“Gigi la trottola”
e qualche robot,
infatti ho sempre fatto pena anche in fatto di sigle cosa invece di cui si vantano molti dei trentenni che conosco, i quali passano intere cene a cantare e cantare,
facendo a gara a chi ne sa di più
e io relegato in un angolo a tracannare il mio, il tuo vino rosso.
È un mondo che non conosco quello del fantasy
e che non voglio conoscere.
Sbaglio.
Il mio è un atteggiamento di chiusura aprioristica.
Amen.
Eppure sono pieno di amici che vanno matti per tutto questo genere di cose,
matti per la mitologia nordica,
i nani, i maghi, l’epica e la figura dell’eroe,
i manga giapponesi, le hits di Cristina D’Avena.
Immagine tratta dal cortometraggio "L'Architetto dei bagni" di Lorenzo Bechi, produzione FILMSOLO (Italia, 2011)
Il padre di un mio amico è addirittura l’autore della sigla di Babar,
un simpatico elefantino che non mi è mai capitato di incontrare su Italia uno e rete quattro
in compagnia di One e Four, i due conduttori di pelo di “Bim Bum Bam” e “Ciao Ciao”,
i programmi di una volta che allietavano i miei pomeriggi a suon di Girelle Motta.
Vuole la leggenda che il pupazzo One fosse a riposare nel sottoscala della scuola di arte drammatica Paolo Grassi di Milano e che un giorno di punto in bianco venne rapito.
Fu chiesto anche un riscatto ma poi non so come andò a finire.
Detto questo:
Garrone lo faccio fuori.
Comunque bravo.
È forte Garrone,
uno che passa dai documentari sugli immigrati e le prostitute (“Terra di mezzo”1996 e “Ospiti” 1998), alle storie di cronaca (“L’Imbalsamatore”2002),
poi le vele di Scampia che attraversa con la macchina da presa in una mano e Saviano nell’altra (“Gomorra”2008), poi ancora il racconto di chi sogna una vita migliore nel Grande Fratello (“Reality”2012).
E adesso un fantasy.
Eclettico.
Pensandoci:
è probabile che i prodromi del suo nuovo film fantasy,
che ripeto non ho visto,
siano rintracciabili nello stesso “Reality”,
un film a forti tinte fiabesche che emergono in modo coerente dal sapiente intreccio della sceneggiatura (Garrone, Gaudioso, Chiti, Braucci, Roviello) e della fotografia (Marco Onorato già direttore della fotografia di tutti i film di Garrone purtroppo scomparso)
Poi Garrone tutto sommato sembra una buona persona,
mi piace questa sua lunga gavetta nei bassifondi del cinema indipendente e in bianco e nero,
mi piace il suo essere capace di nuotare tra i generi cinematografici,
mi piace il suo basso profilo accanto agli ori, gli orpelli e gli incensi di Sorrentino.
un simpatico elefantino che non mi è mai capitato di incontrare su Italia uno e rete quattro
in compagnia di One e Four, i due conduttori di pelo di “Bim Bum Bam” e “Ciao Ciao”,
i programmi di una volta che allietavano i miei pomeriggi a suon di Girelle Motta.
Vuole la leggenda che il pupazzo One fosse a riposare nel sottoscala della scuola di arte drammatica Paolo Grassi di Milano e che un giorno di punto in bianco venne rapito.
Fu chiesto anche un riscatto ma poi non so come andò a finire.
Detto questo:
Garrone lo faccio fuori.
Comunque bravo.
È forte Garrone,
uno che passa dai documentari sugli immigrati e le prostitute (“Terra di mezzo”1996 e “Ospiti” 1998), alle storie di cronaca (“L’Imbalsamatore”2002),
poi le vele di Scampia che attraversa con la macchina da presa in una mano e Saviano nell’altra (“Gomorra”2008), poi ancora il racconto di chi sogna una vita migliore nel Grande Fratello (“Reality”2012).
E adesso un fantasy.
Eclettico.
Pensandoci:
è probabile che i prodromi del suo nuovo film fantasy,
che ripeto non ho visto,
siano rintracciabili nello stesso “Reality”,
un film a forti tinte fiabesche che emergono in modo coerente dal sapiente intreccio della sceneggiatura (Garrone, Gaudioso, Chiti, Braucci, Roviello) e della fotografia (Marco Onorato già direttore della fotografia di tutti i film di Garrone purtroppo scomparso)
Poi Garrone tutto sommato sembra una buona persona,
mi piace questa sua lunga gavetta nei bassifondi del cinema indipendente e in bianco e nero,
mi piace il suo essere capace di nuotare tra i generi cinematografici,
mi piace il suo basso profilo accanto agli ori, gli orpelli e gli incensi di Sorrentino.
Firenze, luglio 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Adesso fa ancora più caldo.
Sudo.
Il mio ventilatore Cat regolato su velocità due mi sta ghiacciando un sottile strato di sudore sulla schiena.
Mi guarda.
È arrogante.
Domani me ne vado in montagna, peggio per lui.
Non posso guardare un film al cinema,
non lo posso guardare al computer perché se fa caldo per andare al cinema fa caldo anche per guardarlo al computer.
Il problema non è il caldo ma l’azione.
Guardare un film.
Guardare un film nel caldo.
Di giorno.
Niente da fare.
Quindi?
Quindi non scriverò di alcun film.
Il cinema lo si fa con gli occhi e non con la macchina da presa,
dicono quelli bravi.
La camera è solo un mezzo.
Il cinema lo si fa con gli occhi mi ripeto.
Chiudo gl’occhi.
Io non dormo mai.
Mai.
Cosa vedo?
Il corridoio del treno in galleria.
Sono su un treno.
Io su un treno.
Sudo.
Il mio ventilatore Cat regolato su velocità due mi sta ghiacciando un sottile strato di sudore sulla schiena.
Mi guarda.
È arrogante.
Domani me ne vado in montagna, peggio per lui.
Non posso guardare un film al cinema,
non lo posso guardare al computer perché se fa caldo per andare al cinema fa caldo anche per guardarlo al computer.
Il problema non è il caldo ma l’azione.
Guardare un film.
Guardare un film nel caldo.
Di giorno.
Niente da fare.
Quindi?
Quindi non scriverò di alcun film.
Il cinema lo si fa con gli occhi e non con la macchina da presa,
dicono quelli bravi.
La camera è solo un mezzo.
Il cinema lo si fa con gli occhi mi ripeto.
Chiudo gl’occhi.
Io non dormo mai.
Mai.
Cosa vedo?
Il corridoio del treno in galleria.
Sono su un treno.
Io su un treno.
Firenze, febbraio 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
La testa appoggiata al vetro.
I fili elettrici corrono e saltano,
li seguo con gli occhi,
trapezisti invisibili.
Sono assuefatto al rumore delle rotaie.
È il ventilatore ma quali rotaie.
È tutto giallo.
C’è sempre qualcuno che bercia al telefono su tutti i miei treni.
Sui treni di tutti.
Il treno è il nonno del cinema penso,
“L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” (1896, fratelli Lumiere),
quel film famoso che fece scappare tutti dal cinema impauriti che il treno gli saltasse addosso.
La magia del cinema.
Poi era ancora l’ottocento.
Comunque non è il primo film della storia,
come dicono in tanti,
forse il primo su un treno.
Questo sì.
Forse.
E comunque i film con/sui treni sono tantissimi,
è un genere,
anzi un sottogenere.
I fili elettrici corrono e saltano,
li seguo con gli occhi,
trapezisti invisibili.
Sono assuefatto al rumore delle rotaie.
È il ventilatore ma quali rotaie.
È tutto giallo.
C’è sempre qualcuno che bercia al telefono su tutti i miei treni.
Sui treni di tutti.
Il treno è il nonno del cinema penso,
“L’arrivo di un treno alla stazione di La Ciotat” (1896, fratelli Lumiere),
quel film famoso che fece scappare tutti dal cinema impauriti che il treno gli saltasse addosso.
La magia del cinema.
Poi era ancora l’ottocento.
Comunque non è il primo film della storia,
come dicono in tanti,
forse il primo su un treno.
Questo sì.
Forse.
E comunque i film con/sui treni sono tantissimi,
è un genere,
anzi un sottogenere.
Firenze, gennaio 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Sono ancora ad occhi chiusi.
Penso.
E penso che sono bravo a pensare ad occhi chiusi.
Penso di essere uno dei migliori.
Presuntuoso.
È una via di mezzo tra far finta di dormire e sognare.
Quindi pensare?
No. È diverso.
Occhi chiusi.
Il grido delle cicale rimbomba.
Il ritmo è quello del treno che trionfa sui binari di fuoco.
È ancora il ventilatore che mi frega, mi dico.
Che ventilatore meraviglioso:
sposta masse d’aria,
può essere rotaia ma anche
cicala.
Come si chiamano le ruote del treno?
Ruote.
Penso.
E penso che sono bravo a pensare ad occhi chiusi.
Penso di essere uno dei migliori.
Presuntuoso.
È una via di mezzo tra far finta di dormire e sognare.
Quindi pensare?
No. È diverso.
Occhi chiusi.
Il grido delle cicale rimbomba.
Il ritmo è quello del treno che trionfa sui binari di fuoco.
È ancora il ventilatore che mi frega, mi dico.
Che ventilatore meraviglioso:
sposta masse d’aria,
può essere rotaia ma anche
cicala.
Come si chiamano le ruote del treno?
Ruote.
Firenze, giugno 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Le cicale rimbombano.
Roccamare,
Castiglione della Pescaia,
Grosseto,
Maremma,
Toscana,
Italia.
L’odore della crema solare.
Qualche granello di sabbia rimane sul tappo.
La sabbia sulla schiena.
La sabbia sull’asciugamano scomposto.
La spiaggia è un posto scomodo.
Quella di sabbia e quella di scoglio.
Mia madre venticinque anni fa.
Stremata dal sole.
Torna dalla spiaggia come un reduce dalla guerra di Korea.
Lo specchio per prendere il sole.
Un’atleta della battigia.
I copri occhi di plastica colorata.
Come si chiamano?
Occhialini?
Occhialetti?
Paraocchi?
Un residuo degli anni ’80 che ormai non c’è più,
come lo specchio per prendere il sole,
come mia madre (che ormai preferisce il basso Tirolo),
come quelle come lei che donavano anima e corpo al dio Sole che le ricompensava baciandole il naso, la bocca, le anche, le gambe, le braccia.
Il seno libero e di lato di quelle che prendono il sole sulla schiena nuda.
Le sdraio.
La sdraio,
le sdraie,
la sdraia.
E poi quegli oggetti piccoli e ridicoli per tenere rialzata la testa dalla sabbia.
Bianchi e rossi e a strisce,
sembrano mini lettini
e come tutte le cose che sembrano altre ma in miniatura sono ridicoli.
Roccamare,
Castiglione della Pescaia,
Grosseto,
Maremma,
Toscana,
Italia.
L’odore della crema solare.
Qualche granello di sabbia rimane sul tappo.
La sabbia sulla schiena.
La sabbia sull’asciugamano scomposto.
La spiaggia è un posto scomodo.
Quella di sabbia e quella di scoglio.
Mia madre venticinque anni fa.
Stremata dal sole.
Torna dalla spiaggia come un reduce dalla guerra di Korea.
Lo specchio per prendere il sole.
Un’atleta della battigia.
I copri occhi di plastica colorata.
Come si chiamano?
Occhialini?
Occhialetti?
Paraocchi?
Un residuo degli anni ’80 che ormai non c’è più,
come lo specchio per prendere il sole,
come mia madre (che ormai preferisce il basso Tirolo),
come quelle come lei che donavano anima e corpo al dio Sole che le ricompensava baciandole il naso, la bocca, le anche, le gambe, le braccia.
Il seno libero e di lato di quelle che prendono il sole sulla schiena nuda.
Le sdraio.
La sdraio,
le sdraie,
la sdraia.
E poi quegli oggetti piccoli e ridicoli per tenere rialzata la testa dalla sabbia.
Bianchi e rossi e a strisce,
sembrano mini lettini
e come tutte le cose che sembrano altre ma in miniatura sono ridicoli.
Roccamare, giugno 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Ho ancora gli occhi chiusi.
Sono ancora in treno.
Non riesco a dormire.
Quanti telefoni.
Quante orrende voci urlanti di umani da treno.
Alla mia destra:
Donna riccioluta,
brutta,
bruttissima,
età oscillante tra i quarantaquattro e i cinquantatre anni,
single,
voce nasale a sud di Napoli,
alcuni capelli bianchi,
molti capelli bianchi,
bocca fine vagamente all’ingiù,
sopracciglia fini vagamente all’ingiù,
taglio degl’occhi stile antica egiziana,
naso gigante nei paraggi della befana,
alcuni nei, uno peloso,
magra,
braccia nude,
sorriso stampato e compiaciuto,
vestitino estivo ocra recante motivi floreali minuscoli,
sta seduta protesa in avanti,
parla con qualcuno di cui ha particolare considerazione,
forse il maestro di yoga?
La psicanalista?
No.
Mani secche lisce, bianche e gialle,
lettrice di libri gialli,
fumatrice incallita.
Ha detto molte volte:”Vero?”.
Samsung modello base (touch screen).
Potrebbe essere attrice in teatro o in un film di Martone.
Un’amica di Emma Dante.
Aver fatto un provino nella compagnia dei “Teatri uniti” e aver pianto a dirotto.
Potrebbe vantare alcuni baci con la lingua con Peppe Servillo a sedici anni in quel di Posillipo. Potrebbe avere un’amica al suo fianco con la quale ha fatto amicizia sul treno quando è salita a Salerno,
ma ho detto potrebbe e infatti non c’è.
Più giovane,
logorroica,
probabile Fiorella.
Porta occhiali da vista con montatura importante,
capelli corti, mossi e un po’unti,
di quel colore indefinibile tra il rosso, l’arancione e il marrone,
cicciona,
jeans aderenti chiari a vita alta con conseguente eccesso di adipe in evidenza quando seduta,
scarpa estiva con zeppa di paglia,
carne tremula che pende dal braccio a riposo lungo il fianco,
coccinella e o Trilli tatuata sul polso,
destro,
l’ha fatta il giorno della maturità con l’amica del cuore,
Tiziana,
oggi non sono più amiche,
Tiziana ha un marito e tre figli,
tre maschi,
in merito a questo è solita dire:”mi sento protetta”.
Fiorella invece è single,
è sola,
indossa un’ampia T-shirt arancione con taschino appoggiato sul seno sinistro importante.
È collaboratrice domestica da quasi dieci anni in casa De Nardo,
appoggia la schiena generosa al vetro del treno rivolta verso la befana di cui sopra.
Ha tra le gambe un gattino siamese dentro una gabbia.
Non parla al telefono ma spippola ferocemente sul suo Motorola.
Ogni tanto abbozza un sorriso che riempie il vagone di luce.
Ma purtroppo non c’è.
Potrebbe essere un fortunato incrocio di geni tra e Gabourey Sidibe (“Precious” 2009, Lee Daniels) e Renèe Zellweger (“Il diario di Bridget Jones” 2004, Sharon Maguire).
Sono ancora in treno.
Non riesco a dormire.
Quanti telefoni.
Quante orrende voci urlanti di umani da treno.
Alla mia destra:
Donna riccioluta,
brutta,
bruttissima,
età oscillante tra i quarantaquattro e i cinquantatre anni,
single,
voce nasale a sud di Napoli,
alcuni capelli bianchi,
molti capelli bianchi,
bocca fine vagamente all’ingiù,
sopracciglia fini vagamente all’ingiù,
taglio degl’occhi stile antica egiziana,
naso gigante nei paraggi della befana,
alcuni nei, uno peloso,
magra,
braccia nude,
sorriso stampato e compiaciuto,
vestitino estivo ocra recante motivi floreali minuscoli,
sta seduta protesa in avanti,
parla con qualcuno di cui ha particolare considerazione,
forse il maestro di yoga?
La psicanalista?
No.
Mani secche lisce, bianche e gialle,
lettrice di libri gialli,
fumatrice incallita.
Ha detto molte volte:”Vero?”.
Samsung modello base (touch screen).
Potrebbe essere attrice in teatro o in un film di Martone.
Un’amica di Emma Dante.
Aver fatto un provino nella compagnia dei “Teatri uniti” e aver pianto a dirotto.
Potrebbe vantare alcuni baci con la lingua con Peppe Servillo a sedici anni in quel di Posillipo. Potrebbe avere un’amica al suo fianco con la quale ha fatto amicizia sul treno quando è salita a Salerno,
ma ho detto potrebbe e infatti non c’è.
Più giovane,
logorroica,
probabile Fiorella.
Porta occhiali da vista con montatura importante,
capelli corti, mossi e un po’unti,
di quel colore indefinibile tra il rosso, l’arancione e il marrone,
cicciona,
jeans aderenti chiari a vita alta con conseguente eccesso di adipe in evidenza quando seduta,
scarpa estiva con zeppa di paglia,
carne tremula che pende dal braccio a riposo lungo il fianco,
coccinella e o Trilli tatuata sul polso,
destro,
l’ha fatta il giorno della maturità con l’amica del cuore,
Tiziana,
oggi non sono più amiche,
Tiziana ha un marito e tre figli,
tre maschi,
in merito a questo è solita dire:”mi sento protetta”.
Fiorella invece è single,
è sola,
indossa un’ampia T-shirt arancione con taschino appoggiato sul seno sinistro importante.
È collaboratrice domestica da quasi dieci anni in casa De Nardo,
appoggia la schiena generosa al vetro del treno rivolta verso la befana di cui sopra.
Ha tra le gambe un gattino siamese dentro una gabbia.
Non parla al telefono ma spippola ferocemente sul suo Motorola.
Ogni tanto abbozza un sorriso che riempie il vagone di luce.
Ma purtroppo non c’è.
Potrebbe essere un fortunato incrocio di geni tra e Gabourey Sidibe (“Precious” 2009, Lee Daniels) e Renèe Zellweger (“Il diario di Bridget Jones” 2004, Sharon Maguire).
Milano, febbraio 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
La fila più avanti ancora alla mia destra:
Maschio,
27 anni,
militare,
probabile Giuseppe,
molto gel,
carnato abbronzato,
di piccola taglia ma fornito di muscoletti,
cerca qualcosa nella sua borsa modello società dilettantesca di calcio con in basso il sotto che si apre per il reparto scarpe riposta nella cappelliera,
è in piedi,
traballa a causa dell’alta velocità del treno e del suo genetico scarso equilibrio.
Ha una stupida maglietta aderente con scollo a V piena di numeri e scritte (“de puta madre” sulle spallette) che lascia intravedere il suo fisichino curato e apparentemente depilato.
Rinuncia a prendere ciò che cercava,
forse un marsupio a tracolla di Gucci nel quale tiene la stampa del biglietto del treno?
Un caricabatterie?
La settimana enigmistica?
Forse un pacchetto di fazzoletti di carta marca Tempo profumati al mentolo?
Forse uno, due Brooklyn al limone?
Uno ma ripiegato e all’arancia?
Un bastoncino di liquerizia?
La sigaretta elettrica?
Una foto tessera di quelle appena fatte in stazione per il rinnovo della sua patente scaduta?
Ma che ne so.
Quasi sta per cadere,
parla con le auricolari e col telefono in mano.
Samsung Galaxy 5 con custodia mimetica.
Potrebbe essere…
non lo so, i tamarri di questa caratura sono rari nel cinema ma sono spesso in tv (Maria de Filippi docet + “Jersey Shore”)
Dietro di me:
Io mi giro lui si accorge che guardo,
io guardo e lui vede,
mi rigiro sul mio computer e intanto apro le orecchie.
“…Bé…in questo caso Maurizia ti biasima…”
Che vuol dire?
Si chiama Carlo,
58 anni all’incirca ben portati,
brizzolato,
capello corto e a spazzola,
una via di mezzo tra Casini, Scajola e Martelli,
prima repubblica,
aria malvagia,
assetato di potere,
parla romano,
forze dell’ordine?
Ufficiale giudiziario?
No,
le sue mani cercano di aggrapparsi più in alto.
Non ha mai mangiato un Brooklyn al limone manco all’arancia,
manco alle medie,
non fuma,
pronuncia molti cognomi,
intercala con “mò”e“orco zio”,
tradisce sua moglie con prostitute di alto e basso bordo,
col pene e anche senza,
le prostitute,
lo si capisce dalle battute che fa al giovane amico col quale parla al telefono,
Andrè,
quarantadue anni,
lui pure sposato,
è alla spasmodica ricerca di fare carriera nel suo ramo d’azienda,
lavora alla Cromat,
un colosso nel turismo congressuale,
si occupa di creare momenti d’incontro al fine di mettere in contatto aziende multinazionali per scambiarsi know-how,
tali eventi sono chiamati ”round table”.
Andrè ieri sera ha cenato con Carlo,
che oggi indossa ancora i vestiti della sera prima,
giacca blu,
cravatta bordeaux,
una spilla all’occhiello di qualche organizzazione simil massonica,
tipo Rotary,
Lions,
rosa crociati,
crocerossini,
carbonari del duemila,
insomma quelle li,
una cintura di coccodrillo finta e rossiccia,
sta chiedendo all’amico Andrè “hai preso contatto con?”,
porta la fede,
ieri sera l’aveva lasciata in albergo pensando di trovare figa con Andrè,
niente da fare,
“fregne cucite”dice,
dita delle mani molto larghe,
unghia curata,
nodo alla cravatta vistoso,
probabile camiciola della salute,
alito pesante di quelli di quegl’uomini di quei tempi là (prima repubblica),
ai piedi un paio di quelle scarpe tra il ginnico e il non delle quali apprezza il tacco invisibile e la vestibilità,
si chiamano Hogan.
Auricolare lui pure.
Blackberry aziendale.
Potrebbe essere Fabbrizio Gifuni ne “Il capitale umano”(2013) di Virzì e il padre di un amico che quasi tutti hanno.
Davanti a me:
giovane hipster,
doppio taglio con gel sul sopra più lungo,
occhiale da sole anni ‘50 modello dolce vita Via veneto con viti metalliche in evidenza accanto alle lenti,
orecchino a sinistra,
pantalone modello acqua in casa su caviglia fina e abbronzata,
fantasmini che spuntano dal mocassino scamosciato e a punta quadrata,
probabile piede d’autore (42 affusolato),
camicia aderente bianca generosa sul petto,
bracciale di cuoio marrone modello Marco Aurelio,
ha dato un esame,
è passato copiando,
stasera fa festa,
beve Negroni e Martini,
torna a casa a gattoni,
non sa niente di calcio,
non segue gli sport,
fa il PR in qualche locale almeno entra gratis,
non ha la ragazza,
manco il ragazzo,
da bambino ha sofferto parecchio,
era un po’grasso,
lo chiamavano carciofo ripieno: iPhone.
Potrebbe essere un personaggio secondario in un film di Verdone, un “solito idiota”, un vj di MTV.
Maschio,
27 anni,
militare,
probabile Giuseppe,
molto gel,
carnato abbronzato,
di piccola taglia ma fornito di muscoletti,
cerca qualcosa nella sua borsa modello società dilettantesca di calcio con in basso il sotto che si apre per il reparto scarpe riposta nella cappelliera,
è in piedi,
traballa a causa dell’alta velocità del treno e del suo genetico scarso equilibrio.
Ha una stupida maglietta aderente con scollo a V piena di numeri e scritte (“de puta madre” sulle spallette) che lascia intravedere il suo fisichino curato e apparentemente depilato.
Rinuncia a prendere ciò che cercava,
forse un marsupio a tracolla di Gucci nel quale tiene la stampa del biglietto del treno?
Un caricabatterie?
La settimana enigmistica?
Forse un pacchetto di fazzoletti di carta marca Tempo profumati al mentolo?
Forse uno, due Brooklyn al limone?
Uno ma ripiegato e all’arancia?
Un bastoncino di liquerizia?
La sigaretta elettrica?
Una foto tessera di quelle appena fatte in stazione per il rinnovo della sua patente scaduta?
Ma che ne so.
Quasi sta per cadere,
parla con le auricolari e col telefono in mano.
Samsung Galaxy 5 con custodia mimetica.
Potrebbe essere…
non lo so, i tamarri di questa caratura sono rari nel cinema ma sono spesso in tv (Maria de Filippi docet + “Jersey Shore”)
Dietro di me:
Io mi giro lui si accorge che guardo,
io guardo e lui vede,
mi rigiro sul mio computer e intanto apro le orecchie.
“…Bé…in questo caso Maurizia ti biasima…”
Che vuol dire?
Si chiama Carlo,
58 anni all’incirca ben portati,
brizzolato,
capello corto e a spazzola,
una via di mezzo tra Casini, Scajola e Martelli,
prima repubblica,
aria malvagia,
assetato di potere,
parla romano,
forze dell’ordine?
Ufficiale giudiziario?
No,
le sue mani cercano di aggrapparsi più in alto.
Non ha mai mangiato un Brooklyn al limone manco all’arancia,
manco alle medie,
non fuma,
pronuncia molti cognomi,
intercala con “mò”e“orco zio”,
tradisce sua moglie con prostitute di alto e basso bordo,
col pene e anche senza,
le prostitute,
lo si capisce dalle battute che fa al giovane amico col quale parla al telefono,
Andrè,
quarantadue anni,
lui pure sposato,
è alla spasmodica ricerca di fare carriera nel suo ramo d’azienda,
lavora alla Cromat,
un colosso nel turismo congressuale,
si occupa di creare momenti d’incontro al fine di mettere in contatto aziende multinazionali per scambiarsi know-how,
tali eventi sono chiamati ”round table”.
Andrè ieri sera ha cenato con Carlo,
che oggi indossa ancora i vestiti della sera prima,
giacca blu,
cravatta bordeaux,
una spilla all’occhiello di qualche organizzazione simil massonica,
tipo Rotary,
Lions,
rosa crociati,
crocerossini,
carbonari del duemila,
insomma quelle li,
una cintura di coccodrillo finta e rossiccia,
sta chiedendo all’amico Andrè “hai preso contatto con?”,
porta la fede,
ieri sera l’aveva lasciata in albergo pensando di trovare figa con Andrè,
niente da fare,
“fregne cucite”dice,
dita delle mani molto larghe,
unghia curata,
nodo alla cravatta vistoso,
probabile camiciola della salute,
alito pesante di quelli di quegl’uomini di quei tempi là (prima repubblica),
ai piedi un paio di quelle scarpe tra il ginnico e il non delle quali apprezza il tacco invisibile e la vestibilità,
si chiamano Hogan.
Auricolare lui pure.
Blackberry aziendale.
Potrebbe essere Fabbrizio Gifuni ne “Il capitale umano”(2013) di Virzì e il padre di un amico che quasi tutti hanno.
Davanti a me:
giovane hipster,
doppio taglio con gel sul sopra più lungo,
occhiale da sole anni ‘50 modello dolce vita Via veneto con viti metalliche in evidenza accanto alle lenti,
orecchino a sinistra,
pantalone modello acqua in casa su caviglia fina e abbronzata,
fantasmini che spuntano dal mocassino scamosciato e a punta quadrata,
probabile piede d’autore (42 affusolato),
camicia aderente bianca generosa sul petto,
bracciale di cuoio marrone modello Marco Aurelio,
ha dato un esame,
è passato copiando,
stasera fa festa,
beve Negroni e Martini,
torna a casa a gattoni,
non sa niente di calcio,
non segue gli sport,
fa il PR in qualche locale almeno entra gratis,
non ha la ragazza,
manco il ragazzo,
da bambino ha sofferto parecchio,
era un po’grasso,
lo chiamavano carciofo ripieno: iPhone.
Potrebbe essere un personaggio secondario in un film di Verdone, un “solito idiota”, un vj di MTV.
Firenze, giugno 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Accanto al carciofo:
Maschio,
età indefinibile,
tra i trenta e i cinquanta,
di colore,
Africa nera,
chewingum in bocca,
Vigorsol quasi certamente,
lo si sente da qua,
anello d’oro con stemma quadrato,
pantalone grigio gessato,
giacca grigia gessata,
camicia azzurra attillata aperta sul collo,
molto profumo,
è deodorante,
fisico possente (abbondantemente sopra i 90 kg x 190 cm),
sguardo vagamente iniettato di sangue,
è sul punto di scoppiare in un lago di lacrime,
parla in inglese,
italiano,
sa dire alcune cose in spagnolo,
come:”otra ves”, “Que tal” e “cabesa”.
La sua testa da dietro non è chiaramente distinguibile dal collo,
sembra un ceppo di una quercia gigante,
adesso piange e singhiozza.
Sembra una sintesi perfetta tra Marsellus Wallace (Ving Rhames) di “Pulp Fiction” (Tarantino, 1994), Forest Whitaker di “Ghost dog” (Jim Jarmusch, 1999) e Will Sampson, l’indiano gigante in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (Forman, 1975).
Nella mano destra ha una cartellina di quelle di tela e con lampo sul dorso,
nella sinistra un telefono: LG.
Apro gli occhi.
Sono sudato.
Il ventilatore è al suo posto.
Mi guarda.
Che vuole?
Vuole girare più forte.
Lo accontento.
Velocità tre, il massimo,
lui gode io pure.
Sono passati pochi minuti.
Fra due giorni compio trentatre anni.
Come Cristo,
provo anch’io a farmi crescere la barba,
come tutti,
ma con scarsissimi risultati,
mica come Cristo che a trentatre anni portava ancora i capelli lunghi e aveva una barba perfetta e poi era già un rivoluzionario.
Peccato per quella storia di Barabba altrimenti chissà…
Film che mi hanno colpito che parlano di Cristo?
Nessuno.
Mi pare.
Mel Gibson compreso (“La passione di Cristo”, 2004).
Nonostante fosse un film in aramaico.
È forse un pregio?
No.
Nemmeno “Brian di Nazareth”(1979) dei Monty Python che ho odiato e trovato stupido e faticoso rispetto agli splendori di “E adesso qualcosa di completamente diverso” (1971), un film a episodi, un film che dribbla, scarta e sfugge, uno dei miei film preferiti.
Film che parlano di Cristo…
Forse “Antichrist” (2009) di Trier?
Non parla di Cristo,
non so di che parla,
l’unica cosa che conta e che c’è William Defoe,
un gigante dal cuore tenero,
ecco lui sì,
lui sì che ci starebbe bene in un bel film fantasy.
Sarebbe un bel troll.
Ne ha fatto qualcuno?
Non lo so.
Chiudo gli occhi di nuovo.
Mi aiuta a sentir meno caldo.
Il caldo è come il dolore in parte lo puoi combattere con la forza della mente:
cerca altri stimoli,
non concentrarti solo su quello,
non ci pensare,
se pensi che ciò che ti danneggia non esiste lo riduci a un fastidio,
una sorta di pizzicore al contrario,
è una legge che vale per quasi tutte le cose.
Come faccio a non pensarci con un ventilatore che mi urla nelle orecchie?
Facile,
fai finta che sia una rotaia,
cicala,
vento,
lui è quello che vuole
e quello che vuoi che lui sia.
Il mare.
Il vento.
Il mare.
Ancora Roccamare.
Ci ho passato tutto il mese di Giugno.
Ci ho passato tutte le mie estati e qualche scampolo d’inverno di questi ultimi trentatre anni.
Roccamare è un luogo dell’anima e un posto di mare.
È un posto di mare perché c’è il mare.
È un luogo dell’anima perché vive dentro di te prima, durante e dopo che tu ci vada,
è un luogo dall’atmosfera violenta capace di veicolare a seconda del tempo,
della luce o di come gli gira,
un’intera flotta di emozioni indipendenti da te,
dal tuo stato emotivo,
da quello che ti capita e da chi ti circonda.
Tutte le volte che lo lasci stai un po’ male,
mentre ci stai,
stai male,
prima di andarci stai male al pensiero di starci poi male.
Ma i posti belli sono forse quelli dove si sta male?
Secondo me sì,
gli altri sono solo posti insignificanti.
E i posti devono essere significanti.
Stare male in un posto significa qualcosa,
dando per scontato che il malessere sia inteso come una dimensione prettamente interiore.
I posti importanti sono quelli nei quali si sta male,
i posti dove si sta bene, tranquilli e sereni sono posti insignificanti.
Per stare male intendo entrare in una relazione profonda e critica con se stessi.
Una dimensione di riflessione.
A Roccamare ci sono la spiaggia di sabbia,
due file di scogli,
un fiume di nome “Tonfone”
e una lunga fila di capanni sotto i quali ripararsi dal sole.
Maschio,
età indefinibile,
tra i trenta e i cinquanta,
di colore,
Africa nera,
chewingum in bocca,
Vigorsol quasi certamente,
lo si sente da qua,
anello d’oro con stemma quadrato,
pantalone grigio gessato,
giacca grigia gessata,
camicia azzurra attillata aperta sul collo,
molto profumo,
è deodorante,
fisico possente (abbondantemente sopra i 90 kg x 190 cm),
sguardo vagamente iniettato di sangue,
è sul punto di scoppiare in un lago di lacrime,
parla in inglese,
italiano,
sa dire alcune cose in spagnolo,
come:”otra ves”, “Que tal” e “cabesa”.
La sua testa da dietro non è chiaramente distinguibile dal collo,
sembra un ceppo di una quercia gigante,
adesso piange e singhiozza.
Sembra una sintesi perfetta tra Marsellus Wallace (Ving Rhames) di “Pulp Fiction” (Tarantino, 1994), Forest Whitaker di “Ghost dog” (Jim Jarmusch, 1999) e Will Sampson, l’indiano gigante in “Qualcuno volò sul nido del cuculo” (Forman, 1975).
Nella mano destra ha una cartellina di quelle di tela e con lampo sul dorso,
nella sinistra un telefono: LG.
Apro gli occhi.
Sono sudato.
Il ventilatore è al suo posto.
Mi guarda.
Che vuole?
Vuole girare più forte.
Lo accontento.
Velocità tre, il massimo,
lui gode io pure.
Sono passati pochi minuti.
Fra due giorni compio trentatre anni.
Come Cristo,
provo anch’io a farmi crescere la barba,
come tutti,
ma con scarsissimi risultati,
mica come Cristo che a trentatre anni portava ancora i capelli lunghi e aveva una barba perfetta e poi era già un rivoluzionario.
Peccato per quella storia di Barabba altrimenti chissà…
Film che mi hanno colpito che parlano di Cristo?
Nessuno.
Mi pare.
Mel Gibson compreso (“La passione di Cristo”, 2004).
Nonostante fosse un film in aramaico.
È forse un pregio?
No.
Nemmeno “Brian di Nazareth”(1979) dei Monty Python che ho odiato e trovato stupido e faticoso rispetto agli splendori di “E adesso qualcosa di completamente diverso” (1971), un film a episodi, un film che dribbla, scarta e sfugge, uno dei miei film preferiti.
Film che parlano di Cristo…
Forse “Antichrist” (2009) di Trier?
Non parla di Cristo,
non so di che parla,
l’unica cosa che conta e che c’è William Defoe,
un gigante dal cuore tenero,
ecco lui sì,
lui sì che ci starebbe bene in un bel film fantasy.
Sarebbe un bel troll.
Ne ha fatto qualcuno?
Non lo so.
Chiudo gli occhi di nuovo.
Mi aiuta a sentir meno caldo.
Il caldo è come il dolore in parte lo puoi combattere con la forza della mente:
cerca altri stimoli,
non concentrarti solo su quello,
non ci pensare,
se pensi che ciò che ti danneggia non esiste lo riduci a un fastidio,
una sorta di pizzicore al contrario,
è una legge che vale per quasi tutte le cose.
Come faccio a non pensarci con un ventilatore che mi urla nelle orecchie?
Facile,
fai finta che sia una rotaia,
cicala,
vento,
lui è quello che vuole
e quello che vuoi che lui sia.
Il mare.
Il vento.
Il mare.
Ancora Roccamare.
Ci ho passato tutto il mese di Giugno.
Ci ho passato tutte le mie estati e qualche scampolo d’inverno di questi ultimi trentatre anni.
Roccamare è un luogo dell’anima e un posto di mare.
È un posto di mare perché c’è il mare.
È un luogo dell’anima perché vive dentro di te prima, durante e dopo che tu ci vada,
è un luogo dall’atmosfera violenta capace di veicolare a seconda del tempo,
della luce o di come gli gira,
un’intera flotta di emozioni indipendenti da te,
dal tuo stato emotivo,
da quello che ti capita e da chi ti circonda.
Tutte le volte che lo lasci stai un po’ male,
mentre ci stai,
stai male,
prima di andarci stai male al pensiero di starci poi male.
Ma i posti belli sono forse quelli dove si sta male?
Secondo me sì,
gli altri sono solo posti insignificanti.
E i posti devono essere significanti.
Stare male in un posto significa qualcosa,
dando per scontato che il malessere sia inteso come una dimensione prettamente interiore.
I posti importanti sono quelli nei quali si sta male,
i posti dove si sta bene, tranquilli e sereni sono posti insignificanti.
Per stare male intendo entrare in una relazione profonda e critica con se stessi.
Una dimensione di riflessione.
A Roccamare ci sono la spiaggia di sabbia,
due file di scogli,
un fiume di nome “Tonfone”
e una lunga fila di capanni sotto i quali ripararsi dal sole.
Roccamare, giugno 2015 (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Alcune case,
che solitamente sono ville degli anni’60 realizzate dall’architetto Ugo Miglietta,
evidentemente seguace di Sir Frank Lloyd Wright: tetti piatti, ampie vetrate, mattoni tipo pietre, pietra serena e arredamenti interni svedesi degli anni ‘60.
Finito.
Non ci sono le palme,
mai vista la neve,
nessun gelataio,
solo alcuni giaguari.
Maschi.
Scherzo.
Non ci sono bar, ristoranti, benzinai e postini.
Non ci sono taxi, semafori e autobus.
Non c’è l’ospedale,
non c’è nulla,
solo le case,
le anime di chi le vive,
i giardinieri
e dei guardiani che sembrano ranger.
Ci sono i pini che sono presenze ingombranti,
del resto è una pineta,
i pini entrano in casa,
attraversano i salotti,
ti lanciano le pine in testa, sull’auto, sul ping pong,
spaccano le strade e nascondono misteri.
Il sole li attraversa per sbaglio
e sotto,
al di sotto dei pini,
l’impero dei piedi nudi,
zoccoli,
infradito,
espadrillas,
mocassini,
Superga,
pochi sandali,
aghi di pino,
miliardi di formiche,
la sabbia e il ghiaino.
Alcuni pinoli.
Roccamare a volte sembra la Malesia,
a volte l’Olgiata altre volte Carmèl.
Si entra attraversando una sbarra,
chiedendo il permesso a una guardia giurata vestita da ranger.
Questi custodi,
fanno tutti Giorgio di nome,
sono in tutto e per tutto i colleghi maremmani del buon vecchio Ranger Smith,
l’antagonista del caro Orso Yoghi ma senza il cappello.
Roccamare È un luogo di luce e di ombra.
La notte è buia profonda,
rimane solo la luna a illuminarne le strade
e senza di quella non si vede più niente
ascolti nel buio i suoni e i rumori: saranno i giaguari?
A Roccamare si può avere paura e si teme che qualcuno ti segua nel buio.
Qui è morto Calvino,
è morto Fruttero e scrive Citati.
Chissà se Calvino proprio qui ha scritto la sua fiaba “Fanta-Ghirò, persona bella”?
Lo giuro su dio,
uscita nella raccolta “Fiabe Italiane”(1956).
Qui hanno girato un “Manuale d’amore” (il terzo, 2011) e creato il “Caos Calmo” (romanzo ed. 2006; film 2008) ;
il primo di Giovanni Veronesi con un “sorprendente” Bob De Niro che ormai sempre più spesso per due palanche si svende,
il secondo tratto dal romanzo di Sandro Veronesi e diretto da Antonello Grimaldi con Nanni Moretti nelle vesti del protagonista, ambientato per lunghi tratti proprio a Roccamare.
Manuale d’amore 3 è un film inutile come i primi due,
Caos Calmo è un romanzo privato,
la trasposizione filmica non ha niente da dire fatta eccezione per le poppe di Isabella Ferrari.
I due fratelli manco a dirlo hanno casa qui a Roccamare,
stanno in spiaggia accanto a me ma non parlano con me.
A Roccamare hanno visto nuotare alcuni James Bond,
hanno visto ballare una sera quello di “Pretty Woman”,
mia madre un giorno mi disse:”Io c’ho ballato a una festa e ti giuro è parecchio più basso del babbo”
È un posto dove si vive di umani,
tra umani,
è come su un’isola.
Nel deserto dei tartari non ti perdi da solo ma ti perdi negl’altri e aspetti un nemico.
Sento delle chiavi che girano nella porta d’ingresso.
Apro gl’occhi di scatto.
Sono le cinque.
Manca ancora tantissimo al calar delle tenebre,
al primo bicchiere di vino bianco gelato
e a un po’di fresco nell’aria che brucia anche se qui non si muove una foglia.
Si sta come d’autunno sugli alberi le sogliole.
Non so cosa fare.
Aspetto sul letto che qualcuno mi parli.
Chiudo gli occhi ancora una volta.
Il mio ventilatore mi guarda e mi dice:
“Non ci pensare”
che solitamente sono ville degli anni’60 realizzate dall’architetto Ugo Miglietta,
evidentemente seguace di Sir Frank Lloyd Wright: tetti piatti, ampie vetrate, mattoni tipo pietre, pietra serena e arredamenti interni svedesi degli anni ‘60.
Finito.
Non ci sono le palme,
mai vista la neve,
nessun gelataio,
solo alcuni giaguari.
Maschi.
Scherzo.
Non ci sono bar, ristoranti, benzinai e postini.
Non ci sono taxi, semafori e autobus.
Non c’è l’ospedale,
non c’è nulla,
solo le case,
le anime di chi le vive,
i giardinieri
e dei guardiani che sembrano ranger.
Ci sono i pini che sono presenze ingombranti,
del resto è una pineta,
i pini entrano in casa,
attraversano i salotti,
ti lanciano le pine in testa, sull’auto, sul ping pong,
spaccano le strade e nascondono misteri.
Il sole li attraversa per sbaglio
e sotto,
al di sotto dei pini,
l’impero dei piedi nudi,
zoccoli,
infradito,
espadrillas,
mocassini,
Superga,
pochi sandali,
aghi di pino,
miliardi di formiche,
la sabbia e il ghiaino.
Alcuni pinoli.
Roccamare a volte sembra la Malesia,
a volte l’Olgiata altre volte Carmèl.
Si entra attraversando una sbarra,
chiedendo il permesso a una guardia giurata vestita da ranger.
Questi custodi,
fanno tutti Giorgio di nome,
sono in tutto e per tutto i colleghi maremmani del buon vecchio Ranger Smith,
l’antagonista del caro Orso Yoghi ma senza il cappello.
Roccamare È un luogo di luce e di ombra.
La notte è buia profonda,
rimane solo la luna a illuminarne le strade
e senza di quella non si vede più niente
ascolti nel buio i suoni e i rumori: saranno i giaguari?
A Roccamare si può avere paura e si teme che qualcuno ti segua nel buio.
Qui è morto Calvino,
è morto Fruttero e scrive Citati.
Chissà se Calvino proprio qui ha scritto la sua fiaba “Fanta-Ghirò, persona bella”?
Lo giuro su dio,
uscita nella raccolta “Fiabe Italiane”(1956).
Qui hanno girato un “Manuale d’amore” (il terzo, 2011) e creato il “Caos Calmo” (romanzo ed. 2006; film 2008) ;
il primo di Giovanni Veronesi con un “sorprendente” Bob De Niro che ormai sempre più spesso per due palanche si svende,
il secondo tratto dal romanzo di Sandro Veronesi e diretto da Antonello Grimaldi con Nanni Moretti nelle vesti del protagonista, ambientato per lunghi tratti proprio a Roccamare.
Manuale d’amore 3 è un film inutile come i primi due,
Caos Calmo è un romanzo privato,
la trasposizione filmica non ha niente da dire fatta eccezione per le poppe di Isabella Ferrari.
I due fratelli manco a dirlo hanno casa qui a Roccamare,
stanno in spiaggia accanto a me ma non parlano con me.
A Roccamare hanno visto nuotare alcuni James Bond,
hanno visto ballare una sera quello di “Pretty Woman”,
mia madre un giorno mi disse:”Io c’ho ballato a una festa e ti giuro è parecchio più basso del babbo”
È un posto dove si vive di umani,
tra umani,
è come su un’isola.
Nel deserto dei tartari non ti perdi da solo ma ti perdi negl’altri e aspetti un nemico.
Sento delle chiavi che girano nella porta d’ingresso.
Apro gl’occhi di scatto.
Sono le cinque.
Manca ancora tantissimo al calar delle tenebre,
al primo bicchiere di vino bianco gelato
e a un po’di fresco nell’aria che brucia anche se qui non si muove una foglia.
Si sta come d’autunno sugli alberi le sogliole.
Non so cosa fare.
Aspetto sul letto che qualcuno mi parli.
Chiudo gli occhi ancora una volta.
Il mio ventilatore mi guarda e mi dice:
“Non ci pensare”
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N.11
“Louisiana”
di Roberto Minervini
Sceneggiatura: Roberto Minervini, Denise Ping Lee, Diego Romero
Fotografia: Diego Romero
Montaggio: Marie Helene Dozo
Con: Mark Kelley, Lisa Allen, James Lee Miller
Prodotto da: Okta Film
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
E’poco dopo l’alba.
Ventinove giugno duemilaquindici.
Sono le cinque e quarantasette.
Fa caldo.
Mio figlio urla,
ha fame,
preparo il biberon.
Ho le finestre spalancate nella speranza che entri un po’d’aria.
Fresca magari.
Niente da fare.
Quando mi sveglio presto al mattino e non sono particolarmente frastornato sono felice.
Mi fingo uno sportivo,
un uomo d’azione,
uno di quelli che cavalca le onde,
che scala montagne,
uno di quelli che si permettono colazioni abbondanti,
i capelli biondi bruciati dal sole,
le infradito in ogni stagione
e una vita in Austalia,
un’altra in Sud Africa,
oppure a Livorno.
Invece no.
Sono scalzo,
bevo il Danacol,
faccio un caffè
e ho mal di testa.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Sono le sette e venti e sono nel mio studio.
Il mio studio è una mansarda.
Al di sotto del tetto.
Ci sono una scrivania con due schermi e un computer,
una lampada alogena,
una da tavolo,
una libreria in legno ed acciaio,
un armadio incassato nel muro,
una bici invecchiata che dondola su un cassettone,
alcune cose ordinate sul tavolo,
un posacenere con disegnato un giglio rosso bordato di oro che mi ha regalato il mio amico Giovanni,
alcuni accendini,
dei libri prestati,
alcuni post it,
il mio astuccio nuovo,
un quaderno gigante,
un pacchetto di Marlboro light,
due penne uni ball eye,
un ventilatore d’acciaio.
C’è anche una finestra sul tetto,
modello Velux,
me l’ha montata un operaio di Rio de Janeiro,
logorroico e felice,
mi ha detto più volte:
”Stai tranquillo e sereno,
a detta di tutti,
queste finestre sono le Ferrari degli infissi”.
Nessuna presenza dell’aria condizionata.
Il risultato è che si muore di caldo.
Il mio studio è una mansarda.
Al di sotto del tetto.
Ci sono una scrivania con due schermi e un computer,
una lampada alogena,
una da tavolo,
una libreria in legno ed acciaio,
un armadio incassato nel muro,
una bici invecchiata che dondola su un cassettone,
alcune cose ordinate sul tavolo,
un posacenere con disegnato un giglio rosso bordato di oro che mi ha regalato il mio amico Giovanni,
alcuni accendini,
dei libri prestati,
alcuni post it,
il mio astuccio nuovo,
un quaderno gigante,
un pacchetto di Marlboro light,
due penne uni ball eye,
un ventilatore d’acciaio.
C’è anche una finestra sul tetto,
modello Velux,
me l’ha montata un operaio di Rio de Janeiro,
logorroico e felice,
mi ha detto più volte:
”Stai tranquillo e sereno,
a detta di tutti,
queste finestre sono le Ferrari degli infissi”.
Nessuna presenza dell’aria condizionata.
Il risultato è che si muore di caldo.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Inizio a guardare “Louisiana”,
l’ultimo film di Roberto Minervini,
da dietro la mia scrivania.
Roberto Minervini chi è?
Roberto Minervini è un regista,
è abbastanza giovane,
meno di me
ed era anche a Cannes,
peccato che se lo siano scordato quasi tutti per cantare peana ai tre arceri nostrani (SorrentinoMorettiGarrone).
forse perchè non in gara per la palma dorata
ma bensì nella sezione “Un Certain Regard” riservata al cinema un po’più di ricerca
e con meno milioni,
forse perché il suo cinema manco da lungi parla d’Italia,
non è fatto in Italia
e non usa codici e strutture d’Italia.
Infatti Minervini gira il mondo,
finisce in America,
gira in America,
gira da solo con la macchina a spalla,
la presa diretta,
trasuda realtà,
lavora sui volti e sui luoghi,
racconta,
come in quest’ultimo film,
frammenti di vite rurali,
disperati e fanatici,
ci parla d’America,
di quella marginale e nascosta.
Poi a Cannes c’era anche un altro italiano,
Fulvio Risoleo,
un ragazzo di ventiquattro anni che con il suo cortometraggio “Varicella” è stato l’unico a portarsi a casa un premiuccio,
il “Prix Découverte Sony CineAlta”,
alla faccia dei SorrentinoMorettiGarrone e dei loro abiti lucidi sulla Croisette.
l’ultimo film di Roberto Minervini,
da dietro la mia scrivania.
Roberto Minervini chi è?
Roberto Minervini è un regista,
è abbastanza giovane,
meno di me
ed era anche a Cannes,
peccato che se lo siano scordato quasi tutti per cantare peana ai tre arceri nostrani (SorrentinoMorettiGarrone).
forse perchè non in gara per la palma dorata
ma bensì nella sezione “Un Certain Regard” riservata al cinema un po’più di ricerca
e con meno milioni,
forse perché il suo cinema manco da lungi parla d’Italia,
non è fatto in Italia
e non usa codici e strutture d’Italia.
Infatti Minervini gira il mondo,
finisce in America,
gira in America,
gira da solo con la macchina a spalla,
la presa diretta,
trasuda realtà,
lavora sui volti e sui luoghi,
racconta,
come in quest’ultimo film,
frammenti di vite rurali,
disperati e fanatici,
ci parla d’America,
di quella marginale e nascosta.
Poi a Cannes c’era anche un altro italiano,
Fulvio Risoleo,
un ragazzo di ventiquattro anni che con il suo cortometraggio “Varicella” è stato l’unico a portarsi a casa un premiuccio,
il “Prix Découverte Sony CineAlta”,
alla faccia dei SorrentinoMorettiGarrone e dei loro abiti lucidi sulla Croisette.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Il film lo guardo col mio fedele portatile,
lo collego a uno schermo di larghe vedute.
Avrei anche un altro computer ma non lo so usare.
Lo vedo su un sito online di quelli legali al quale non pago il canone da circa due anni.
Strano!
Come è possibile?
Mistero.
Comunque sono felice,
al cinema non si trova già più
e io quando è uscito
ero al mare nella profonda Maremma
dove al cinema sotto le stelle non davano certo “Louisiana”.
Anzi il cinema era chiuso e apriva,
se apriva,
ad agosto.
Chissà cosa c’è al posto del cinema quando il cinema è chiuso?
Troppa salita per andare a vedere.
Odio guardare i film al di fuori dei cinema,
odio guardare i film dietro a un computer,
odio guardarli alla tv.
Fa molto caldo.
Il ventilatore ruggisce.
Voli di cenere.
Maledizione.
Mi distraggo facilmente e faccio molta fatica,
poi al computer non si vede mai bene,
il telefono è acceso,
a volte guardi pure le mail.
E poi una cosa è il cinema e una cosa è uno schermo su un tavolo,
una cosa il buio in sala e le altre persone,
magari le vecchie,
una cosa la scrivania, il caldo e la luce,
il ventilatore.
E’ diverso.
Menomale comunque che questo film possa passare sui portali on line ricavando speriamo almeno due lire
invece di sparire per sempre dopo qualche presenza in un paio di sale e restando con in mano un pugno di mosche.
lo collego a uno schermo di larghe vedute.
Avrei anche un altro computer ma non lo so usare.
Lo vedo su un sito online di quelli legali al quale non pago il canone da circa due anni.
Strano!
Come è possibile?
Mistero.
Comunque sono felice,
al cinema non si trova già più
e io quando è uscito
ero al mare nella profonda Maremma
dove al cinema sotto le stelle non davano certo “Louisiana”.
Anzi il cinema era chiuso e apriva,
se apriva,
ad agosto.
Chissà cosa c’è al posto del cinema quando il cinema è chiuso?
Troppa salita per andare a vedere.
Odio guardare i film al di fuori dei cinema,
odio guardare i film dietro a un computer,
odio guardarli alla tv.
Fa molto caldo.
Il ventilatore ruggisce.
Voli di cenere.
Maledizione.
Mi distraggo facilmente e faccio molta fatica,
poi al computer non si vede mai bene,
il telefono è acceso,
a volte guardi pure le mail.
E poi una cosa è il cinema e una cosa è uno schermo su un tavolo,
una cosa il buio in sala e le altre persone,
magari le vecchie,
una cosa la scrivania, il caldo e la luce,
il ventilatore.
E’ diverso.
Menomale comunque che questo film possa passare sui portali on line ricavando speriamo almeno due lire
invece di sparire per sempre dopo qualche presenza in un paio di sale e restando con in mano un pugno di mosche.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Il film è un documentario,
anzi è un film,
anzi è cinema della realtà.
Quando parli con le capre che parlano
e gli parli di “documentario”
le loro piccole menti subito corrono a Piero Angela e i Babilonesi,
chissà come hanno fatto gli Egizi a costruire piramidi,
il lemure gigante amico di un Panda cinese
e il lucertolone del Sudan che sta scomparendo.
Quindi chiamiamolo cinema della realtà,
anzi film.
Salviamo capre e cavoli.
Siamo,
come ben potrete immaginare dal titolo,
in Louisiana,
estremo sud degli Stati Uniti d’America.
Siamo in America.
Si racconta uno spaccato d’America.
Il film è diviso in modo netto in due parti:
la prima racconta la vita di Mark,
un tossico dal cuore doro,
diviso tra la compagna Lisa,
anche lei tossica,
l’amore per la madre malata di cancro,
la nonna molto vecchia che balla musica country,
lo spaccio e la voglia di farla finita col crak che ti mangia la vita.
Unica speranza la galera.
La seconda parte invece,
meno zavattiniana,
meno Dardenne e più distante,
racconta di un gruppo di belve muscolose e tatuate che amano i mitra e la guerra
e che sognano di poter comandare la patria con i bazooka e alla faccia di Obama.
Poi ci sono:
future madri che si fanno le pere,
nonni ubriachi che insegnano ai nipoti a sopravvivere in guerra,
una natura rigogliosa e selvaggia,
delle case con ruote dove si produce metanfetamina.
anzi è un film,
anzi è cinema della realtà.
Quando parli con le capre che parlano
e gli parli di “documentario”
le loro piccole menti subito corrono a Piero Angela e i Babilonesi,
chissà come hanno fatto gli Egizi a costruire piramidi,
il lemure gigante amico di un Panda cinese
e il lucertolone del Sudan che sta scomparendo.
Quindi chiamiamolo cinema della realtà,
anzi film.
Salviamo capre e cavoli.
Siamo,
come ben potrete immaginare dal titolo,
in Louisiana,
estremo sud degli Stati Uniti d’America.
Siamo in America.
Si racconta uno spaccato d’America.
Il film è diviso in modo netto in due parti:
la prima racconta la vita di Mark,
un tossico dal cuore doro,
diviso tra la compagna Lisa,
anche lei tossica,
l’amore per la madre malata di cancro,
la nonna molto vecchia che balla musica country,
lo spaccio e la voglia di farla finita col crak che ti mangia la vita.
Unica speranza la galera.
La seconda parte invece,
meno zavattiniana,
meno Dardenne e più distante,
racconta di un gruppo di belve muscolose e tatuate che amano i mitra e la guerra
e che sognano di poter comandare la patria con i bazooka e alla faccia di Obama.
Poi ci sono:
future madri che si fanno le pere,
nonni ubriachi che insegnano ai nipoti a sopravvivere in guerra,
una natura rigogliosa e selvaggia,
delle case con ruote dove si produce metanfetamina.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Minervini è bravo e muscoloso,
ci racconta con sobrietà e senza giudizio l’America di oggi,
non calca mai la mano nel pietismo
mai nella retorica,
mai ridondante,
la sua macchina da presa scruta invisibile.
Gioca con la luce e con l’ombra,
con lo spirito, i demoni e il caldo che avvolge.
Il suo è un cinema accennato che si racconta con le emozioni dei corpi,
la cinepresa può cogliere l’intimità degli sguardi,
dei corpi segnati,
degl’aghi sotto la pelle.
Ci sono gli umani di Zeitlin che nuotano nelle paludi delle terre selvagge (“Re delle terre selvagge”)
Ci sono la macchina a mano, la luce, lo spirito, i pedinamenti del Malick migliore,
c’è il teleobbiettivo di Kechiche sui corpi (“La vita di Adele”),
il sesso umano e bestiale di Antoine D’Agata (“Atlas” e “ Aka Ana”),
ci sono i fratelli Dardenne,
l’etno-antropologia,
gli amici di Rosi di “Below the sea level”,
c’è il dramma che da solo nasce, cresce e si manifesta davanti la cinepresa,
c’è un piano simbolico che emerge
e forte si staglia.
C’è anche una scena che ho visto già da altre parti:
Mick in canoa nella palude ripreso da dietro come Joaquin Phoenix che nuota in un’altra palude ripreso da dietro (“Io non sono qui”).
Sono due belle scene.
ci racconta con sobrietà e senza giudizio l’America di oggi,
non calca mai la mano nel pietismo
mai nella retorica,
mai ridondante,
la sua macchina da presa scruta invisibile.
Gioca con la luce e con l’ombra,
con lo spirito, i demoni e il caldo che avvolge.
Il suo è un cinema accennato che si racconta con le emozioni dei corpi,
la cinepresa può cogliere l’intimità degli sguardi,
dei corpi segnati,
degl’aghi sotto la pelle.
Ci sono gli umani di Zeitlin che nuotano nelle paludi delle terre selvagge (“Re delle terre selvagge”)
Ci sono la macchina a mano, la luce, lo spirito, i pedinamenti del Malick migliore,
c’è il teleobbiettivo di Kechiche sui corpi (“La vita di Adele”),
il sesso umano e bestiale di Antoine D’Agata (“Atlas” e “ Aka Ana”),
ci sono i fratelli Dardenne,
l’etno-antropologia,
gli amici di Rosi di “Below the sea level”,
c’è il dramma che da solo nasce, cresce e si manifesta davanti la cinepresa,
c’è un piano simbolico che emerge
e forte si staglia.
C’è anche una scena che ho visto già da altre parti:
Mick in canoa nella palude ripreso da dietro come Joaquin Phoenix che nuota in un’altra palude ripreso da dietro (“Io non sono qui”).
Sono due belle scene.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
A prima vista potrebbe sembrare facile prendere per mano lo spettatore e rapirlo,
gli ingredienti ci sono tutti e sono gli stessi abusati in tanta fotografia di reportage.
Ci sono la droga, la disperazione e la violenza (mancano i bambini, che però già c’erano in un suo film precedente ambientato in Texas, “Low tide”);
ma Minervini non è mai ruffiano e quando indugia riesce a farlo con grande naturalezza: ci sono scene dove i tizi si bucano, ci sono fellatio e coiti ortodossi
ma mai ci sentiamo obbligati con la testa sott’acqua,
non aleggia il puzzo che emana chi ti vuole stupire,
scioccare,
stuprare.
Il regista racconta l’America quella lontana da Manhattan, dal ponte di Brooklyn e da Woody Allen
e lo fa libero da assiomi e postulati,
così come nel film precedente “Stop the pounding heart” ci aveva raccontato il Texas rurale nel quale l’adolescenza rigida di una giovane con le sue capre si contrapponeva al rodeo, ai cowboy, alle pistole e alle vacche,
in “Louisiana” contrappone la natura selvaggia e palustre,
la disperazione di coloro che vivono dimenticati da tutti e con le vene finite,
a un gruppo di belve che a colpi di birra, mitra e bazooka vorrebbero sovvertire il potere per farci poi cosa.
Il conflitto c’è
e si vede
e si sente,
da una parte i tossici, distrutti nel fisico e sventrati nell’anima,
dall’altra dei Rambo giganti che passano i giorni a bucare le auto con i loro fucili mentre quegl’altri pochi metri più in la si bucherellano le braccia, le gambe, il seno e la pancia.
gli ingredienti ci sono tutti e sono gli stessi abusati in tanta fotografia di reportage.
Ci sono la droga, la disperazione e la violenza (mancano i bambini, che però già c’erano in un suo film precedente ambientato in Texas, “Low tide”);
ma Minervini non è mai ruffiano e quando indugia riesce a farlo con grande naturalezza: ci sono scene dove i tizi si bucano, ci sono fellatio e coiti ortodossi
ma mai ci sentiamo obbligati con la testa sott’acqua,
non aleggia il puzzo che emana chi ti vuole stupire,
scioccare,
stuprare.
Il regista racconta l’America quella lontana da Manhattan, dal ponte di Brooklyn e da Woody Allen
e lo fa libero da assiomi e postulati,
così come nel film precedente “Stop the pounding heart” ci aveva raccontato il Texas rurale nel quale l’adolescenza rigida di una giovane con le sue capre si contrapponeva al rodeo, ai cowboy, alle pistole e alle vacche,
in “Louisiana” contrappone la natura selvaggia e palustre,
la disperazione di coloro che vivono dimenticati da tutti e con le vene finite,
a un gruppo di belve che a colpi di birra, mitra e bazooka vorrebbero sovvertire il potere per farci poi cosa.
Il conflitto c’è
e si vede
e si sente,
da una parte i tossici, distrutti nel fisico e sventrati nell’anima,
dall’altra dei Rambo giganti che passano i giorni a bucare le auto con i loro fucili mentre quegl’altri pochi metri più in la si bucherellano le braccia, le gambe, il seno e la pancia.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Chissà se Minervini verrà mai a girare in Italia.
Speriamo di no,
almeno per lui.
Chissà se in Italia ce ne sono di storie:
bestioni armati di mitra che vogliono sovvertire il potere,
disperati senza le vene,
nonni ubriachi,
nonne che ballano,
mamme eroinomani.
Credo proprio di sì.
Non è che dalle nostre parti ce la passiamo poi meglio.
Sono le sei.
Mi gira la testa.
Fa un caldo bestiale.
Sono scalzo e in mutande.
Vado a bere una birra in salotto,
faccio finta di avere una casa con ruote,
una pistola gigante,
la mia donna è una spogliarellista e si chiama Blue Bell,
ho combattuto anche in Vietnam,
ho gli stivali col tacco e un cappello calato sugl’occhi.
Speriamo di no,
almeno per lui.
Chissà se in Italia ce ne sono di storie:
bestioni armati di mitra che vogliono sovvertire il potere,
disperati senza le vene,
nonni ubriachi,
nonne che ballano,
mamme eroinomani.
Credo proprio di sì.
Non è che dalle nostre parti ce la passiamo poi meglio.
Sono le sei.
Mi gira la testa.
Fa un caldo bestiale.
Sono scalzo e in mutande.
Vado a bere una birra in salotto,
faccio finta di avere una casa con ruote,
una pistola gigante,
la mia donna è una spogliarellista e si chiama Blue Bell,
ho combattuto anche in Vietnam,
ho gli stivali col tacco e un cappello calato sugl’occhi.
Settembre 2013, mid-west USA, (c) Lorenzo Bechi, FILMSOLO
Veniamo alle pagelle:
cinque pallette
quattro stellette
E’ un bell’otto per il nostro Minervini
cinque pallette
quattro stellette
E’ un bell’otto per il nostro Minervini
RECENSIONE DAL MIO BAGNO N.10
“Youth –La Giovinezza”
di Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Con: Michael Caine, Harvey Keitel, Rachel Weisz, Paul Dano, Jane Fonda
Prodotto da: Indigo Film
Venezia, Maggio 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
Sto camminando.
Tutto diritto.
Mi guardo le punte delle scarpe.
Sono marroni.
Piove.
Ho i piedi fradici.
Saranno marroni penso.
Anche loro.
È fine maggio e ho un ombrello,
di quelli lunghi,
con il manico di legno,
di quelli che portano i signori anziani,
i nonni,
quegl’uomini d’altri tempi che quando non piove ma minaccia di farlo hanno l’impermeabile bege con l’interno scozzese,
il cappello simile al dentro del cappotto e le mani dietro la schiena.
Sembro un uomo d’altri tempi questo sì, ma non mi sento molto attraente.
Sarà perché l’ombrello che porto non si confà a uno degli anni ’80 come me che l’ombrello non lo ha mai avuto,
con il cappello sembra un fungo e che non ha
e mai potrà avere quell’impermeabile li.
Mio nonno sì che ce l’aveva,
e aveva anche degli ombrelli bellissimi,
il cappello come l’interno dell’impermeabile e se non pioveva ma minacciava di farlo si aggirava elegante e a testa alta con le mani dietro la schiena e,
diceva lui,
che tutte le donne per strada lo fermavano e gli facevano i complimenti.
Ma complimenti di che?
Complimenti per come era elegante diceva.
Nessuno mi guarda,
forse guardano tutti il mio ombrello,
forse tutti,
come me del resto,
stanno guardando in basso,
si osservano le scarpe marroni cercando di schivare le pozze
e stanno pensando che adesso i loro piedi saranno marroni.
Anche loro.
Continuo a camminare.
Continua a piovere.
Sto camminando.
Tutto diritto.
Mi guardo le punte delle scarpe.
Sono marroni.
Piove.
Ho i piedi fradici.
Saranno marroni penso.
Anche loro.
È fine maggio e ho un ombrello,
di quelli lunghi,
con il manico di legno,
di quelli che portano i signori anziani,
i nonni,
quegl’uomini d’altri tempi che quando non piove ma minaccia di farlo hanno l’impermeabile bege con l’interno scozzese,
il cappello simile al dentro del cappotto e le mani dietro la schiena.
Sembro un uomo d’altri tempi questo sì, ma non mi sento molto attraente.
Sarà perché l’ombrello che porto non si confà a uno degli anni ’80 come me che l’ombrello non lo ha mai avuto,
con il cappello sembra un fungo e che non ha
e mai potrà avere quell’impermeabile li.
Mio nonno sì che ce l’aveva,
e aveva anche degli ombrelli bellissimi,
il cappello come l’interno dell’impermeabile e se non pioveva ma minacciava di farlo si aggirava elegante e a testa alta con le mani dietro la schiena e,
diceva lui,
che tutte le donne per strada lo fermavano e gli facevano i complimenti.
Ma complimenti di che?
Complimenti per come era elegante diceva.
Nessuno mi guarda,
forse guardano tutti il mio ombrello,
forse tutti,
come me del resto,
stanno guardando in basso,
si osservano le scarpe marroni cercando di schivare le pozze
e stanno pensando che adesso i loro piedi saranno marroni.
Anche loro.
Continuo a camminare.
Continua a piovere.
Firenze, aprile 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
È un anno e mezzo che non scrivo una recensione e non l’ho fatto per almeno tre buoni motivi:
Primo.
Sono diventato padre.
Questo spiega la mia andatura da uomo d’altri tempi.
E il mio ombrello.
Non spiega però lo smettere di scrivere recensioni.
No.
Questo no.
In realtà ho smesso di fare tutte le cose che mi affaticavano senza darmi la giusta soddisfazione.
Quindi anche scrivere recensioni.
Secondo.
Ho fatto un film che parla di uomini,
e di pesci,
e di uomini pesci.
Ho perso molto tempo.
E energie.
Poi non ho guadagnato un cazzo.
Terzo.
Odio quei pochi che recensiscono i miei film e quindi per dare coerenza e spessore al mio odio mi sembrava giusto smettere a mia volta di scrivere recensioni sui film degl’altri.
Ben detto.
Ho deciso adesso di riprendere a scrivere per altrettanti tre buoni motivi:
Primo.
Mi pagano.
Secondo.
Non ho più voglia di fare film.
Terzo.
Posso mettere delle fotografie negli articoli.
È un anno e mezzo che non scrivo una recensione e non l’ho fatto per almeno tre buoni motivi:
Primo.
Sono diventato padre.
Questo spiega la mia andatura da uomo d’altri tempi.
E il mio ombrello.
Non spiega però lo smettere di scrivere recensioni.
No.
Questo no.
In realtà ho smesso di fare tutte le cose che mi affaticavano senza darmi la giusta soddisfazione.
Quindi anche scrivere recensioni.
Secondo.
Ho fatto un film che parla di uomini,
e di pesci,
e di uomini pesci.
Ho perso molto tempo.
E energie.
Poi non ho guadagnato un cazzo.
Terzo.
Odio quei pochi che recensiscono i miei film e quindi per dare coerenza e spessore al mio odio mi sembrava giusto smettere a mia volta di scrivere recensioni sui film degl’altri.
Ben detto.
Ho deciso adesso di riprendere a scrivere per altrettanti tre buoni motivi:
Primo.
Mi pagano.
Secondo.
Non ho più voglia di fare film.
Terzo.
Posso mettere delle fotografie negli articoli.
Firenze, gennaio 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
E adesso eccomi qui.
Vado a vedere “Youth –La Giovinezza-“ il nuovo film di Paolo Sorrentino.
Lo vado a vedere al cinema Fulgor,
uno dei pochi rimasti nel centro storico di Firenze.
Quando sono al Fulgor penso sempre alle ruspe.
Non so perché.
Forse perché in un futuro molto prossimo saranno loro che in un sol colpo spazzeranno via anche lui e mi costringeranno ad andare in treno al cinema.
A Bologna.
Penso alle ruspe mentre vado verso il cinema,
ci penso mentre guardo il film,
appena esco non più.
Immagino sempre di trovare un immenso cantiere davanti al cinema dove si abbattono i vecchi palazzi e se ne costruiscono di nuovi,
a forma di missile e lucidi,
ma non è così.
Quella è Londra e questa è via Maso Finiguerra, Firenze, Toscana, Italia.
Fuori comunque non succede un bel niente.
Piove e il Fulgor resiste.
Il Fulgor è un cinema moderno,
non è né una sala elegante e d’altri tempi né una piccola sala d’essai ancora imbevuta di tabacco e colli alti.
È un cinema moderno punto.
Un multisala ma nel centro storico.
Le sue sale sono tendenzialmente rosse,
hanno il nome dei pianeti e io penso che questo tema dell’universo per un cinema sia abbastanza di dubbio gusto,
come l’entusiasmo di quell’imprenditore che la notte prima di inaugurare il cinema si è svegliato con un’idea geniale,
quella di dare ad ogni sala un nome di un pianeta.
Visionario.
E adesso eccomi qui.
Vado a vedere “Youth –La Giovinezza-“ il nuovo film di Paolo Sorrentino.
Lo vado a vedere al cinema Fulgor,
uno dei pochi rimasti nel centro storico di Firenze.
Quando sono al Fulgor penso sempre alle ruspe.
Non so perché.
Forse perché in un futuro molto prossimo saranno loro che in un sol colpo spazzeranno via anche lui e mi costringeranno ad andare in treno al cinema.
A Bologna.
Penso alle ruspe mentre vado verso il cinema,
ci penso mentre guardo il film,
appena esco non più.
Immagino sempre di trovare un immenso cantiere davanti al cinema dove si abbattono i vecchi palazzi e se ne costruiscono di nuovi,
a forma di missile e lucidi,
ma non è così.
Quella è Londra e questa è via Maso Finiguerra, Firenze, Toscana, Italia.
Fuori comunque non succede un bel niente.
Piove e il Fulgor resiste.
Il Fulgor è un cinema moderno,
non è né una sala elegante e d’altri tempi né una piccola sala d’essai ancora imbevuta di tabacco e colli alti.
È un cinema moderno punto.
Un multisala ma nel centro storico.
Le sue sale sono tendenzialmente rosse,
hanno il nome dei pianeti e io penso che questo tema dell’universo per un cinema sia abbastanza di dubbio gusto,
come l’entusiasmo di quell’imprenditore che la notte prima di inaugurare il cinema si è svegliato con un’idea geniale,
quella di dare ad ogni sala un nome di un pianeta.
Visionario.
Scarlino, 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
È il primo spettacolo.
È fine maggio.
Non è tempo di cinema.
Siamo una ventina.
C’è qualche uomo da solo proprio come me e alcune signore di quelle li,
quelle che incontri sempre al cinema di pomeriggio,
quelle che parlano dei nipoti fino al terzo minuto del film,
poi commentano ad alta voce ogni singola scena e alla fine sui titoli di coda dicono di non aver capito nulla.
Io parlo sempre delle vecchie nelle mie recensioni,
un po’ perché sono le uniche che incontro al cinema,
un po’ perché mi divertono.
Un po’ perché non rileggo le vecchie cose e mi scordo cosa avevo scritto.
Comunque a questo giro le vecchie ci stanno parecchio bene.
Non sono seduto al posto assegnatomi dal computer in sala Mercurio bensì nel centro perfetto della sala.
Me ne frego dei posti numerati proprio come in curva Fiesole.
Io e Tiziano.
Lui col cappello a forma di becco,
io senza perché con i cappelli sembro un fungo.
Le vecchie si siedono davanti a me.
È il primo spettacolo.
È fine maggio.
Non è tempo di cinema.
Siamo una ventina.
C’è qualche uomo da solo proprio come me e alcune signore di quelle li,
quelle che incontri sempre al cinema di pomeriggio,
quelle che parlano dei nipoti fino al terzo minuto del film,
poi commentano ad alta voce ogni singola scena e alla fine sui titoli di coda dicono di non aver capito nulla.
Io parlo sempre delle vecchie nelle mie recensioni,
un po’ perché sono le uniche che incontro al cinema,
un po’ perché mi divertono.
Un po’ perché non rileggo le vecchie cose e mi scordo cosa avevo scritto.
Comunque a questo giro le vecchie ci stanno parecchio bene.
Non sono seduto al posto assegnatomi dal computer in sala Mercurio bensì nel centro perfetto della sala.
Me ne frego dei posti numerati proprio come in curva Fiesole.
Io e Tiziano.
Lui col cappello a forma di becco,
io senza perché con i cappelli sembro un fungo.
Le vecchie si siedono davanti a me.
Venezia, maggio 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
Veniamo al film.
La prima cosa che mi viene in mente è la stessa che mi viene sempre in mente tutte le volte che vedo un film di Sorrentino:
Sorrentino è un ritrattista.
Sorrentino è un grande ritrattista.
La sua speculazione parte sempre da UN personaggio,
da UN essere umano,
da UNA condizione psicoemotiva,
e la sua sensibilità,
il suo sguardo,
la sua fantasia,
il suo amore verso le derive umane sono notevoli.
Adesso una provocazione:
secondo me Sorrentino potrebbe essere un grande documentarista.
Proprio per i motivi di cui sopra.
Ho fatto questo preambolo per chiarire quello che io penso del cinema di Sorrentino, ovvero che,
al di là degli innumerevoli pregi che sono noiosi da elencare,
abbia un grande limite:
quello di non godere della nobile arte della sottrazione.
Se dai suoi film togliessimo tutti i fronzoli e addirittura le storie che lui appiccica sui suoi personaggi, ecco che avremo l’essenza di un cinema altissimo,
un cinema dell’uomo
e sull’uomo.
Sorrentino non è un raccontatore di storie e pecca di debolezza nel voler a tutti i costi costruire strutture narrative che contengano i suoi eroi al tramonto.
Teme evidentemente di essere tacciato “dall’uomo della strada” di non saper raccontare
e per non correre questo rischio costruisce mondi che traballano.
Ma chi ha detto che un film deve raccontare una storia?
Chi ha detto che un film è bello se racconta una bella storia?
Chi ha detto che un film debba essere bello o brutto?
Un film non può essere bello e non può essere brutto.
Un film non deve raccontare una storia ma uno sguardo,
un mondo.
Un film si deve donare allo spettatore perché ciò che si dona sono gli occhi dell’autore.
Il cinema esiste dopo che un fascio di luce illumina una pellicola
e nel buio di una sala,
su un grande schermo bianco appaiono una serie di immagini in movimento.
Si celebra un rito magico.
Un’allucinazione collettiva.
Un’esperienza condivisa.
E se tale rito riesce a imprimersi e a lasciare qualcosa negl’occhi e nell’esperienza di chi guarda,
a fargli fare uno spostamento,
se lo spettatore riesce a guardare attraverso gli occhi del regista,
allora l’esperimento potrà dirsi riuscito.
Magia.
Ecco il cinema.
Il film esiste.
La messa è finita,
e il regista può credere di aver chiuso un cerchio.
Amen.
Veniamo al film.
La prima cosa che mi viene in mente è la stessa che mi viene sempre in mente tutte le volte che vedo un film di Sorrentino:
Sorrentino è un ritrattista.
Sorrentino è un grande ritrattista.
La sua speculazione parte sempre da UN personaggio,
da UN essere umano,
da UNA condizione psicoemotiva,
e la sua sensibilità,
il suo sguardo,
la sua fantasia,
il suo amore verso le derive umane sono notevoli.
Adesso una provocazione:
secondo me Sorrentino potrebbe essere un grande documentarista.
Proprio per i motivi di cui sopra.
Ho fatto questo preambolo per chiarire quello che io penso del cinema di Sorrentino, ovvero che,
al di là degli innumerevoli pregi che sono noiosi da elencare,
abbia un grande limite:
quello di non godere della nobile arte della sottrazione.
Se dai suoi film togliessimo tutti i fronzoli e addirittura le storie che lui appiccica sui suoi personaggi, ecco che avremo l’essenza di un cinema altissimo,
un cinema dell’uomo
e sull’uomo.
Sorrentino non è un raccontatore di storie e pecca di debolezza nel voler a tutti i costi costruire strutture narrative che contengano i suoi eroi al tramonto.
Teme evidentemente di essere tacciato “dall’uomo della strada” di non saper raccontare
e per non correre questo rischio costruisce mondi che traballano.
Ma chi ha detto che un film deve raccontare una storia?
Chi ha detto che un film è bello se racconta una bella storia?
Chi ha detto che un film debba essere bello o brutto?
Un film non può essere bello e non può essere brutto.
Un film non deve raccontare una storia ma uno sguardo,
un mondo.
Un film si deve donare allo spettatore perché ciò che si dona sono gli occhi dell’autore.
Il cinema esiste dopo che un fascio di luce illumina una pellicola
e nel buio di una sala,
su un grande schermo bianco appaiono una serie di immagini in movimento.
Si celebra un rito magico.
Un’allucinazione collettiva.
Un’esperienza condivisa.
E se tale rito riesce a imprimersi e a lasciare qualcosa negl’occhi e nell’esperienza di chi guarda,
a fargli fare uno spostamento,
se lo spettatore riesce a guardare attraverso gli occhi del regista,
allora l’esperimento potrà dirsi riuscito.
Magia.
Ecco il cinema.
Il film esiste.
La messa è finita,
e il regista può credere di aver chiuso un cerchio.
Amen.
Firenze, febbraio 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
Tornando al film:
Siamo in un centro termale sulle Alpi svizzere,
lo stesso in cui Thomas Mann ha ambientato il suo romanzo “La montagna incantata” che non ho letto.
I due protagonisti sono due personaggi al tramonto,
come del resto tutti i personaggi di Sorrentino,
ma questi sono anche vecchi:
uno è un direttore d’orchestra (Michael Caine),
l’altro un regista cinematografico (Harvey Keitel).
Sono entrambi alla fine delle loro carriere:
uno ci vuole provare ancora ed è circondato da un’equipe di sceneggiatori un po’hipster alla disperata ricerca di un finale per il suo ultimo film “L’ultimo giorno della mia vita”;
l’altro ha chiuso con la musica,
rifiuta un ingaggio dalla regina d’Inghilterra e si immagina a dirigere un coro di mucche.
Entrambi si scontrano con il loro essere padri,
si confrontano con la giovinezza perduta che ha le sembianze di una miss mondo strafiga (Madalina Ghenea) e tutta nuda che si fa un bagno in piscina sotto gli occhi inebetiti dei due vecchi;
si confrontano con la morte.
È un film sulla vita e sulla morte.
La vita finisce quando inizia la morte e in mezzo che c’è?
La morte inizia quando finisce la vita e in mezzo che c’è?
La vita e la morte sono la stessa cosa perché l’una necessaria all’altra,
l’una parte dell’altra e in mezzo che c’è?
In mezzo ci sono i figli e l’amicizia.
E il ricordo.
Siamo stati quello che ci diciamo di essere stati.
Siamo quello che ci diciamo di essere.
Tornando al film:
Siamo in un centro termale sulle Alpi svizzere,
lo stesso in cui Thomas Mann ha ambientato il suo romanzo “La montagna incantata” che non ho letto.
I due protagonisti sono due personaggi al tramonto,
come del resto tutti i personaggi di Sorrentino,
ma questi sono anche vecchi:
uno è un direttore d’orchestra (Michael Caine),
l’altro un regista cinematografico (Harvey Keitel).
Sono entrambi alla fine delle loro carriere:
uno ci vuole provare ancora ed è circondato da un’equipe di sceneggiatori un po’hipster alla disperata ricerca di un finale per il suo ultimo film “L’ultimo giorno della mia vita”;
l’altro ha chiuso con la musica,
rifiuta un ingaggio dalla regina d’Inghilterra e si immagina a dirigere un coro di mucche.
Entrambi si scontrano con il loro essere padri,
si confrontano con la giovinezza perduta che ha le sembianze di una miss mondo strafiga (Madalina Ghenea) e tutta nuda che si fa un bagno in piscina sotto gli occhi inebetiti dei due vecchi;
si confrontano con la morte.
È un film sulla vita e sulla morte.
La vita finisce quando inizia la morte e in mezzo che c’è?
La morte inizia quando finisce la vita e in mezzo che c’è?
La vita e la morte sono la stessa cosa perché l’una necessaria all’altra,
l’una parte dell’altra e in mezzo che c’è?
In mezzo ci sono i figli e l’amicizia.
E il ricordo.
Siamo stati quello che ci diciamo di essere stati.
Siamo quello che ci diciamo di essere.
Firenze, gennaio 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
Quelli di Michael Caine e Harvey Keitel sono due tra i personaggi peggio riusciti di Sorrentino perché si reggono solo sul banale conflitto tra vita e morte,
giovinezza e vecchiaia,
senza un ulteriore approfondimento psicologico quale quello di altri personaggi del regista napoletano (si pensi su tutti a Titta de Girolamo interpretato da Servillo ne “Le conseguenze dell’amore”)
L’autore non scava nelle pieghe di quei due volti anziani,
non ci racconta,
non evoca l’importanza di quelle vite ormai trascorse,
e pensare che quelle due facce ne avrebbero di cose da dire.
Nel ritratto di questi due vecchi uomini non si rintracciano tic,
ossessioni,
lampi;
non si rintraccia la vita che nella sua interezza si mostra proprio mentre si spenge lasciando la sua impronta sul viso.
Il rischio al netto di tutto questo è di ritrovarsi con due macchiette davanti alla macchina da presa. Due personaggi vuoti,
inconsistenti,
privi di autorità e dunque poco credibili.
Niente da dire sulla prestazione attoriale da un punto di vista puramente tecnico dei due vecchi ma è evidente uno scollamento tra il peso e il lirismo che l’autore intende trasferire sui due personaggi e la mancanza di approfondimento psicologico.
Gli attori sono bravi,
sono i personaggi che non sono scritti bene.
Poi ci sono Paul Dano nella parte di un giovane attore, Jhimmy Tree, che ha raggiunto la notorietà grazie a un ruolo in un film blockbuster di bassa lega, intento a preparare un nuovo personaggio che finalmente gli renderà merito delle sue grandi capacità artistiche (Hitler);
Rachel Weisz nelle vesti della figlia di Michael Caine, Lena, che viene lasciata dal marito, il quale è per l’appunto il figlio di Mick (Harvey Keitel), che rinfaccia al padre varie cose tra le quali quella di essersi scordato della moglie alla quale da anni non porta manco un fiore.
Poi c’è una grandissima Jane Fonda (Brenda), nel ruolo dell’attrice feticcio di Mick (Keitel), Diego Armando Maradona obeso (Roly Serrano), con Marx tatuato sulla schiena e un respiratore sempre al suo fianco.
A un certo punto Diego palleggia con una pallina da tennis
e il cinema che è vita ma anche morte si palesa in tutta la sua grandiosità.
Infine c’è un tizio che fa lo scalatore,
il mio personaggio preferito (dopo Diego),
che dondola in bilico tra il metaforico, il surreale e l’assurdo.
Quelli di Michael Caine e Harvey Keitel sono due tra i personaggi peggio riusciti di Sorrentino perché si reggono solo sul banale conflitto tra vita e morte,
giovinezza e vecchiaia,
senza un ulteriore approfondimento psicologico quale quello di altri personaggi del regista napoletano (si pensi su tutti a Titta de Girolamo interpretato da Servillo ne “Le conseguenze dell’amore”)
L’autore non scava nelle pieghe di quei due volti anziani,
non ci racconta,
non evoca l’importanza di quelle vite ormai trascorse,
e pensare che quelle due facce ne avrebbero di cose da dire.
Nel ritratto di questi due vecchi uomini non si rintracciano tic,
ossessioni,
lampi;
non si rintraccia la vita che nella sua interezza si mostra proprio mentre si spenge lasciando la sua impronta sul viso.
Il rischio al netto di tutto questo è di ritrovarsi con due macchiette davanti alla macchina da presa. Due personaggi vuoti,
inconsistenti,
privi di autorità e dunque poco credibili.
Niente da dire sulla prestazione attoriale da un punto di vista puramente tecnico dei due vecchi ma è evidente uno scollamento tra il peso e il lirismo che l’autore intende trasferire sui due personaggi e la mancanza di approfondimento psicologico.
Gli attori sono bravi,
sono i personaggi che non sono scritti bene.
Poi ci sono Paul Dano nella parte di un giovane attore, Jhimmy Tree, che ha raggiunto la notorietà grazie a un ruolo in un film blockbuster di bassa lega, intento a preparare un nuovo personaggio che finalmente gli renderà merito delle sue grandi capacità artistiche (Hitler);
Rachel Weisz nelle vesti della figlia di Michael Caine, Lena, che viene lasciata dal marito, il quale è per l’appunto il figlio di Mick (Harvey Keitel), che rinfaccia al padre varie cose tra le quali quella di essersi scordato della moglie alla quale da anni non porta manco un fiore.
Poi c’è una grandissima Jane Fonda (Brenda), nel ruolo dell’attrice feticcio di Mick (Keitel), Diego Armando Maradona obeso (Roly Serrano), con Marx tatuato sulla schiena e un respiratore sempre al suo fianco.
A un certo punto Diego palleggia con una pallina da tennis
e il cinema che è vita ma anche morte si palesa in tutta la sua grandiosità.
Infine c’è un tizio che fa lo scalatore,
il mio personaggio preferito (dopo Diego),
che dondola in bilico tra il metaforico, il surreale e l’assurdo.
Firenze, maggio 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
La regia di Sorrentino si alleggerisce.
Le macchine da presa non volteggiano più nel cielo come aironi impazziti per tornare posate con i piedi per terra.
Ci sono due scene su tutte: un videoclip trash;
e una scena onirica in una piazza San Marco sott’acqua.
Sono due scene che funzionano.
La fotografia è ottima come sempre e come sempre è firmata da Luca Bigazzi,
autore della fotografia di tutti i film di Sorrentino e non solo.
È una fotografia sobria.
La musica è ingombrante e non solo aggiunge ma spesso copre.
È una colonna sonora poco sobria.
Mi sono innervosito più volte in accordo con le vecchie della fila davanti.
“Youth” a tratti pare un musical.
E io odio i musical.
Sorrentino torna a scrivere da solo e abbandona Contarello.
Povero Contarello.
In alcuni frangenti si nota in modo inequivocabile il desiderio spasmodico di colpire lo spettatore con dialoghi assurdi e surreali che non sono però sorretti da un sistema interno che li possa contenere e lasciar scivolare via liberi, risultando in tal modo pretenziosi e pretestuosi cosa che spesso capita quando si scrive un film in solitudine soffrendo l’assenza di qualcuno che smorzi,
suggerisca,
bilanci e possa anche solo rendere coerente lo slancio dell’altro.
Un film è fatto di scene.
Questa è la prima cosa che viene insegnata a chi intende fare del cinema e questo Sorrentino dimostra di saperlo bene al punto che questo film,
più ancora di quanto già accaduto con “La grande bellezza”,
appare un insieme di scene autonome e indipendenti montate una accanto all’altra senza una soluzione forte di causa effetto e continuità,
tanto da chiedersi perché mettere prima quella scena piuttosto che un’altra.
Non trovo che questo sia un difetto tantomeno un pregio,
avrei soltanto voluto capirne il perché.
Se una scena non serve che se ne vada a quel paese.
Se una scena deve stare li è perché può stare solo li.
Questo è un postulato, quindi inappellabile.
La regia di Sorrentino si alleggerisce.
Le macchine da presa non volteggiano più nel cielo come aironi impazziti per tornare posate con i piedi per terra.
Ci sono due scene su tutte: un videoclip trash;
e una scena onirica in una piazza San Marco sott’acqua.
Sono due scene che funzionano.
La fotografia è ottima come sempre e come sempre è firmata da Luca Bigazzi,
autore della fotografia di tutti i film di Sorrentino e non solo.
È una fotografia sobria.
La musica è ingombrante e non solo aggiunge ma spesso copre.
È una colonna sonora poco sobria.
Mi sono innervosito più volte in accordo con le vecchie della fila davanti.
“Youth” a tratti pare un musical.
E io odio i musical.
Sorrentino torna a scrivere da solo e abbandona Contarello.
Povero Contarello.
In alcuni frangenti si nota in modo inequivocabile il desiderio spasmodico di colpire lo spettatore con dialoghi assurdi e surreali che non sono però sorretti da un sistema interno che li possa contenere e lasciar scivolare via liberi, risultando in tal modo pretenziosi e pretestuosi cosa che spesso capita quando si scrive un film in solitudine soffrendo l’assenza di qualcuno che smorzi,
suggerisca,
bilanci e possa anche solo rendere coerente lo slancio dell’altro.
Un film è fatto di scene.
Questa è la prima cosa che viene insegnata a chi intende fare del cinema e questo Sorrentino dimostra di saperlo bene al punto che questo film,
più ancora di quanto già accaduto con “La grande bellezza”,
appare un insieme di scene autonome e indipendenti montate una accanto all’altra senza una soluzione forte di causa effetto e continuità,
tanto da chiedersi perché mettere prima quella scena piuttosto che un’altra.
Non trovo che questo sia un difetto tantomeno un pregio,
avrei soltanto voluto capirne il perché.
Se una scena non serve che se ne vada a quel paese.
Se una scena deve stare li è perché può stare solo li.
Questo è un postulato, quindi inappellabile.
tratto dal film “Sono io il mio nemico più grande” (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
Una volta in una trasmissione in televisione ho sentito dire una frase a Sorrentino che mi fece pensare di avere davanti un grande uomo:” Io amo l’odore delle case dei vecchi”.
Ecco per me questa frase è un capolavoro del cinema ed è quello che manca a “Youth” per essere un grande film. E mi chiedo come sia possibile che chi pensa e pronuncia una frase del genere possa poi fare un film come questo a proposito del tempo che passa.
Prendete il film e poi rileggete questa frase “Io amo l’odore delle case dei vecchi” e pensateci. Sembra impossibile ma sono tante le cose che mancano a “Youth” per raggiungere le altezze cinematografiche di quella frase.
L’odore delle case dei vecchi.
I divani dorati.
Le cornici d’argento.
I mobili lucidi.
Le notizie alla radio.
Una mano liscia,
bianca,
affusolata,
che toglie la polvere.
Alcuni bei gialli.
L’odore di bagno.
Il rumore di barba.
Torta e candele.
Le millelire.
Due dita di profumo sul collo.
Leggere i numeri.
Imparare a fischiare.
Coda di lupo.
L’orologio all’ingresso.
L’orologio in cucina.
L’orologio del nonno.
I quadri e le mucche.
L’agenda dorata.
L’Ovomaltina.
I cerini di alberghi lontani.
Televisore.
Le Generali.
Colesterolo.
Il novo Sal.
I cioccolatini in salotto.
Un pacchetto di Lark.
Cristi e Madonne.
I catarri del nonno.
I fucili del nonno.
L’ascensore che arriva.
Il portaocchiali.
Le scivolate.
I corridoi.
Aiutarsi col pane.
Il pavimento di marmo.
Un fagiano impagliato.
La pasta al ragù.
Dalla bici esce fumo.
Le parole crociate.
Il dito alla crema.
La lingua di gatto.
Le scarpe pulite.
Mi sbuccio un ginocchio.
Il mercurio cromo.
Naftaline e cassetti.
I giornali nel cesto.
Giochiamo a scartino.
Il portafogli di pelle.
Un portacandele.
L’odore di ciò che conservi si mantiene nel tempo, invecchia e si perde con noi.
Una volta in una trasmissione in televisione ho sentito dire una frase a Sorrentino che mi fece pensare di avere davanti un grande uomo:” Io amo l’odore delle case dei vecchi”.
Ecco per me questa frase è un capolavoro del cinema ed è quello che manca a “Youth” per essere un grande film. E mi chiedo come sia possibile che chi pensa e pronuncia una frase del genere possa poi fare un film come questo a proposito del tempo che passa.
Prendete il film e poi rileggete questa frase “Io amo l’odore delle case dei vecchi” e pensateci. Sembra impossibile ma sono tante le cose che mancano a “Youth” per raggiungere le altezze cinematografiche di quella frase.
L’odore delle case dei vecchi.
I divani dorati.
Le cornici d’argento.
I mobili lucidi.
Le notizie alla radio.
Una mano liscia,
bianca,
affusolata,
che toglie la polvere.
Alcuni bei gialli.
L’odore di bagno.
Il rumore di barba.
Torta e candele.
Le millelire.
Due dita di profumo sul collo.
Leggere i numeri.
Imparare a fischiare.
Coda di lupo.
L’orologio all’ingresso.
L’orologio in cucina.
L’orologio del nonno.
I quadri e le mucche.
L’agenda dorata.
L’Ovomaltina.
I cerini di alberghi lontani.
Televisore.
Le Generali.
Colesterolo.
Il novo Sal.
I cioccolatini in salotto.
Un pacchetto di Lark.
Cristi e Madonne.
I catarri del nonno.
I fucili del nonno.
L’ascensore che arriva.
Il portaocchiali.
Le scivolate.
I corridoi.
Aiutarsi col pane.
Il pavimento di marmo.
Un fagiano impagliato.
La pasta al ragù.
Dalla bici esce fumo.
Le parole crociate.
Il dito alla crema.
La lingua di gatto.
Le scarpe pulite.
Mi sbuccio un ginocchio.
Il mercurio cromo.
Naftaline e cassetti.
I giornali nel cesto.
Giochiamo a scartino.
Il portafogli di pelle.
Un portacandele.
L’odore di ciò che conservi si mantiene nel tempo, invecchia e si perde con noi.
Roccamare, giugno 2015 (c) FILMSOLO di Lorenzo Bechi
Vorrei solo aggiungere un’ultima cosa:
ho notato che col passare degli anni il volto di Sorrentino è sempre più somigliante a quello di Fellini.
Fateci caso.
È strano.
Veniamo alle pagelle:
due pallette
due stellette
È un bel 5 per il vecchio Sorrentino.
Vorrei solo aggiungere un’ultima cosa:
ho notato che col passare degli anni il volto di Sorrentino è sempre più somigliante a quello di Fellini.
Fateci caso.
È strano.
Veniamo alle pagelle:
due pallette
due stellette
È un bel 5 per il vecchio Sorrentino.
Recensione dal mio bagno n.9
"Blue Jasmine"
di Woody Allen
Sceneggiatura: Woody Allen
Con: Cate Blanchett, Sally Hawkins, Alec Baldwin, Peter Sarsgaard, Bobby Cannavale, Andrew Dice Clay, Alden Ehrenreich
Mentre passeggio per Roma sono le tre e mezzo di un mercoledì pomeriggio.
Non è un mercoledì pomeriggio qualsiasi è il diciotto dicembre, il giorno prima del compleanno di Tomba.
Il sole cala già.
Roma si prepara alla guerra. Fuoco e fiamme.
Magari è la volta buona penso.
Impossibile.
Prima e durante le vacanze l’Italia si blocca e non succede mai niente.
Ci sono i Forconi e il movimento di lotta per la casa pronti a gridare a gran voce il proprio dissenso.
“I Forconi…mah”, tra qualche anno rileggendo questa recensione sono sicuro che non mi ricorderò niente di tutti quei trattori, e dei camion, e le bande nere, ma penserò a qualcosa tipo “I mastardi” o “il mondialismo ti uccide”, qualcosa che da un muro degli anni ‘90 s’imprimeva nelle nostre menti senza alcun senso.
Io sono comunque al sicuro avvolto nella mia nuova sciarpa verde e blu.
Di lana.
A costine.
Bellissima.
Dodici euro e novantanove centesimi all’OVS. Non una lira di più.
Si fanno grandi affari da quelle parti.
Al mio fianco sinistro la mia ragazza, Eli.
Stiamo camminando.
Lei ha un piumino bellissimo.
Lunghissimo.
E con un collo gigante.
Che non ha comprato certo all’OVS.
Poi ha un cappello nero, e allora quello che rimane sono solo gli occhietti che spuntano.
Sembra un sacco a pelo con le gambe.
Glielo dico sempre e a lei questa cosa piace.
Stiamo camminando.
Alla mia destra invece il mio vecchio amico Tiziano, compagno di mille avventure, lui che all’OVS ci ha lasciato il cuore, poveraccio, quel suo cuoricione malconcio, abbandonato su un cachemirino color tabacco e girocollo da ottantanove euro e novantanove centesimi, che obbiettivamente avrebbero piegato chiunque.
Quel girocollo color tabacco è il capo di punta della collezione uomo autunno inverno dell’OVS di via Panzani a Firenze, reparto uomo primo piano, il mio nuovo regno, un sogno quasi a portata di mano.
“Bisogna saper scegliere” come dicono dell’Ikea.
Ma l’OVS è molto meglio, e se sai scegliere è un paradiso.
E poi ci sono delle persone meravigliose all'OVS di Via Panzani a Firenze, tipo: Claudio, Gerome (un francese), la Novella e la Pia.
La polizia invade via Cavour, quella di Roma, e sono tantissimi.
E’ pieno di sbirri da tutte le parti: ci sono quelli col basco, quelli con la tuta e con il basco, quello con la tuta e senza il basco ma gli occhiali da sole quelli li, quelli da sbirro, ci sono quelli che sembrano sbirri e che hanno i jeans e le giacche della Belstaff e infatti sono sbirri, quelli con le scimitarre appese al collo, quelli con le falcifinaie che ciondolano dietro la schiena, quelli con le alabarde tirate a lucido, ce ne era addirittura uno, giuro, con un’arpa tra le cosce, un altro aggrappato a una marmitta pescatrice e un altro ancora, anzi erano due, incredibile, che si sfidavano senza esclusione di colpi in un’estenuante sessione di imitazioni di personaggi sport-tv anni‘90.
Scherzo.
Comunque questi tizi delle forze dell’ordine sono tutti parecchio grigiastri, incolori, tipo Udine e l’Udinese.
Sono grigi e tristi anche se tra di loro si divertono un sacco.
E si vede.
Sono maschi, hanno il profumo, degli orologi giganti e la barba di due giorni.
Sono anche in forma, e parecchio, e parecchio più di me.
Hanno anche i carri armati, ma con le ruote, e le radioline, pensa che spasso, girellare nella zona a traffico limitato di Roma a bordo di un carro armato con le ruote e dirsi una valanga di cazzate al walkie talkie interrotte solo da un “passo”.
Un sogno.
Mentre attraversiamo Piazza dell’Esquilino una colonna del terzo reggimento ci viene incontro superandoci; senza ritegno ad uno ad uno con lo sguardo mi stuprano la fidanzata. Il mio sacco a pelo con le gambe.
Roba da pazzi.
Violenza pura, infatti lei è costretta a guardarsi le punte dei piedi, io invece farnetico tre parole di protesta conscio che non mi avrebbero sentito, Tiziano, compagno di mille avventure invece, non si è accorto di nulla, lui non ci vede tanto bene, infatti disegna di merda e fa delle fotografie orribili, ma ha una grande confidenza con le parole e le tastiere, e poi diciamocelo aveva la testa da altre parti, pensava a quel cachemirino girocollo color tabacco nel reparto uomo al primo piano dell’OVS di via Panzani a Firenze.
Come non capirlo.
I Forconi sono pronti a inondare la Capitale, quelli del movimento di lotta per la casa pure, gli sbirri sull’attenti e sono duemila, hanno anche i carri armati con le ruote e le radioline e le albarde e le falcifinaie, e tra di loro si divertono un sacco; noi invece ce ne andiamo a vedere “Blue Jasmine”, l’ultimo film di Woody Allen.
Che sfigati ma non saprei dire precisamente perché.
Il cinema Fiamma è un multisala in via Bissolati 47, poco oltre la stazione Termini, dopo Piazza della Repubblica anzi Piazza Esedra. E’ un cinema dove succedono delle cose strane e dove è difficilissimo trovare l’uscita. Basti iniziare col dire che la sala è a forma di V, perché li nello spazio vuoto della V, fra le due gambette per aria per capirsi, hanno messo il proiettore e quindi per non perdere posti hanno deciso di creare quasi una sorta di due corridoi che stanno ai fianchi della stanza del proiezionista, sono le gambette per aria della V per capirsi.
I posti sono numerati, è ormai una moda, fila E posto 17, mi siedo, parte la polemica.
Ho due vecchie dietro di me che mi invitano a fregarmene delle leggi del cinema Fiamma e a spostarmi per non ostruire loro la visuale, eseguo gli ordini, ci scambio due battute su I Forconi e non l’avessi mai fatto. Partono a briglia sciolta a parlare di politica, e Matteo e Silvio e Beppe e Angelino che poi sono tutti e quattro la stessa cosa, e detti così sembrano una barzelletta, e infatti… e poi il senso della vita, l’invecchiare, “la vita di Adele” che è una porcheria e questo film che non inizia mai e il Fiamma che proprio per questo è un cinema pessimo perché mettono troppa pubblicità prima dei film e poi dopo ci credo che le persone sono in ritardo, e il volume poi è altissimo e noi siamo vecchie ma mica sorde.
Nemmeno una parola sui nipoti.
Insomma fatto sta che le due amabili nonne, appena il film comincia mi chiedono che film sia, si accorgono di avere sbagliato, si alzano sgomente e se ne vanno.
Poi ritornano.
Blue Jasmin parla di una donna, che ancora non ho capito se si chiama Jasmine o Jeanette interpretata da Cate Blanchett.
E’ la storia dei fallimenti di una donna vuota, frivola; è la storia di un’arrampicatrice sociale che viene di volta in volta sconfitta dalla vita.
E’ la storia di una donna che ha sposato un uomo ricco, infedele, miliardario e ladro, che finisce in prigione; Jasmine o Janette così si trova senza una lira ed è costretta a chiedere aiuto alla sorella proletaria Ginger, Sally Hawkins, spostandosi così dal lusso di Park Avenue ai quartieri popolari di San Francisco.
Il film è costruito tramite una serie di flash back utili a mettere in relazione il prima, la storia della protagonista col marito miliardario e ladro, il presente nel quale Jasmine o Janette non riesce a trovarsi a suo agio nei panni della proletaria, e i drammi che affliggono la vita sentimentale della sorella, così lontana ma così vicina. Sono sorelle ma entrambe adottate, un espediente divertente se portato all’eccesso e nel grottesco, ridicolo quanto inconsistente se solo accennato e lasciato li come in questo caso.
Woody Allen in questa sua ultima opera intende condannare quell’alta borghesia arricchita, vuota e cinica che non abita soltanto in Park Avenue ma è anche la stessa di Roma, Milano, Londra, Parigi, Tokyo e Stoccolma.
Ma non ci riesce molto bene a mio modo di vedere.
Anzi per niente.
Racconta quei ricchi rampanti tramite una serie di luoghi comuni che non hanno la forza di imprimersi in una riflessione degna di nota sulla realtà.
Il gioco a cui gioca l'autore sembra essere esso stesso ciò che lo mette in difficoltà: questa rappresentazione dei quartieri alti è vista e rivista, male accennata e con una superficialità a dir poco imbarazzante. Basti pensare al personaggio di Alec Baldwin (impressionante la sua somiglianza con Walter Mazzarri), il primo marito di Jasmine o Janette, un personaggio grezzo e stereotipato del quale solo grazie a delle farraginose trovate di sceneggiatura conosciamo nefandezze e segreti.
Blue Jasmine è un film inutile.
Perché?
Perché non serve a niente, non aggiunge niente, non dona uno sguardo originale su un tema che di partenza offrirebbe infiniti spunti.
Cosa aggiunge questo film alla storia del cinema, della commedia?
Cosa dice in più che non è stato detto sul tema?
Niente.
Niente di niente, e secondo me non ha senso fare un film che non serve, che non aggiunge niente.
C’è una bella battuta, una sola, quella su un tizio che manda l'amico a chiedere a Jasmine o Janette di uscire, lei si meraviglia sul perchè non lo faccia lui stesso di persona, le viene risposto perchè è basso, questa sì, non era male, anche se non siamo certo ai livelli del grande Jerry Calà che nel primo "Vacanze di Natale" ritrovandosi dinanzi a un tradimento palese vide bene di spergiurare su Pupo (lo davano in tv il giorno prima).
Che classe.
La prestazione di Cate Blanchett è straordinaria e lo sarebbe stata ancora di più se solo le fosse stato cucito addosso un personaggio un poco più approfondito.
Lei del resto è un fenomeno, è bellissima, è un bullo dell’arte drammatica, è una donna e un maschiaccio, è una signora e una diavola, una ribelle e una dama, ecco sì lei potrebbe tranquillamente essere una rockstar (“Io non sono qui” di Todd Haynes in cui interpreta Bob Dylan) e se stessa e sua cugina (“Coffee and cigarettes” di Jim Jarmush), lei potrebbe essere chiunque anche un cavallo, secondo me.
Anche la struttura stessa del film è povera e sofferente: la trovata di andare e tornare dal passato oltre a non essere originale è innescata tramite una serie di “ganci” pretestuosi e a tratti ridicoli.
Imbarazzante la costruzione dei personaggi secondari che talvolta scompaiono all’improvviso nel niente o tramite espedienti grossolani (una telefonata), sono forse citazioni de “L’avventura” di Antonioni, mi sono detto, ma non credo, Woody Allen è semplicemente invecchiato. E capita a tutti.
La serie di improbabili fidanzati della sorella di Jasmine o Janette come meglio credete, sembrano un campionario di luoghi comuni del cinema brutto.
Si salva solo il primo marito della sorella, il vecchio Augie interpretato da Andrew Dice Clay, muratore dal cuore d’oro che dopo aver vinto duecentomila dollari alla lotteria vede bene di metterli nelle mani di Baldwin, il Mazzarri di noi altri, perdendo poi tutto.
Anche il vecchio Augie a un certo punto sparisce nel niente e senza che se ne capisca il perché, salvo poi ricomparire nel finale ma con un evidente strabismo di venere.
Chissà.
Se Woody Allen appare in questo film molto superficiale nel ritrarre e raccontare la pochezza e il cinismo di quei quartieri alti, appare ancora più legato, trattenuto e macchiettistico nel ritrarre il proletariato.
Sembra infatti fare gli stessi errori che egli stesso imputa a quei ricchi: racconta i suoi personaggi tramite solo ciò che indossano.
Questo è quello che rimane del film, una brava costumista, Suzi Benzinger, che infatti è l’unica a salvarsi.
Oltre il vecchio Augie ovviamente, quello strabico.
I proletari invece non hanno manco dei bei costumi, sono personaggi accennati solo grazie a una serie di caratteristiche che non sarei così convinto che appartengano e definiscano solo la working class: i muscoli, la stazza ingombrante e l’avere dei figli ciccioni che “fanno il diavolo a quattro”.
Nessuna battuta sulla psicanalisi e sugli psicanalisti ebrei.
Un’ultima personale osservazione: se tutti i protagonisti dei tuoi film caro Woody, sono sempre te stesso, allora falli te, almeno ci metti la faccia che è sempre una cosa alta e nobile al giorno d’oggi.
Usciamo dal cinema Fiamma che è ormai buio.
I segni della battaglia non si vedono.
Chissà sei I Forconi hanno preso il potere in silenzio.
Senza i forconi.
Stiamo camminando.
Arriviamo a Termini.
Tutto tace.
I Forconi alla fine non erano manco tremila, e poi è quasi Natale, e prima e durante le feste in Italia si sa, non succede mai nulla.
Veniamo alle pagelle:
Una palletta
Una stelletta
E’un bel quattro per il vecchio Woody Allen
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer
Non è un mercoledì pomeriggio qualsiasi è il diciotto dicembre, il giorno prima del compleanno di Tomba.
Il sole cala già.
Roma si prepara alla guerra. Fuoco e fiamme.
Magari è la volta buona penso.
Impossibile.
Prima e durante le vacanze l’Italia si blocca e non succede mai niente.
Ci sono i Forconi e il movimento di lotta per la casa pronti a gridare a gran voce il proprio dissenso.
“I Forconi…mah”, tra qualche anno rileggendo questa recensione sono sicuro che non mi ricorderò niente di tutti quei trattori, e dei camion, e le bande nere, ma penserò a qualcosa tipo “I mastardi” o “il mondialismo ti uccide”, qualcosa che da un muro degli anni ‘90 s’imprimeva nelle nostre menti senza alcun senso.
Io sono comunque al sicuro avvolto nella mia nuova sciarpa verde e blu.
Di lana.
A costine.
Bellissima.
Dodici euro e novantanove centesimi all’OVS. Non una lira di più.
Si fanno grandi affari da quelle parti.
Al mio fianco sinistro la mia ragazza, Eli.
Stiamo camminando.
Lei ha un piumino bellissimo.
Lunghissimo.
E con un collo gigante.
Che non ha comprato certo all’OVS.
Poi ha un cappello nero, e allora quello che rimane sono solo gli occhietti che spuntano.
Sembra un sacco a pelo con le gambe.
Glielo dico sempre e a lei questa cosa piace.
Stiamo camminando.
Alla mia destra invece il mio vecchio amico Tiziano, compagno di mille avventure, lui che all’OVS ci ha lasciato il cuore, poveraccio, quel suo cuoricione malconcio, abbandonato su un cachemirino color tabacco e girocollo da ottantanove euro e novantanove centesimi, che obbiettivamente avrebbero piegato chiunque.
Quel girocollo color tabacco è il capo di punta della collezione uomo autunno inverno dell’OVS di via Panzani a Firenze, reparto uomo primo piano, il mio nuovo regno, un sogno quasi a portata di mano.
“Bisogna saper scegliere” come dicono dell’Ikea.
Ma l’OVS è molto meglio, e se sai scegliere è un paradiso.
E poi ci sono delle persone meravigliose all'OVS di Via Panzani a Firenze, tipo: Claudio, Gerome (un francese), la Novella e la Pia.
La polizia invade via Cavour, quella di Roma, e sono tantissimi.
E’ pieno di sbirri da tutte le parti: ci sono quelli col basco, quelli con la tuta e con il basco, quello con la tuta e senza il basco ma gli occhiali da sole quelli li, quelli da sbirro, ci sono quelli che sembrano sbirri e che hanno i jeans e le giacche della Belstaff e infatti sono sbirri, quelli con le scimitarre appese al collo, quelli con le falcifinaie che ciondolano dietro la schiena, quelli con le alabarde tirate a lucido, ce ne era addirittura uno, giuro, con un’arpa tra le cosce, un altro aggrappato a una marmitta pescatrice e un altro ancora, anzi erano due, incredibile, che si sfidavano senza esclusione di colpi in un’estenuante sessione di imitazioni di personaggi sport-tv anni‘90.
Scherzo.
Comunque questi tizi delle forze dell’ordine sono tutti parecchio grigiastri, incolori, tipo Udine e l’Udinese.
Sono grigi e tristi anche se tra di loro si divertono un sacco.
E si vede.
Sono maschi, hanno il profumo, degli orologi giganti e la barba di due giorni.
Sono anche in forma, e parecchio, e parecchio più di me.
Hanno anche i carri armati, ma con le ruote, e le radioline, pensa che spasso, girellare nella zona a traffico limitato di Roma a bordo di un carro armato con le ruote e dirsi una valanga di cazzate al walkie talkie interrotte solo da un “passo”.
Un sogno.
Mentre attraversiamo Piazza dell’Esquilino una colonna del terzo reggimento ci viene incontro superandoci; senza ritegno ad uno ad uno con lo sguardo mi stuprano la fidanzata. Il mio sacco a pelo con le gambe.
Roba da pazzi.
Violenza pura, infatti lei è costretta a guardarsi le punte dei piedi, io invece farnetico tre parole di protesta conscio che non mi avrebbero sentito, Tiziano, compagno di mille avventure invece, non si è accorto di nulla, lui non ci vede tanto bene, infatti disegna di merda e fa delle fotografie orribili, ma ha una grande confidenza con le parole e le tastiere, e poi diciamocelo aveva la testa da altre parti, pensava a quel cachemirino girocollo color tabacco nel reparto uomo al primo piano dell’OVS di via Panzani a Firenze.
Come non capirlo.
I Forconi sono pronti a inondare la Capitale, quelli del movimento di lotta per la casa pure, gli sbirri sull’attenti e sono duemila, hanno anche i carri armati con le ruote e le radioline e le albarde e le falcifinaie, e tra di loro si divertono un sacco; noi invece ce ne andiamo a vedere “Blue Jasmine”, l’ultimo film di Woody Allen.
Che sfigati ma non saprei dire precisamente perché.
Il cinema Fiamma è un multisala in via Bissolati 47, poco oltre la stazione Termini, dopo Piazza della Repubblica anzi Piazza Esedra. E’ un cinema dove succedono delle cose strane e dove è difficilissimo trovare l’uscita. Basti iniziare col dire che la sala è a forma di V, perché li nello spazio vuoto della V, fra le due gambette per aria per capirsi, hanno messo il proiettore e quindi per non perdere posti hanno deciso di creare quasi una sorta di due corridoi che stanno ai fianchi della stanza del proiezionista, sono le gambette per aria della V per capirsi.
I posti sono numerati, è ormai una moda, fila E posto 17, mi siedo, parte la polemica.
Ho due vecchie dietro di me che mi invitano a fregarmene delle leggi del cinema Fiamma e a spostarmi per non ostruire loro la visuale, eseguo gli ordini, ci scambio due battute su I Forconi e non l’avessi mai fatto. Partono a briglia sciolta a parlare di politica, e Matteo e Silvio e Beppe e Angelino che poi sono tutti e quattro la stessa cosa, e detti così sembrano una barzelletta, e infatti… e poi il senso della vita, l’invecchiare, “la vita di Adele” che è una porcheria e questo film che non inizia mai e il Fiamma che proprio per questo è un cinema pessimo perché mettono troppa pubblicità prima dei film e poi dopo ci credo che le persone sono in ritardo, e il volume poi è altissimo e noi siamo vecchie ma mica sorde.
Nemmeno una parola sui nipoti.
Insomma fatto sta che le due amabili nonne, appena il film comincia mi chiedono che film sia, si accorgono di avere sbagliato, si alzano sgomente e se ne vanno.
Poi ritornano.
Blue Jasmin parla di una donna, che ancora non ho capito se si chiama Jasmine o Jeanette interpretata da Cate Blanchett.
E’ la storia dei fallimenti di una donna vuota, frivola; è la storia di un’arrampicatrice sociale che viene di volta in volta sconfitta dalla vita.
E’ la storia di una donna che ha sposato un uomo ricco, infedele, miliardario e ladro, che finisce in prigione; Jasmine o Janette così si trova senza una lira ed è costretta a chiedere aiuto alla sorella proletaria Ginger, Sally Hawkins, spostandosi così dal lusso di Park Avenue ai quartieri popolari di San Francisco.
Il film è costruito tramite una serie di flash back utili a mettere in relazione il prima, la storia della protagonista col marito miliardario e ladro, il presente nel quale Jasmine o Janette non riesce a trovarsi a suo agio nei panni della proletaria, e i drammi che affliggono la vita sentimentale della sorella, così lontana ma così vicina. Sono sorelle ma entrambe adottate, un espediente divertente se portato all’eccesso e nel grottesco, ridicolo quanto inconsistente se solo accennato e lasciato li come in questo caso.
Woody Allen in questa sua ultima opera intende condannare quell’alta borghesia arricchita, vuota e cinica che non abita soltanto in Park Avenue ma è anche la stessa di Roma, Milano, Londra, Parigi, Tokyo e Stoccolma.
Ma non ci riesce molto bene a mio modo di vedere.
Anzi per niente.
Racconta quei ricchi rampanti tramite una serie di luoghi comuni che non hanno la forza di imprimersi in una riflessione degna di nota sulla realtà.
Il gioco a cui gioca l'autore sembra essere esso stesso ciò che lo mette in difficoltà: questa rappresentazione dei quartieri alti è vista e rivista, male accennata e con una superficialità a dir poco imbarazzante. Basti pensare al personaggio di Alec Baldwin (impressionante la sua somiglianza con Walter Mazzarri), il primo marito di Jasmine o Janette, un personaggio grezzo e stereotipato del quale solo grazie a delle farraginose trovate di sceneggiatura conosciamo nefandezze e segreti.
Blue Jasmine è un film inutile.
Perché?
Perché non serve a niente, non aggiunge niente, non dona uno sguardo originale su un tema che di partenza offrirebbe infiniti spunti.
Cosa aggiunge questo film alla storia del cinema, della commedia?
Cosa dice in più che non è stato detto sul tema?
Niente.
Niente di niente, e secondo me non ha senso fare un film che non serve, che non aggiunge niente.
C’è una bella battuta, una sola, quella su un tizio che manda l'amico a chiedere a Jasmine o Janette di uscire, lei si meraviglia sul perchè non lo faccia lui stesso di persona, le viene risposto perchè è basso, questa sì, non era male, anche se non siamo certo ai livelli del grande Jerry Calà che nel primo "Vacanze di Natale" ritrovandosi dinanzi a un tradimento palese vide bene di spergiurare su Pupo (lo davano in tv il giorno prima).
Che classe.
La prestazione di Cate Blanchett è straordinaria e lo sarebbe stata ancora di più se solo le fosse stato cucito addosso un personaggio un poco più approfondito.
Lei del resto è un fenomeno, è bellissima, è un bullo dell’arte drammatica, è una donna e un maschiaccio, è una signora e una diavola, una ribelle e una dama, ecco sì lei potrebbe tranquillamente essere una rockstar (“Io non sono qui” di Todd Haynes in cui interpreta Bob Dylan) e se stessa e sua cugina (“Coffee and cigarettes” di Jim Jarmush), lei potrebbe essere chiunque anche un cavallo, secondo me.
Anche la struttura stessa del film è povera e sofferente: la trovata di andare e tornare dal passato oltre a non essere originale è innescata tramite una serie di “ganci” pretestuosi e a tratti ridicoli.
Imbarazzante la costruzione dei personaggi secondari che talvolta scompaiono all’improvviso nel niente o tramite espedienti grossolani (una telefonata), sono forse citazioni de “L’avventura” di Antonioni, mi sono detto, ma non credo, Woody Allen è semplicemente invecchiato. E capita a tutti.
La serie di improbabili fidanzati della sorella di Jasmine o Janette come meglio credete, sembrano un campionario di luoghi comuni del cinema brutto.
Si salva solo il primo marito della sorella, il vecchio Augie interpretato da Andrew Dice Clay, muratore dal cuore d’oro che dopo aver vinto duecentomila dollari alla lotteria vede bene di metterli nelle mani di Baldwin, il Mazzarri di noi altri, perdendo poi tutto.
Anche il vecchio Augie a un certo punto sparisce nel niente e senza che se ne capisca il perché, salvo poi ricomparire nel finale ma con un evidente strabismo di venere.
Chissà.
Se Woody Allen appare in questo film molto superficiale nel ritrarre e raccontare la pochezza e il cinismo di quei quartieri alti, appare ancora più legato, trattenuto e macchiettistico nel ritrarre il proletariato.
Sembra infatti fare gli stessi errori che egli stesso imputa a quei ricchi: racconta i suoi personaggi tramite solo ciò che indossano.
Questo è quello che rimane del film, una brava costumista, Suzi Benzinger, che infatti è l’unica a salvarsi.
Oltre il vecchio Augie ovviamente, quello strabico.
I proletari invece non hanno manco dei bei costumi, sono personaggi accennati solo grazie a una serie di caratteristiche che non sarei così convinto che appartengano e definiscano solo la working class: i muscoli, la stazza ingombrante e l’avere dei figli ciccioni che “fanno il diavolo a quattro”.
Nessuna battuta sulla psicanalisi e sugli psicanalisti ebrei.
Un’ultima personale osservazione: se tutti i protagonisti dei tuoi film caro Woody, sono sempre te stesso, allora falli te, almeno ci metti la faccia che è sempre una cosa alta e nobile al giorno d’oggi.
Usciamo dal cinema Fiamma che è ormai buio.
I segni della battaglia non si vedono.
Chissà sei I Forconi hanno preso il potere in silenzio.
Senza i forconi.
Stiamo camminando.
Arriviamo a Termini.
Tutto tace.
I Forconi alla fine non erano manco tremila, e poi è quasi Natale, e prima e durante le feste in Italia si sa, non succede mai nulla.
Veniamo alle pagelle:
Una palletta
Una stelletta
E’un bel quattro per il vecchio Woody Allen
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer
Recensioni dal mio bagno n.7+n.8
"Sacro Gra"+"Below sea level"
di Gianfranco Rosi
Il Salton Sea è a quaranta metri sotto il livello del mare.
E’ un posto dimenticato da Dio ma non dagli uomini.
Siamo nel sud-ovest della California a diverse miglia di distanza dalle spiagge dorate dei surfisti felici e delle bagnine strafighe, e ancora di più dalle montagne dei grizzly e dei Marlboro man.
Poi le bagnine strafighe mica ci sono, e questo va detto.
Io ci sono stato a Salton Sea che poi un mare non è.
Quasi a cavallo tra la California e il Nevada, al confine col Messico e sfiorando l’Arizona, c’è questo lago che chiamano mare, ed è un lago gigante in mezzo al deserto, che dicono essersi creato nei primi del’900 a causa di un’esondazione del Colorado che a quanto pare arriva fin qua.
In un primo tempo gli americani tentarono di farlo diventare una meta turistica ma senza poi riuscirvi, così le aziende vicine ne approfittarono per vomitarci dentro tutti loro rifiuti indigesti.
Una storia italiana.
Oggi la zona del Sealton Sea è un posto da incubo, Sodoma, Gomorra e Scampia messe insieme, dove si respira pesce morto, le persone sono fantasmi e si schianta dal caldo.
Intorno a questo splendido acquitrino sono nate delle ridenti cittadine sulla scia di tutte quelle fandonie di inizio ‘900 che volevano il Salton Sea come la Saint Tropez dei deserti.
Oggi quelle ridenti cittadine sono ancora li, in quel mare di niente, in mezzo al deserto e al puzzo di morte.
Poveri pesci.
Un posto nel quale fioriscono povertà e decadenza e dunque una moltitudine di documentari.
Bombay beach ad esempio, il nome è già tutto un programma, è l’incantevole paesello fantasma sulla parte orientale del lago, nel quale è stato girato l’omonimo documentario (bellissimo) della regista israeliana Alma Har’el.
Basta poi spostarsi pochi chilometri più a est per trovare la “sempreverde” Niland dove il maestro Werner Herzog ha girato ”L’ignoto spazio profondo”; se poi facciamo ancora due passi più avanti, poco dopo la centrale elettrica, arriviamo alla Salvation Mountain, la mecca dei fricchettoni del deserto, in provincia dell’ormai nota Slab city, nella quale il vecchio Sean Penn ha ambientato alcune sequenze di “Into the wild” e dove infine il nostro “leone dorato” Gianfranco Rosi ha girato il suo “Below sea level”.
Parto da lontano per parlare di “Sacro Gra” per un buon motivo: l’operazione di “Sacro Gra” è molto simile a quella fatta per “Below sea level”; è un fatto di stile mi direte, sono entrambi dello stesso autore…
No, non mi basta.
Il problema è un altro a mio modo di vedere: sono due opere costruite intorno al medesimo principio e cioè quello del “prendiamo un posto il più scenografico possibile, magari piuttosto malconcio, improvvisato e marginale, dove regnino solitudine, diversità e disperazione e facciamoci un bel documentario”.
E lo fanno in tanti, quasi tutti, e non è peccato mortale ma qualcosa è pur giusto dire.
Chi si prende la briga di raccontare questi luoghi dimenticati da Dio e coloro che li abitano ha il dovere di sforzarsi un po'di più, andando ben oltre ciò che l’ambiente già di per se stesso offre e per altro senza chiedere.
Non si prende senza dare.
Detto questo, io sono un estimatore di Gianfranco Rosi, e sono felice che sia il nostro leone dorato per una cosa prima di tutto: le sue opere sono film che si fanno con niente, si fanno con le idee e una macchina da presa.
I film oggigiorno basta volerli.
E se sei bravo vinci pure il Leone d’Oro.
E lui bravo lo è, ma c’è qualcosa che non mi torna e che non riguarda solo Rosi ma tutto un certo tipo di documentari.
Non mi piace quest’approccio e in fondo manco lo condivido.
I due film sono belli, belli a vedersi ma non si fanno toccare.
Quasi museali.
Lo sappiamo che le storie dei bambini disperati, dei tossici “alla frutta”, delle mamme carcerate funzionano, e funzionano ancor meglio se poi sono direttamente mamme tossiche e bambine. Ed è proprio per questo che queste opere devono dare qualcosa di più.
Oggi che il racconto della realtà ha preso piede, viva Dio, oggi che il documentario si è ritagliato un posto di riguardo nella storia del cinema e soprattutto al botteghino, oggi che è tutto una “docu fiction”, un “docu drama”, e il “mockumentary”, e la macchina a mano e lo stile documentaristico e gli attori presi dalla strada…
Oggi al documentario chiedo qualcosa di più.
Sono più di cent’anni che osserviamo passivi i mondi lontani e le storie che non ci appartengono, adesso vogliamo capire.
Voglio qualcosa in più di una stimolazione tanto morbosa quanto furbina, chiedo di più per il mio sguardo perverso che si nutre del dolore dell’altro.
E invece no. Nulla.
E allora vai con i ragazzini tossici di Odessa, le troie bambine, le mini mamme carcerate, le famiglie di nani e le palle dei trans.
E’ qui che il documentario smette di essere realtà e diventa fiction.
Quando diventa codice, forma, struttura precostituita; un genere cinematografico che funziona in un certo modo.
Forse è solo una moda?
Chissà?
Mi sembra troppo facile raccontare vite disperate in posti tanto desolati quanto belli, tanto più se le storie di queste persone sono soltanto accennate.
E’qui infatti che commercialmente vincono tutti quei programmi di merda che MTV ci propina, che non sono documentari su come festeggiano la primavera le donne indigene delle province sperdute del Laos, ma sono REALITY, e lo spettatore, assettato di sangue, di quelle donne sa vita morte e miracoli.
E’ un’operazione ovviamente ghiozza, pacchiana e volgare, ma funziona.
Non sto certo dicendo che tutta quella robaccia sia meglio delle opere del nostro leone dorato, Dio me ne voglia, sto soltando dicendo che non trovo sempre vero l’assioma che dice che “arte è accennare”, “lasciare solo intuire”, “l’arte è prima di tutto sottrazione”.
Ma chi l’ha detto?
Non ne ho idea e non mi interessa.
I reality di MTV fanno schifo, puzzano di sudore e sono pieni di melma viscida, ti sommergono di informazioni per renderti automa passivo e questo lo sanno anche i pesci, ma questi documentari al contrario, a volte fanno poco, troppo poco rispetto a quello che l’ambiente e lo sguardo superficiale già offrono a chi intende raccontarlo.
Non voglio fare polemica con i grandi luminari dell'antropologia, e l'osservazione passiva e quella partecipante e compagnia cantando, parlo di guardare un film e di quello che ti viene in mente.
A volte queste opere danno l’impressione di essere fatte solo per essere contemplate, e questo non è bello secondo me. “Però che fotografia meravigliosa”.
Detto ciò voglio solo dire una cosa: sono anni che ci raccontate con la puzza sotto il naso e il fare strafottente di come cacciano gli ignala i pigmei giganti o come si fanno i bambini di Odessa; fatelo pure, è tutto bellissimo ma raccontateci anche qualcosa di più.
Sembra un paragrafo tratto da un manuale di sceneggiatura: se vuoi trovare una buona idea per un soggetto, prendi un disperato, mettilo in un posto di merda che tra l’altro se è di merda e quasi sempre anche bellissimo e poi o va a finire bene, quasi sempre, o va a finire male, o ancora meglio non accade proprio niente, tanto meglio, che tra l’altro è la soluzione più in voga.
Ecco un grande soggetto.
Non ci siamo.
“Sacro Gra” racconta la vita di una serie di personaggi “implausibili”, come direbbe un mio vecchio amico, che vivono all’ombra dell’autostrada urbana più lunga d’Europa, il grande raccordo anulare di Roma.
Siamo in periferia, dalle parti di Pasolini ma senza i giovani aitanti che rincorrono i palloni di pezza e manco le mamme Roma con le palle quadrate.
Siamo proprio li sotto le vostre auto ferme in coda mentre aspettate di arrivare a lavoro e quello con lo scooter gigante vi sfreccia accanto a centottanta.
E voi lo odiate.
Ci avete mai pensato mentre siete in ritardo per entrare a lavoro e state fumando di rapina l’ultima sigaretta prima del secondo caffè, oppure mentre vi controllate il trucco nello specchietto retrovisore e ascoltate Fabio Volo che non c’è più o Radio maria a manetta?
Insomma ci avete mai pensato dicevo, che a pochi metri li sotto potrebbe esserci un palmologo armato di sonda e di cuffie che ascolta il canto delle palme?
I personaggi di Rosi, sono sorprendenti, interessanti, stravaganti e divertenti ma non li puoi toccare.
Mai.
Sono portatori di storie e leggende che però non ti raccontano.
Non c’è un conflitto, un rapporto dialettico, tra il mondo della strada, il raccordo, e il mondo sommerso, sotto il raccordo; non c’è relazione, non c’è potenza che scaturisca da questa connessione, ed è per questo che allora ho bisogno del racconto, delle storie.
Non sono un fanatico delle storie, tantomeno un militante oltranzista della tensione drammatica, t’immagini, ma in assenza di queste ho bisogno di qualcos’altro per sorreggere queste elegantissime pennellate.
Come ne “La vita di Adele” l’assenza di una storia forte e di una tensione drammatica erano ben sorrette da un ritratto meraviglioso, così anche in “Sacro Gra” e in “Below sea level” c’è poca storia ma in questo caso manca anche quel talentuoso modo di ritrarre un personaggio.
Tutte le volte che leggo qualcosa che riguarda i film di Rosi rimango sempre sorpreso da quanto egli indugi nel sottolineare che per fare quel documentario ha impiegato quattro, cinque, sei anni, e lo invidio e mi dispero.
Però poi mi dico: con tutto quel tempo che hai passato a conoscere i personaggi, capire il rapporto tra il soggetto e il territorio, prendere confidenza con la realtà circostante, mettere le persone a proprio agio, solo gli ultimi quindici giorni ho tirato fuori la macchina da presa ecc…
Ecco dicevo, dopo tutto questo tempo, questi personaggi non potevi raccontarmeli un po’ meglio?
Anche perché a me Gianfranco, i tuoi personaggi piacciono e anche parecchio: piace il palmologo, piacciono il principe e l’anguillaro, il padre e la figlia che parlano forbito, e mi piacciono anche i tossici che delirano in “Below sea level”, e ti dirò di più, piace pure il barcarolo di “Boatman”; e poi tutti quei posti bellissimi, l’India, Slab city (ci sono stato apposta), “il sotto” del grande raccordo anulare, pensa te.
Però Gianfranco lasciatelo dire, qualcosina in più su questi personaggi potevi anche dircelo.
Ho preferito “Below sea level” a “Sacro Gra”, dove l’ambiente stesso diventa il drammatico: Slab city è un accampamento-città nel quale vivono migliaia di persone, l’ultimo posto libero d’America, nel quale si sono rifugiati molti di quelli che non avevano più niente, l’unico posto negli Usa dove poter fermare l’auto e non pagare manco un dollaro; non c’è acqua e non c’è luce e sei in mezzo a quel deserto e vicino a quel lago.
In “Sacro Gra” invece i personaggi non sono un mondo ma tante piccole isole.
L’ambiente non possiede lo strazio di quel lago di morte, ma soltanto la prerogativa di essere proprio li, qualche metro sotto l’autostrada urbana più lunga d’Europa, sulla quale milioni di macchine e milioni di storie passano il tempo ferme in coda per parcheggiarsi a lavoro più tardi, proprio mentre poco più sotto, chi lo avrebbe mai detto, un palmologo armato di sonda e di cuffie ascolta cosa dicono le palme.
"Sacro Gra" ha vinto il Leone d'Oro alla mostra del cinema di Venezia del 2013
"Below sea level" dopo aver partecipato a una miriade di festival e aver portato a casa altrettanti premi, tra cui il Gran Prix del Cinèma du Rèel a Parigi, non è mai stato proiettato negli Stati Uniti.
Veniamo alle votazioni che risulteranno dalla media dei due i film:
Tre pallette
Tre stellette
E’ un sei e mezzo per il leone dorato
Di Lorenzo Bechi
Ecco i trailer:
E’ un posto dimenticato da Dio ma non dagli uomini.
Siamo nel sud-ovest della California a diverse miglia di distanza dalle spiagge dorate dei surfisti felici e delle bagnine strafighe, e ancora di più dalle montagne dei grizzly e dei Marlboro man.
Poi le bagnine strafighe mica ci sono, e questo va detto.
Io ci sono stato a Salton Sea che poi un mare non è.
Quasi a cavallo tra la California e il Nevada, al confine col Messico e sfiorando l’Arizona, c’è questo lago che chiamano mare, ed è un lago gigante in mezzo al deserto, che dicono essersi creato nei primi del’900 a causa di un’esondazione del Colorado che a quanto pare arriva fin qua.
In un primo tempo gli americani tentarono di farlo diventare una meta turistica ma senza poi riuscirvi, così le aziende vicine ne approfittarono per vomitarci dentro tutti loro rifiuti indigesti.
Una storia italiana.
Oggi la zona del Sealton Sea è un posto da incubo, Sodoma, Gomorra e Scampia messe insieme, dove si respira pesce morto, le persone sono fantasmi e si schianta dal caldo.
Intorno a questo splendido acquitrino sono nate delle ridenti cittadine sulla scia di tutte quelle fandonie di inizio ‘900 che volevano il Salton Sea come la Saint Tropez dei deserti.
Oggi quelle ridenti cittadine sono ancora li, in quel mare di niente, in mezzo al deserto e al puzzo di morte.
Poveri pesci.
Un posto nel quale fioriscono povertà e decadenza e dunque una moltitudine di documentari.
Bombay beach ad esempio, il nome è già tutto un programma, è l’incantevole paesello fantasma sulla parte orientale del lago, nel quale è stato girato l’omonimo documentario (bellissimo) della regista israeliana Alma Har’el.
Basta poi spostarsi pochi chilometri più a est per trovare la “sempreverde” Niland dove il maestro Werner Herzog ha girato ”L’ignoto spazio profondo”; se poi facciamo ancora due passi più avanti, poco dopo la centrale elettrica, arriviamo alla Salvation Mountain, la mecca dei fricchettoni del deserto, in provincia dell’ormai nota Slab city, nella quale il vecchio Sean Penn ha ambientato alcune sequenze di “Into the wild” e dove infine il nostro “leone dorato” Gianfranco Rosi ha girato il suo “Below sea level”.
Parto da lontano per parlare di “Sacro Gra” per un buon motivo: l’operazione di “Sacro Gra” è molto simile a quella fatta per “Below sea level”; è un fatto di stile mi direte, sono entrambi dello stesso autore…
No, non mi basta.
Il problema è un altro a mio modo di vedere: sono due opere costruite intorno al medesimo principio e cioè quello del “prendiamo un posto il più scenografico possibile, magari piuttosto malconcio, improvvisato e marginale, dove regnino solitudine, diversità e disperazione e facciamoci un bel documentario”.
E lo fanno in tanti, quasi tutti, e non è peccato mortale ma qualcosa è pur giusto dire.
Chi si prende la briga di raccontare questi luoghi dimenticati da Dio e coloro che li abitano ha il dovere di sforzarsi un po'di più, andando ben oltre ciò che l’ambiente già di per se stesso offre e per altro senza chiedere.
Non si prende senza dare.
Detto questo, io sono un estimatore di Gianfranco Rosi, e sono felice che sia il nostro leone dorato per una cosa prima di tutto: le sue opere sono film che si fanno con niente, si fanno con le idee e una macchina da presa.
I film oggigiorno basta volerli.
E se sei bravo vinci pure il Leone d’Oro.
E lui bravo lo è, ma c’è qualcosa che non mi torna e che non riguarda solo Rosi ma tutto un certo tipo di documentari.
Non mi piace quest’approccio e in fondo manco lo condivido.
I due film sono belli, belli a vedersi ma non si fanno toccare.
Quasi museali.
Lo sappiamo che le storie dei bambini disperati, dei tossici “alla frutta”, delle mamme carcerate funzionano, e funzionano ancor meglio se poi sono direttamente mamme tossiche e bambine. Ed è proprio per questo che queste opere devono dare qualcosa di più.
Oggi che il racconto della realtà ha preso piede, viva Dio, oggi che il documentario si è ritagliato un posto di riguardo nella storia del cinema e soprattutto al botteghino, oggi che è tutto una “docu fiction”, un “docu drama”, e il “mockumentary”, e la macchina a mano e lo stile documentaristico e gli attori presi dalla strada…
Oggi al documentario chiedo qualcosa di più.
Sono più di cent’anni che osserviamo passivi i mondi lontani e le storie che non ci appartengono, adesso vogliamo capire.
Voglio qualcosa in più di una stimolazione tanto morbosa quanto furbina, chiedo di più per il mio sguardo perverso che si nutre del dolore dell’altro.
E invece no. Nulla.
E allora vai con i ragazzini tossici di Odessa, le troie bambine, le mini mamme carcerate, le famiglie di nani e le palle dei trans.
E’ qui che il documentario smette di essere realtà e diventa fiction.
Quando diventa codice, forma, struttura precostituita; un genere cinematografico che funziona in un certo modo.
Forse è solo una moda?
Chissà?
Mi sembra troppo facile raccontare vite disperate in posti tanto desolati quanto belli, tanto più se le storie di queste persone sono soltanto accennate.
E’qui infatti che commercialmente vincono tutti quei programmi di merda che MTV ci propina, che non sono documentari su come festeggiano la primavera le donne indigene delle province sperdute del Laos, ma sono REALITY, e lo spettatore, assettato di sangue, di quelle donne sa vita morte e miracoli.
E’ un’operazione ovviamente ghiozza, pacchiana e volgare, ma funziona.
Non sto certo dicendo che tutta quella robaccia sia meglio delle opere del nostro leone dorato, Dio me ne voglia, sto soltando dicendo che non trovo sempre vero l’assioma che dice che “arte è accennare”, “lasciare solo intuire”, “l’arte è prima di tutto sottrazione”.
Ma chi l’ha detto?
Non ne ho idea e non mi interessa.
I reality di MTV fanno schifo, puzzano di sudore e sono pieni di melma viscida, ti sommergono di informazioni per renderti automa passivo e questo lo sanno anche i pesci, ma questi documentari al contrario, a volte fanno poco, troppo poco rispetto a quello che l’ambiente e lo sguardo superficiale già offrono a chi intende raccontarlo.
Non voglio fare polemica con i grandi luminari dell'antropologia, e l'osservazione passiva e quella partecipante e compagnia cantando, parlo di guardare un film e di quello che ti viene in mente.
A volte queste opere danno l’impressione di essere fatte solo per essere contemplate, e questo non è bello secondo me. “Però che fotografia meravigliosa”.
Detto ciò voglio solo dire una cosa: sono anni che ci raccontate con la puzza sotto il naso e il fare strafottente di come cacciano gli ignala i pigmei giganti o come si fanno i bambini di Odessa; fatelo pure, è tutto bellissimo ma raccontateci anche qualcosa di più.
Sembra un paragrafo tratto da un manuale di sceneggiatura: se vuoi trovare una buona idea per un soggetto, prendi un disperato, mettilo in un posto di merda che tra l’altro se è di merda e quasi sempre anche bellissimo e poi o va a finire bene, quasi sempre, o va a finire male, o ancora meglio non accade proprio niente, tanto meglio, che tra l’altro è la soluzione più in voga.
Ecco un grande soggetto.
Non ci siamo.
“Sacro Gra” racconta la vita di una serie di personaggi “implausibili”, come direbbe un mio vecchio amico, che vivono all’ombra dell’autostrada urbana più lunga d’Europa, il grande raccordo anulare di Roma.
Siamo in periferia, dalle parti di Pasolini ma senza i giovani aitanti che rincorrono i palloni di pezza e manco le mamme Roma con le palle quadrate.
Siamo proprio li sotto le vostre auto ferme in coda mentre aspettate di arrivare a lavoro e quello con lo scooter gigante vi sfreccia accanto a centottanta.
E voi lo odiate.
Ci avete mai pensato mentre siete in ritardo per entrare a lavoro e state fumando di rapina l’ultima sigaretta prima del secondo caffè, oppure mentre vi controllate il trucco nello specchietto retrovisore e ascoltate Fabio Volo che non c’è più o Radio maria a manetta?
Insomma ci avete mai pensato dicevo, che a pochi metri li sotto potrebbe esserci un palmologo armato di sonda e di cuffie che ascolta il canto delle palme?
I personaggi di Rosi, sono sorprendenti, interessanti, stravaganti e divertenti ma non li puoi toccare.
Mai.
Sono portatori di storie e leggende che però non ti raccontano.
Non c’è un conflitto, un rapporto dialettico, tra il mondo della strada, il raccordo, e il mondo sommerso, sotto il raccordo; non c’è relazione, non c’è potenza che scaturisca da questa connessione, ed è per questo che allora ho bisogno del racconto, delle storie.
Non sono un fanatico delle storie, tantomeno un militante oltranzista della tensione drammatica, t’immagini, ma in assenza di queste ho bisogno di qualcos’altro per sorreggere queste elegantissime pennellate.
Come ne “La vita di Adele” l’assenza di una storia forte e di una tensione drammatica erano ben sorrette da un ritratto meraviglioso, così anche in “Sacro Gra” e in “Below sea level” c’è poca storia ma in questo caso manca anche quel talentuoso modo di ritrarre un personaggio.
Tutte le volte che leggo qualcosa che riguarda i film di Rosi rimango sempre sorpreso da quanto egli indugi nel sottolineare che per fare quel documentario ha impiegato quattro, cinque, sei anni, e lo invidio e mi dispero.
Però poi mi dico: con tutto quel tempo che hai passato a conoscere i personaggi, capire il rapporto tra il soggetto e il territorio, prendere confidenza con la realtà circostante, mettere le persone a proprio agio, solo gli ultimi quindici giorni ho tirato fuori la macchina da presa ecc…
Ecco dicevo, dopo tutto questo tempo, questi personaggi non potevi raccontarmeli un po’ meglio?
Anche perché a me Gianfranco, i tuoi personaggi piacciono e anche parecchio: piace il palmologo, piacciono il principe e l’anguillaro, il padre e la figlia che parlano forbito, e mi piacciono anche i tossici che delirano in “Below sea level”, e ti dirò di più, piace pure il barcarolo di “Boatman”; e poi tutti quei posti bellissimi, l’India, Slab city (ci sono stato apposta), “il sotto” del grande raccordo anulare, pensa te.
Però Gianfranco lasciatelo dire, qualcosina in più su questi personaggi potevi anche dircelo.
Ho preferito “Below sea level” a “Sacro Gra”, dove l’ambiente stesso diventa il drammatico: Slab city è un accampamento-città nel quale vivono migliaia di persone, l’ultimo posto libero d’America, nel quale si sono rifugiati molti di quelli che non avevano più niente, l’unico posto negli Usa dove poter fermare l’auto e non pagare manco un dollaro; non c’è acqua e non c’è luce e sei in mezzo a quel deserto e vicino a quel lago.
In “Sacro Gra” invece i personaggi non sono un mondo ma tante piccole isole.
L’ambiente non possiede lo strazio di quel lago di morte, ma soltanto la prerogativa di essere proprio li, qualche metro sotto l’autostrada urbana più lunga d’Europa, sulla quale milioni di macchine e milioni di storie passano il tempo ferme in coda per parcheggiarsi a lavoro più tardi, proprio mentre poco più sotto, chi lo avrebbe mai detto, un palmologo armato di sonda e di cuffie ascolta cosa dicono le palme.
"Sacro Gra" ha vinto il Leone d'Oro alla mostra del cinema di Venezia del 2013
"Below sea level" dopo aver partecipato a una miriade di festival e aver portato a casa altrettanti premi, tra cui il Gran Prix del Cinèma du Rèel a Parigi, non è mai stato proiettato negli Stati Uniti.
Veniamo alle votazioni che risulteranno dalla media dei due i film:
Tre pallette
Tre stellette
E’ un sei e mezzo per il leone dorato
Di Lorenzo Bechi
Ecco i trailer:
Recensione dal mio bagno n.6
"La vita di Adele"
di Abdellatif Kechiche
Sceneggiatura: Abdellatif Kechiche, Ghalia Lacroix
Con: Adele Exarchopolos, Lea Seidoux, Salim Kechiouche, Mona Walravens, Jeremie Laheuerte
A vedere La palma d’oro ci vado di venerdì pomeriggio, con qualche vecchia e pochi altri, talmente pochi che posso tranquillamente contarli e infatti lo faccio e siamo otto.
L’infinito.
Siamo ancora una volta al cinema Principe di Firenze, uno dei tanti che un tempo era della famiglia Cecchi Gori e che ora non lo è più, proprio come quella grande Fiorentina e lui in piedi in balaustra, Batistuta e le ciliegine, lo zafferano e la Marini.
Il mio amico Pipe siede accanto a me, non mi dice niente prima che si spengano le luci e il film inizi, ma io leggo nei suoi occhi una certa titubanza nei confronti del film, un film francese.
Purtroppo è così, non ci piove, il cinema francese è un colosso e in quanto tale puoi solo amarlo o disprezzarlo in toto, più spesso lo si detesta e non è difficile capirne il perché. Io personalmente non nutro nei suoi confronti nessuna avversione, anzi lo apprezzo. Mi piacciono i film degli anni ‘60 e ‘70, quelli della Novelle Vague per intendersi, quelli degli sguardi in macchina e Brigitte Bardot, Anna Karina e Jean Pierre Leaud, quelli dei caffè parigini, dei Godard, dei Truffaut, dei Rohmer e Belmondo, un cinema a volte nuovo e rivoluzionario, a volte militante e autoreferenziale e a volte letterario e detestabile.
Io odio giusto “Jule e Jim” e i loro trenini di merda; questo mi sento di dirlo, ma per il resto ho grande affetto per Godard ed i suoi amici, che il cinema lo pensavano e lo scrivevano, lo giravano e lo montavano, lo facevano con le loro mani.
E apprezzo il cinema francese di oggi che ha il merito di provarci, di inventare e di esistere, a differenza del cinema italiano che vivacchia e dice poco.
Ho solo un problema: Jean Reno.
Quello di Leon e dei “Fiumi di porpora” per capirsi, di “Nikita” e “La pantera rosa”.
Io Jean Reno non lo posso proprio vedere, nutro nei suoi confronti quello stesso disprezzo che tanti hanno per il cinema francese in toto; mi viene voglia di spaccargli la faccia tutte le volte che lo vedo: supponente, subdolo, arrogante e anche un po’ sfigato. Non ce la posso fare.
Anche Gerard Depardieu non scherza, ma almeno è sincero e si butta in fuori, non come Reno.
Poveraccio.
Prima di parlare della Palma d’oro, sento il dovere di fare un’altra precisazione: c’è chi crede che un film sia fatto di trama, di storia, d’intreccio e poco altro; ecco io non faccio parte di questa categoria di persone, anzi credo che la storia possa essere secondaria qualora il film con forza si appoggi su altre cose, il personaggio ad esempio, la situazione, la struttura e il linguaggio.
“La vita di Adele” non è un film dall’intreccio formidabile, non è quel genere di film.
“La vita di Adele” è un ritratto di un personaggio. Ed è un bellissimo ritratto.
Adele è una ragazza di Lille che frequenta ancora il liceo: il gruppo dei pari, la scoperta della sessualità, l’invidia e le gelosie subito si manifestano portandoci per mano dentro un romanzo di formazione.
Poi arriva Emma: una giovane pittrice e dai capelli blu. E scoppia l’amore.
Adele è alle prime armi mentre Emma, più grande, è già esperta e navigata.
E’ un amore giovanile e omosessuale tra due ragazze bellissime e diverse, per età, estrazione sociale, ambizioni ed emancipazione.
Il film è girato benissimo: è un film di primissimi piani “La vita di Adele”, un film di dettagli. Ed è proprio grazie a questi dettagli che io ritengo che l’opera sia un capolavoro.
Kechiche racconta di avere scelto Adele (Adèle Exarchoupolos) dopo averla vista al bar mentre mangiava una brioche! E questo non è un caso: la fissità orale in cui è ancora avvolto il personaggio di Adele, è quella stessa che la rende desiderosa di divorare esperienze, piatti di spaghetti e il sesso di Emma (Lèa Seidoux).
Siamo dalle parti di Freud tanto per capirsi, anche se Kechiche in modo didascalico e per la seconda volta nei suoi film (“La schivata”) ci rompe le scatole con Marivaux.
E’ un film bellissimo “La vita di Adele” perché intimo e sentito: la vicinanza col personaggio e il processo di immedesimazione sono favoriti dalla macchina a mano e dall’indugiare costante di quei piani stretti su quelle bocche, quei corpi e quei sessi.
Un film a focale lunga e a mano libera.
A tratti è possibile sentire il respiro di Adele, sentirne i pensieri, il sapore degli spaghetti che lei stessa divora e dentro ai quali tutta si inzuppa, farne proprio il fastidio e il prurito di quei capelli sconvolti, che vivono, si muovono e ballano con lei, e noi con loro.
Il suo disorientamento e il suo entusiasmo vorace sono entrambi raccontati da quella bocca, quasi una creatura a sè stante, a tratti immobile e perplessa a tratti famelica di vita, di spaghetti e di sesso.
E’ un film orale c’è poco da fare, ed è magistrale l’idea di Kechiche di raccontare l’amore saffico girando un film di tre ore su una bocca.
Ecco questa è una trovata francese.
C’è qualcosa che non mi è piaciuto però: il rozzo contrasto tra le famiglie delle due ragazze, più modesti e conservatori i genitori di Adele e più ricchi e insopportabilmente progressisti quelli di Emma, e poi quegli amici artisti e radical chic di Emma e tutti quei discorsi sull’arte e la funzione dell’artista, che fastidio.
Ecco forse queste grandi dicotomie del mondo potevano essere rappresentate un po’ meglio anche se capisco che il fatto di raccontare in maniera così rozza due mondi in conflitto, sia certamente una scelta dell’autore, che però personalmente trovo un po’rozza e di dubbio gusto. Gli stereotipi sono un’arma a doppio taglio e in un film non si deve mai concedere allo spettatore il fastidio e l’imbarazzo ma piuttosto l’odio e l’amore, lo schifo e il disprezzo.
La prestazione delle due attrici è sorprendente.
La diciannovenne Exarchopolos è un miracolo attoriale. Il modo in cui riesce a raccontarci il passare degli anni è impressionante: a tratti sembra di assistere a uno studio sociologico longitudinale (l’esame di statistica che ho dato sei volte a qualcosa è servito) svolto nell’arco di cinque anni sulla vita della bella Adele; un documentario insomma, e invece no, è sempre lei e ha sempre diciannove anni e si parla di fiction.
“…Il film è lungo, troppo lungo, e poi quella scena di sesso…” tutti che ripetono questa frase: nonne, mamme, Nino, Daniele e la Samanta del bar qui sotto, l’impiegata delle poste centrali, i blogger , gli uomini della strada e i professionisti insospettabili.
Ma basta per cortesia!
“…se lo dicono tutti ci sarà pure qualcosa di vero, che dici...?”
Sicuramente il film è lungo.
Lunghissimo.
Cristo santo dura 3 ore! Basta leggere.
E sicuramente quella scena di sesso è interminabile, mette in imbarazzo, logora; ma mi chiedo che senso abbia passare intere serate a ripetere soltanto queste due cose? Prendiamone atto e parliamo d’altro o cerchiamo di dire delle cose un tantino più interessanti, ad esempio partendo dal chiedersi perché il film sia così lungo e perché le scene di sesso sono così insistite, e come hanno fatto a realizzarle, e se è veramente così il sesso tra due donne, e cosa ne pensano le lesbiche.
Dietro di me e il mio amico Pipe, eccitati e scossi dalla scena di sesso, bisbigliano un branco di giovani nonne.
Sono sconvolte.
Imbarazzate.
Inorridite.
Schifate. E Invidiose.
Chissà se avevano mai visto il sesso omosessuale, mi chiedo.
Chissà se hanno mai parlato tra di loro, davanti a un teino e tre biscotti di come scopano due donne?
Bene, adesso lo hanno fatto.
E lo faranno.
E hanno visto.
E lo sanno.
Solo un’ultima cosa: il sesso nel film purtroppo non è vero, è simulato, sono state usate delle tute speciali, tipo una seconda pelle, le stesse usate da Trier in alcune scene di "Nynphomaniac", ma purtroppo dicono che sarà un film che non vedremo mai.
I genitali delle ragazze sono falsi, sono stati ricostruiti in carta pesta, sono protesi. Pensa te.
Adesso saranno più tranquille penso, quelle giovani nonne mentre sorseggiano il teino e mangiano i biscotti.
Premio FIPRESCI e Palma d’oro al festival di Cannes del 2013
Ecco le pagelle:
Quattro pallette
Cinque stellette
E’ un nove meno meno per il vecchio Kechiche
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer
L’infinito.
Siamo ancora una volta al cinema Principe di Firenze, uno dei tanti che un tempo era della famiglia Cecchi Gori e che ora non lo è più, proprio come quella grande Fiorentina e lui in piedi in balaustra, Batistuta e le ciliegine, lo zafferano e la Marini.
Il mio amico Pipe siede accanto a me, non mi dice niente prima che si spengano le luci e il film inizi, ma io leggo nei suoi occhi una certa titubanza nei confronti del film, un film francese.
Purtroppo è così, non ci piove, il cinema francese è un colosso e in quanto tale puoi solo amarlo o disprezzarlo in toto, più spesso lo si detesta e non è difficile capirne il perché. Io personalmente non nutro nei suoi confronti nessuna avversione, anzi lo apprezzo. Mi piacciono i film degli anni ‘60 e ‘70, quelli della Novelle Vague per intendersi, quelli degli sguardi in macchina e Brigitte Bardot, Anna Karina e Jean Pierre Leaud, quelli dei caffè parigini, dei Godard, dei Truffaut, dei Rohmer e Belmondo, un cinema a volte nuovo e rivoluzionario, a volte militante e autoreferenziale e a volte letterario e detestabile.
Io odio giusto “Jule e Jim” e i loro trenini di merda; questo mi sento di dirlo, ma per il resto ho grande affetto per Godard ed i suoi amici, che il cinema lo pensavano e lo scrivevano, lo giravano e lo montavano, lo facevano con le loro mani.
E apprezzo il cinema francese di oggi che ha il merito di provarci, di inventare e di esistere, a differenza del cinema italiano che vivacchia e dice poco.
Ho solo un problema: Jean Reno.
Quello di Leon e dei “Fiumi di porpora” per capirsi, di “Nikita” e “La pantera rosa”.
Io Jean Reno non lo posso proprio vedere, nutro nei suoi confronti quello stesso disprezzo che tanti hanno per il cinema francese in toto; mi viene voglia di spaccargli la faccia tutte le volte che lo vedo: supponente, subdolo, arrogante e anche un po’ sfigato. Non ce la posso fare.
Anche Gerard Depardieu non scherza, ma almeno è sincero e si butta in fuori, non come Reno.
Poveraccio.
Prima di parlare della Palma d’oro, sento il dovere di fare un’altra precisazione: c’è chi crede che un film sia fatto di trama, di storia, d’intreccio e poco altro; ecco io non faccio parte di questa categoria di persone, anzi credo che la storia possa essere secondaria qualora il film con forza si appoggi su altre cose, il personaggio ad esempio, la situazione, la struttura e il linguaggio.
“La vita di Adele” non è un film dall’intreccio formidabile, non è quel genere di film.
“La vita di Adele” è un ritratto di un personaggio. Ed è un bellissimo ritratto.
Adele è una ragazza di Lille che frequenta ancora il liceo: il gruppo dei pari, la scoperta della sessualità, l’invidia e le gelosie subito si manifestano portandoci per mano dentro un romanzo di formazione.
Poi arriva Emma: una giovane pittrice e dai capelli blu. E scoppia l’amore.
Adele è alle prime armi mentre Emma, più grande, è già esperta e navigata.
E’ un amore giovanile e omosessuale tra due ragazze bellissime e diverse, per età, estrazione sociale, ambizioni ed emancipazione.
Il film è girato benissimo: è un film di primissimi piani “La vita di Adele”, un film di dettagli. Ed è proprio grazie a questi dettagli che io ritengo che l’opera sia un capolavoro.
Kechiche racconta di avere scelto Adele (Adèle Exarchoupolos) dopo averla vista al bar mentre mangiava una brioche! E questo non è un caso: la fissità orale in cui è ancora avvolto il personaggio di Adele, è quella stessa che la rende desiderosa di divorare esperienze, piatti di spaghetti e il sesso di Emma (Lèa Seidoux).
Siamo dalle parti di Freud tanto per capirsi, anche se Kechiche in modo didascalico e per la seconda volta nei suoi film (“La schivata”) ci rompe le scatole con Marivaux.
E’ un film bellissimo “La vita di Adele” perché intimo e sentito: la vicinanza col personaggio e il processo di immedesimazione sono favoriti dalla macchina a mano e dall’indugiare costante di quei piani stretti su quelle bocche, quei corpi e quei sessi.
Un film a focale lunga e a mano libera.
A tratti è possibile sentire il respiro di Adele, sentirne i pensieri, il sapore degli spaghetti che lei stessa divora e dentro ai quali tutta si inzuppa, farne proprio il fastidio e il prurito di quei capelli sconvolti, che vivono, si muovono e ballano con lei, e noi con loro.
Il suo disorientamento e il suo entusiasmo vorace sono entrambi raccontati da quella bocca, quasi una creatura a sè stante, a tratti immobile e perplessa a tratti famelica di vita, di spaghetti e di sesso.
E’ un film orale c’è poco da fare, ed è magistrale l’idea di Kechiche di raccontare l’amore saffico girando un film di tre ore su una bocca.
Ecco questa è una trovata francese.
C’è qualcosa che non mi è piaciuto però: il rozzo contrasto tra le famiglie delle due ragazze, più modesti e conservatori i genitori di Adele e più ricchi e insopportabilmente progressisti quelli di Emma, e poi quegli amici artisti e radical chic di Emma e tutti quei discorsi sull’arte e la funzione dell’artista, che fastidio.
Ecco forse queste grandi dicotomie del mondo potevano essere rappresentate un po’ meglio anche se capisco che il fatto di raccontare in maniera così rozza due mondi in conflitto, sia certamente una scelta dell’autore, che però personalmente trovo un po’rozza e di dubbio gusto. Gli stereotipi sono un’arma a doppio taglio e in un film non si deve mai concedere allo spettatore il fastidio e l’imbarazzo ma piuttosto l’odio e l’amore, lo schifo e il disprezzo.
La prestazione delle due attrici è sorprendente.
La diciannovenne Exarchopolos è un miracolo attoriale. Il modo in cui riesce a raccontarci il passare degli anni è impressionante: a tratti sembra di assistere a uno studio sociologico longitudinale (l’esame di statistica che ho dato sei volte a qualcosa è servito) svolto nell’arco di cinque anni sulla vita della bella Adele; un documentario insomma, e invece no, è sempre lei e ha sempre diciannove anni e si parla di fiction.
“…Il film è lungo, troppo lungo, e poi quella scena di sesso…” tutti che ripetono questa frase: nonne, mamme, Nino, Daniele e la Samanta del bar qui sotto, l’impiegata delle poste centrali, i blogger , gli uomini della strada e i professionisti insospettabili.
Ma basta per cortesia!
“…se lo dicono tutti ci sarà pure qualcosa di vero, che dici...?”
Sicuramente il film è lungo.
Lunghissimo.
Cristo santo dura 3 ore! Basta leggere.
E sicuramente quella scena di sesso è interminabile, mette in imbarazzo, logora; ma mi chiedo che senso abbia passare intere serate a ripetere soltanto queste due cose? Prendiamone atto e parliamo d’altro o cerchiamo di dire delle cose un tantino più interessanti, ad esempio partendo dal chiedersi perché il film sia così lungo e perché le scene di sesso sono così insistite, e come hanno fatto a realizzarle, e se è veramente così il sesso tra due donne, e cosa ne pensano le lesbiche.
Dietro di me e il mio amico Pipe, eccitati e scossi dalla scena di sesso, bisbigliano un branco di giovani nonne.
Sono sconvolte.
Imbarazzate.
Inorridite.
Schifate. E Invidiose.
Chissà se avevano mai visto il sesso omosessuale, mi chiedo.
Chissà se hanno mai parlato tra di loro, davanti a un teino e tre biscotti di come scopano due donne?
Bene, adesso lo hanno fatto.
E lo faranno.
E hanno visto.
E lo sanno.
Solo un’ultima cosa: il sesso nel film purtroppo non è vero, è simulato, sono state usate delle tute speciali, tipo una seconda pelle, le stesse usate da Trier in alcune scene di "Nynphomaniac", ma purtroppo dicono che sarà un film che non vedremo mai.
I genitali delle ragazze sono falsi, sono stati ricostruiti in carta pesta, sono protesi. Pensa te.
Adesso saranno più tranquille penso, quelle giovani nonne mentre sorseggiano il teino e mangiano i biscotti.
Premio FIPRESCI e Palma d’oro al festival di Cannes del 2013
Ecco le pagelle:
Quattro pallette
Cinque stellette
E’ un nove meno meno per il vecchio Kechiche
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer
Recensione dal mio bagno n.5
"La gabbia dorata"
Di Diego Quemada-Diez
Sceneggiatura: Diego Quemada-Diez, Lucia Carreras, Gibran Portela
Con: Brandon Lopez, Rodolfo Dominguez, Karen Martinez
La Mesillia è una piccola città attraversata dal confine che separa il Messico dal Guatemala, il terzo dal quarto mondo.
Io quel confine l’ho attraversato dieci anni fa, col mio amico Giovanni di Signa, su un pulmino di vagabondi alla ricerca di avventure psichedeliche e di esperienze memorabili.
Proprio come nei primi film di Salvatores, quando Diego fumava come un turco, Bisio aveva i capelli lunghi,non è vero, e Gigio Alberti faceva il nudista sugli scogli di Ginostra.
Ma come direbbe Lucarelli questa è un’altra storia, un altro film .
Il confine tra il Messico e il Guatemala è un grande bazar: confesso di non essere un grande esperto di confini, anche se detto così non suona male, ma insomma pensando al confine tra il Messico e il Guatemala nel cuore del Chapas, mi immaginavo guardie armate, fili spinati, contrabbandieri, fricchettoni delle onlus, zapatisti in passamontagna, paramilitari, smeraldi di cocaina, che ne so, una sbarra almeno, i pastori tedeschi che sbavano, qualche mitra spianato, gli sbirri corrotti; insomma non di certo un mercato gigante all’interno del quale non capisci se stai comprando un'amaca in Messico o una mini piramide in Guatemala.
Tanto i dollari piacciono a tutti e chi se ne frega in che nazione sei.
Ai lati della strada una pletora di uomini deformi con sei denti messi in croce, il cappello da cowboy e in mano un ventaglio di verdoni proprio come quando ero bambino e davo spettacolo a ramino al circolino con la Susy.
"Sono quelli che ti cambiano i soldi questi tizi con i denti in croce", mi dicono, e poi chissà.
“La gabbia dorata” parla anche di questo.
Di ramino?
No.
Parla di confini e viaggi, di viaggi della speranza, di viaggi di confine.
E’ un road movie, anzi è un “rail movie”, perché più che di strade qui si parla di binari, di treni.
Dei tetti dei treni.
E’ la storia di quattro ragazzetti guatemaltechi, detto così fa quasi ridere, ma questo è un film drammatico, un film serio, di quelli che fanno riflettere e che ti fanno apprezzare la comodità e il calduccio del tuo bagno.
Dicevo, sono due ragazzi e una ragazza, Sara, costretta a nascondere la sua femminilità per essere più al sicuro durante il lungo viaggio, e poi Chauk che in quanto indios non parla mezza parola di spagnolo e quasi non si pronuncia per tutto il film.
E’lui il mio idolo.
Insomma questi quattro giovani guatemaltechi sono costretti a partire, lasciare le loro baracche per andare a cercar fortuna nel paese delle meraviglie: l’America.
Un viaggio della speranza.
E ovviamente va a finire malissimo.
E’ l’esordio nel lungometraggio per Diego Quemada-Diez, regista messicano, già collaboratore di Meirelles, Ken Loach, Inarritu, Oliver Stone e chi più ne ha più ne metta. E il suo film è un’opera di pregio assoluto.
La pellicola si presta a più livelli di lettura.
La trama è bella, attuale, chiara, coinvolgente e toccante.
Il film è girato in super 16, con un approccio documentaristico e la trovata appare assai azzeccata: il verismo che emerge è quello necessario al racconto di una storia tanto toccante quanto vera e di molti.
Per quanto riguarda l’aspetto simbolico e filosofico invece non intendo esprimermi; il tema del viaggio si presta a speculazioni “facilone” e non ho nessuna intenzione di cadere in trappola, basti ricordare che stiamo parlando di un viaggio della speranza, di un viaggio a ostacoli, durante il quale si striscia nei cunicoli, si guadano i fiumi, ti sparano da ogni dove, ti prendono a sciabolate, provano a fregarti in ogni momento.
E si rischia.
E si muore.
Per arrivare dove poi?
Diventare chi?
Fare cosa?
E la terra promessa?
Più che sulla tematica del viaggio appare interessante riflettere sul suo significato, su cosa ci attende al traguardo, su quel sogno.
Ed è questo ciò che il regista intende fare.
E’un film attento e sentito: la macchina da presa indugia sui volti sofferenti dei migranti senza mai calcare la mano. Il film non è mai patetico, pur ricordandoci continuamente ma con mano lieve che questa storia non è la storia dei quattro ragazzi ma è la storia di tanti.
E’ un film asciutto, sobrio, elegante, esteticamente bello, artistico e di regia.
Queimada-Diez dimostra un maturo controllo del mezzo espressivo; è un film solido “La gabbia dorata”, un film sicuro, dal quale emerge chiaramente la competenza narrativa dell’autore e la lucidità delle sue intenzioni.
Il regista dosa sapientemente la macchina a spalla con la macchina fissa, riprende lunghe camminate camminando insieme ai quattro ragazzi, seguendoli e prendendoli per mano e noi con lui.
I dialoghi centellinati godono di un minimalismo d’autore: quando si passano nottate intere sui tetti dei treni c’è poco da dirsi, non giriamoci intorno, e nel film infatti si parla pochissimo.
I giovani attori non sono professionisti ma sono eccezionalmente bravi: riescono a gestire con grazia quasi due ore di film parlando pochissimo e interpretando personaggi dalla forte caratura drammatica; sono storie di violenza, di privazione, di confine; e loro sono giovani, parecchio giovani.
Illuminante una delle scene iniziali nella quale i ragazzi esitano a saltare su un treno in corsa.
Il treno passa.
E loro fermi a guardarlo passare.
Peccato per un paio di scene dai toni un po’troppo yankee nelle quali ci imbattiamo in trafficanti e bande armate: il film gode di un’interezza e di una solidità tali che avrebbe potuto tranquillamente farne a meno, continuando a vibrare nel silenzio di quelle camminate interminabili e nella speranza dipinta su quei volti sferzati dal vento che di tanto in tanto fanno capolino dal tetto di un treno.
Il finale è bellissimo: intenso, simbolico e antiamericano, ma purtroppo non ve lo posso raccontare.
Premio miglior cast al festival di Cannes
Ecco le pagelle:
Quattro pallette
quattro stellette
E’un otto tondo tondo per il vecchio Quemada-Diez
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Io quel confine l’ho attraversato dieci anni fa, col mio amico Giovanni di Signa, su un pulmino di vagabondi alla ricerca di avventure psichedeliche e di esperienze memorabili.
Proprio come nei primi film di Salvatores, quando Diego fumava come un turco, Bisio aveva i capelli lunghi,non è vero, e Gigio Alberti faceva il nudista sugli scogli di Ginostra.
Ma come direbbe Lucarelli questa è un’altra storia, un altro film .
Il confine tra il Messico e il Guatemala è un grande bazar: confesso di non essere un grande esperto di confini, anche se detto così non suona male, ma insomma pensando al confine tra il Messico e il Guatemala nel cuore del Chapas, mi immaginavo guardie armate, fili spinati, contrabbandieri, fricchettoni delle onlus, zapatisti in passamontagna, paramilitari, smeraldi di cocaina, che ne so, una sbarra almeno, i pastori tedeschi che sbavano, qualche mitra spianato, gli sbirri corrotti; insomma non di certo un mercato gigante all’interno del quale non capisci se stai comprando un'amaca in Messico o una mini piramide in Guatemala.
Tanto i dollari piacciono a tutti e chi se ne frega in che nazione sei.
Ai lati della strada una pletora di uomini deformi con sei denti messi in croce, il cappello da cowboy e in mano un ventaglio di verdoni proprio come quando ero bambino e davo spettacolo a ramino al circolino con la Susy.
"Sono quelli che ti cambiano i soldi questi tizi con i denti in croce", mi dicono, e poi chissà.
“La gabbia dorata” parla anche di questo.
Di ramino?
No.
Parla di confini e viaggi, di viaggi della speranza, di viaggi di confine.
E’ un road movie, anzi è un “rail movie”, perché più che di strade qui si parla di binari, di treni.
Dei tetti dei treni.
E’ la storia di quattro ragazzetti guatemaltechi, detto così fa quasi ridere, ma questo è un film drammatico, un film serio, di quelli che fanno riflettere e che ti fanno apprezzare la comodità e il calduccio del tuo bagno.
Dicevo, sono due ragazzi e una ragazza, Sara, costretta a nascondere la sua femminilità per essere più al sicuro durante il lungo viaggio, e poi Chauk che in quanto indios non parla mezza parola di spagnolo e quasi non si pronuncia per tutto il film.
E’lui il mio idolo.
Insomma questi quattro giovani guatemaltechi sono costretti a partire, lasciare le loro baracche per andare a cercar fortuna nel paese delle meraviglie: l’America.
Un viaggio della speranza.
E ovviamente va a finire malissimo.
E’ l’esordio nel lungometraggio per Diego Quemada-Diez, regista messicano, già collaboratore di Meirelles, Ken Loach, Inarritu, Oliver Stone e chi più ne ha più ne metta. E il suo film è un’opera di pregio assoluto.
La pellicola si presta a più livelli di lettura.
La trama è bella, attuale, chiara, coinvolgente e toccante.
Il film è girato in super 16, con un approccio documentaristico e la trovata appare assai azzeccata: il verismo che emerge è quello necessario al racconto di una storia tanto toccante quanto vera e di molti.
Per quanto riguarda l’aspetto simbolico e filosofico invece non intendo esprimermi; il tema del viaggio si presta a speculazioni “facilone” e non ho nessuna intenzione di cadere in trappola, basti ricordare che stiamo parlando di un viaggio della speranza, di un viaggio a ostacoli, durante il quale si striscia nei cunicoli, si guadano i fiumi, ti sparano da ogni dove, ti prendono a sciabolate, provano a fregarti in ogni momento.
E si rischia.
E si muore.
Per arrivare dove poi?
Diventare chi?
Fare cosa?
E la terra promessa?
Più che sulla tematica del viaggio appare interessante riflettere sul suo significato, su cosa ci attende al traguardo, su quel sogno.
Ed è questo ciò che il regista intende fare.
E’un film attento e sentito: la macchina da presa indugia sui volti sofferenti dei migranti senza mai calcare la mano. Il film non è mai patetico, pur ricordandoci continuamente ma con mano lieve che questa storia non è la storia dei quattro ragazzi ma è la storia di tanti.
E’ un film asciutto, sobrio, elegante, esteticamente bello, artistico e di regia.
Queimada-Diez dimostra un maturo controllo del mezzo espressivo; è un film solido “La gabbia dorata”, un film sicuro, dal quale emerge chiaramente la competenza narrativa dell’autore e la lucidità delle sue intenzioni.
Il regista dosa sapientemente la macchina a spalla con la macchina fissa, riprende lunghe camminate camminando insieme ai quattro ragazzi, seguendoli e prendendoli per mano e noi con lui.
I dialoghi centellinati godono di un minimalismo d’autore: quando si passano nottate intere sui tetti dei treni c’è poco da dirsi, non giriamoci intorno, e nel film infatti si parla pochissimo.
I giovani attori non sono professionisti ma sono eccezionalmente bravi: riescono a gestire con grazia quasi due ore di film parlando pochissimo e interpretando personaggi dalla forte caratura drammatica; sono storie di violenza, di privazione, di confine; e loro sono giovani, parecchio giovani.
Illuminante una delle scene iniziali nella quale i ragazzi esitano a saltare su un treno in corsa.
Il treno passa.
E loro fermi a guardarlo passare.
Peccato per un paio di scene dai toni un po’troppo yankee nelle quali ci imbattiamo in trafficanti e bande armate: il film gode di un’interezza e di una solidità tali che avrebbe potuto tranquillamente farne a meno, continuando a vibrare nel silenzio di quelle camminate interminabili e nella speranza dipinta su quei volti sferzati dal vento che di tanto in tanto fanno capolino dal tetto di un treno.
Il finale è bellissimo: intenso, simbolico e antiamericano, ma purtroppo non ve lo posso raccontare.
Premio miglior cast al festival di Cannes
Ecco le pagelle:
Quattro pallette
quattro stellette
E’un otto tondo tondo per il vecchio Quemada-Diez
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Recensione dal mio bagno n.4
"Giovane e bella"
di Francois Ozon
Sceneggiatura: Francois Ozon
Con: Marine Vacth, Charlotte Rampling, Frédéric Pierrot, Géraldine Pailhas, Nathalie Richard, Johan Leysen
Il cinema Odeon di Firenze è forse la sala più bella d’Italia.
Forse d’Europa.
Lo dicono tutti.
Sempre.
Appena qualcuno parla del cinema Odeon, caschi il mondo, parte sempre il solito salamelecco.
Non che io non sia d’accordo, ci mancherebbe, però che noia, tutte le volte che un povero cristo mette piede all’Odeon è costretto a sorbirsi sempre la stessa litania.
E’ sabato e sono le otto.
Nella sala più bella d’Italia, ma che dico d’Europa, trionfa l’inaugurazione del “France Odeon”, il festival del cinema francese che Firenze ogni anno ospita ormai dalla notte dei tempi: i tempi di De Sisti e Chiarugi, Sandro e Tiziano.
Sono seduto in galleria, proprio li dove andavo a sette anni, quando “al cine s’andava a fare il diavolo a quattro” e a vedere “L’Orso”. Quando ancora al cinema si fumava, non è vero, e si tiravano le ciringomme sul capo dei parrucconi giù sotto; e il popcorn era un must e “mettiti con me” e "le pive nel sacco".
Quei tempi la.
Una serata in grande spolvero quella di stasera: tutti i signorotti del cinema fiorentino schierati a coorte, sembrano opliti, le signorotte che stacchettano, poi cinquecentomila hostess che svolazzano in ogni dove, tacchi con le calze, nasi con le cosce.
C’è Silvio nell’aria penso, o poco ci manca.
Tutto è pronto per una serata magica, anzi “splendida” come direbbero loro.
Ma ripeto: manca qualcosa.
Cosa?
Manca Silvio?
No.
Fuochino.
Vicino.
Allora dunque vediamo: siamo a Firenze, il cinema è la sala più bella d’Italia ma che dico d’Europa, i signorotti del cinema tirati a lucido ci sono e sono in posizione, ci hanno anche regalato due ottimi profumi, il cadot si dice, rosa per lei e azzurro per lui,(dio mi fulmini se non è vero), le hostess svolazzano.
E quindi?
Ecco cosa manca.
Guarda!
Eccolo!
Arriva caracollando.
Eccolo!
Grande Matteone, santi i numi, sindaco dei sindaci, zeppola benedetta da Dio, nuovo e rinnovato Fonzy, sputacchiera dell’Acli di Pontassieve, rettore della banana, assaggiatore di bistecche, vendemmia di salive, masticatore di anime.
Eccoti essere umano perfetto e rotondo, tendente al quadrato.
Ti amo megaTeo, te lo giuro.
Eccolo il gigaTeo in tutto il suo splendore: maniche di camicia e ciuffessa d’ordinanza, un tipo che piace alla mia nonna e anche a quella della porta accanto.
“Teomaximo il nipote di chiunque”.
Una scena ignobile: il megaTeo che corricchia per le navate della sala più bella d’Italia ma che dico d’Europa.
Probabilmente ha appena trionfato in qualche corsa campestre oppure deve solo fiondarsi da Gerry Scotti a sbancar Passaparola.
Non lo sapremo mai.
Peccato.
E peccato che non indossi il suo chiodo nero, lucido e pellato, che tra l’altro gli sta da Dio.
Fatto sta che insomma il megaMathew arriva.
Ruzzola sul palco e senza togliere la scena a nessuno, giammai al gigantesco console di Francia, in due minuti netti prende quello che c’è da prendere e se ne va: troppo facile per lui, giusto tre paroline, afferra un regalo, ”ciao ragazzi”, due sputacchi e toglie il disturbo.
Che fastidio.
Menomale che dopo arriva lei: Marine Vacth è un fiore.
E’ quel bellissimo geranio protagonista del film “Giovane e bella” di Francois Ozon: si presenta timida e spettinata, avvolta dentro una pecora, con voce tremolante cerca di nascondersi dietro il console francese gigante, e ci riesce; solo qualche parola, poi si ritrae.
Una prestazione simile a quella prima del sindaco dei sindaci, con la differenza che lei indossava una pecora e lui sembra un maiale.
“Giovane e bella“ esce in Italia proprio mentre su tutti giornali imperversa il caso delle baby squillo romane.
Strano… in fin dei conti il film parla proprio di questo.
Chissà?
Prima l’uovo o la gallina?
Oppure è un caso.
Io credo nel caso.
Il film è bruttino, a tratti insipido, sciapo.
Racconta il percorso di crescita di un’adolescente che più bella non si può: le estati al mare con la famiglia e il primo amore, i contrasti con la madre, il padre non si vede, la ragazza si ribella, una proposta indecente e finisce a far marchette.
Poi la beccano ma non oso dire altro.
Il film dice poco, è una pellicola alla quale non si riesce a credere mai fino in fondo e che non stimola neppure quel voyeurismo al quale in maniera palese strizza l’occhio.
La regia di Ozon infatti, non si distingue né per originalità tantomeno per coerenza.
Non è possibile un processo d’immedesimazione tantomeno il pedinamento del personaggio.
Tutto è esposto in bella vista, il pranzo è servito, pronti a tavola.
Non è un film divertente, non è ironico, non è scioccante, non c’è tensione, non è palloso e non c’è manco un colpo d’ala, che ne so, un momento di straziante bellezza o di straziante bruttezza che per quanto mi riguarda sono la stessa cosa.
Cosa rimane quindi?
Poco.
Il personaggio della madre poi è al limite della sopportabilità: una via di mezzo tra una delle peggiori mamme di mucciniana memoria e una pessima Morante che poi sono la stessa cosa anche loro.
Anche noi uomini, poveracci, non ne usciamo tanto bene: piccoli esseri in preda agl’ormoni pronti a perdere il senno al primo sguardo di una bella sedicenne.
Non siamo così vero?
Che dite?
Sono tutte macchiette questi maschi.
Poveracci.
La mia simpatia non a caso va a Frederic Pierrot, che nel film interpreta il compagno della madre di Marine, un uomo di marzapane, smidollato a tal punto da prendere sotto gamba anche gli scandali riguardanti la mini puttana.
Il vecchio Pierrot addirittura, maschio alfa nella testa del regista, rischia di scivolare su una buccia di banana gigante al primo sguardo da cerbiatto che la figliastra gli rivolge.
Poveretto.
“Giovane e bella” è quasi un film femminista ma fatto da un maschio. Secondo me.
Lei invece, Marine, è bellissima e questo ci basta.
Cosa c’è da salvare?
Credo niente, è un film piuttosto bruttino e credo che la contemporaneità in sala con “La vita di Adele” e le mini troie in tribunale non gli abbia giovato poi tanto.
Patetico il cameo finale di un ancor bella Charlotte Rampling che funge da specchio e si specchia con “la giovane e bella” Marine.
Si accendono le luci, la sala più bella d’Italia ma che dico d’Europa, trionfa nel suo splendore.
Afferro la busta col mio cadot, il profumo azzurro per lui, e raggiungo il vecchio Bruno, amico di sempre, qualche fila più in basso, il quale nel frattempo, al sedicesimo del primo tempo è arrivato di soppiatto.
Ora gli chiedo cosa ne pensa del film: lui che ama la Francia e studia il francese.
Chissà cosa mi dice?
Ecco le pagelle:
Pallette: una
Stellette: una
E’un bel quattro e mezzo per il vecchio Ozon
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Forse d’Europa.
Lo dicono tutti.
Sempre.
Appena qualcuno parla del cinema Odeon, caschi il mondo, parte sempre il solito salamelecco.
Non che io non sia d’accordo, ci mancherebbe, però che noia, tutte le volte che un povero cristo mette piede all’Odeon è costretto a sorbirsi sempre la stessa litania.
E’ sabato e sono le otto.
Nella sala più bella d’Italia, ma che dico d’Europa, trionfa l’inaugurazione del “France Odeon”, il festival del cinema francese che Firenze ogni anno ospita ormai dalla notte dei tempi: i tempi di De Sisti e Chiarugi, Sandro e Tiziano.
Sono seduto in galleria, proprio li dove andavo a sette anni, quando “al cine s’andava a fare il diavolo a quattro” e a vedere “L’Orso”. Quando ancora al cinema si fumava, non è vero, e si tiravano le ciringomme sul capo dei parrucconi giù sotto; e il popcorn era un must e “mettiti con me” e "le pive nel sacco".
Quei tempi la.
Una serata in grande spolvero quella di stasera: tutti i signorotti del cinema fiorentino schierati a coorte, sembrano opliti, le signorotte che stacchettano, poi cinquecentomila hostess che svolazzano in ogni dove, tacchi con le calze, nasi con le cosce.
C’è Silvio nell’aria penso, o poco ci manca.
Tutto è pronto per una serata magica, anzi “splendida” come direbbero loro.
Ma ripeto: manca qualcosa.
Cosa?
Manca Silvio?
No.
Fuochino.
Vicino.
Allora dunque vediamo: siamo a Firenze, il cinema è la sala più bella d’Italia ma che dico d’Europa, i signorotti del cinema tirati a lucido ci sono e sono in posizione, ci hanno anche regalato due ottimi profumi, il cadot si dice, rosa per lei e azzurro per lui,(dio mi fulmini se non è vero), le hostess svolazzano.
E quindi?
Ecco cosa manca.
Guarda!
Eccolo!
Arriva caracollando.
Eccolo!
Grande Matteone, santi i numi, sindaco dei sindaci, zeppola benedetta da Dio, nuovo e rinnovato Fonzy, sputacchiera dell’Acli di Pontassieve, rettore della banana, assaggiatore di bistecche, vendemmia di salive, masticatore di anime.
Eccoti essere umano perfetto e rotondo, tendente al quadrato.
Ti amo megaTeo, te lo giuro.
Eccolo il gigaTeo in tutto il suo splendore: maniche di camicia e ciuffessa d’ordinanza, un tipo che piace alla mia nonna e anche a quella della porta accanto.
“Teomaximo il nipote di chiunque”.
Una scena ignobile: il megaTeo che corricchia per le navate della sala più bella d’Italia ma che dico d’Europa.
Probabilmente ha appena trionfato in qualche corsa campestre oppure deve solo fiondarsi da Gerry Scotti a sbancar Passaparola.
Non lo sapremo mai.
Peccato.
E peccato che non indossi il suo chiodo nero, lucido e pellato, che tra l’altro gli sta da Dio.
Fatto sta che insomma il megaMathew arriva.
Ruzzola sul palco e senza togliere la scena a nessuno, giammai al gigantesco console di Francia, in due minuti netti prende quello che c’è da prendere e se ne va: troppo facile per lui, giusto tre paroline, afferra un regalo, ”ciao ragazzi”, due sputacchi e toglie il disturbo.
Che fastidio.
Menomale che dopo arriva lei: Marine Vacth è un fiore.
E’ quel bellissimo geranio protagonista del film “Giovane e bella” di Francois Ozon: si presenta timida e spettinata, avvolta dentro una pecora, con voce tremolante cerca di nascondersi dietro il console francese gigante, e ci riesce; solo qualche parola, poi si ritrae.
Una prestazione simile a quella prima del sindaco dei sindaci, con la differenza che lei indossava una pecora e lui sembra un maiale.
“Giovane e bella“ esce in Italia proprio mentre su tutti giornali imperversa il caso delle baby squillo romane.
Strano… in fin dei conti il film parla proprio di questo.
Chissà?
Prima l’uovo o la gallina?
Oppure è un caso.
Io credo nel caso.
Il film è bruttino, a tratti insipido, sciapo.
Racconta il percorso di crescita di un’adolescente che più bella non si può: le estati al mare con la famiglia e il primo amore, i contrasti con la madre, il padre non si vede, la ragazza si ribella, una proposta indecente e finisce a far marchette.
Poi la beccano ma non oso dire altro.
Il film dice poco, è una pellicola alla quale non si riesce a credere mai fino in fondo e che non stimola neppure quel voyeurismo al quale in maniera palese strizza l’occhio.
La regia di Ozon infatti, non si distingue né per originalità tantomeno per coerenza.
Non è possibile un processo d’immedesimazione tantomeno il pedinamento del personaggio.
Tutto è esposto in bella vista, il pranzo è servito, pronti a tavola.
Non è un film divertente, non è ironico, non è scioccante, non c’è tensione, non è palloso e non c’è manco un colpo d’ala, che ne so, un momento di straziante bellezza o di straziante bruttezza che per quanto mi riguarda sono la stessa cosa.
Cosa rimane quindi?
Poco.
Il personaggio della madre poi è al limite della sopportabilità: una via di mezzo tra una delle peggiori mamme di mucciniana memoria e una pessima Morante che poi sono la stessa cosa anche loro.
Anche noi uomini, poveracci, non ne usciamo tanto bene: piccoli esseri in preda agl’ormoni pronti a perdere il senno al primo sguardo di una bella sedicenne.
Non siamo così vero?
Che dite?
Sono tutte macchiette questi maschi.
Poveracci.
La mia simpatia non a caso va a Frederic Pierrot, che nel film interpreta il compagno della madre di Marine, un uomo di marzapane, smidollato a tal punto da prendere sotto gamba anche gli scandali riguardanti la mini puttana.
Il vecchio Pierrot addirittura, maschio alfa nella testa del regista, rischia di scivolare su una buccia di banana gigante al primo sguardo da cerbiatto che la figliastra gli rivolge.
Poveretto.
“Giovane e bella” è quasi un film femminista ma fatto da un maschio. Secondo me.
Lei invece, Marine, è bellissima e questo ci basta.
Cosa c’è da salvare?
Credo niente, è un film piuttosto bruttino e credo che la contemporaneità in sala con “La vita di Adele” e le mini troie in tribunale non gli abbia giovato poi tanto.
Patetico il cameo finale di un ancor bella Charlotte Rampling che funge da specchio e si specchia con “la giovane e bella” Marine.
Si accendono le luci, la sala più bella d’Italia ma che dico d’Europa, trionfa nel suo splendore.
Afferro la busta col mio cadot, il profumo azzurro per lui, e raggiungo il vecchio Bruno, amico di sempre, qualche fila più in basso, il quale nel frattempo, al sedicesimo del primo tempo è arrivato di soppiatto.
Ora gli chiedo cosa ne pensa del film: lui che ama la Francia e studia il francese.
Chissà cosa mi dice?
Ecco le pagelle:
Pallette: una
Stellette: una
E’un bel quattro e mezzo per il vecchio Ozon
Di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Recensione dal mio bagno n.3
"Miss Violence"
di Alexandros Avranas
Sceneggiatura: Alexandros Avranas; Kostas Peroulis
Con: Themis Panou, Eleni Roussinou, Reni Pittaki, Sissy Toumasi
Uscito dal cinema Mignon di Roma non sapevo da che parte andare.
Il cinema Mignon è un piccolo cinema, anche perché altrimenti credo lo avrebbero chiamato in un altro modo, ma più che piccolo direi che è stretto e lungo, di quei cinema nei quali entri da una parte e esci da un’altra e se poi non sei del posto non sai più dove andare.
Mentre cammino in cerca di un segno, un cartello, un’indicazione che mi riporti sulla retta via inizio a pensare non tanto al film quanto al suo titolo.
La cosa mi disturba: è lo stesso identico pensiero che avevo fatto due ore prima mentre cercavo il cinema Mignon e del film non sapevo niente.
“Miss Violence”pensavo “Miss Violence”, la mia fantasia non poteva altro che sussurrarmi occhi a mandorla, nunchaku, tecnologie al potere, armi traslucide e donne Rambo.
Non so perché.
Anzi lo so.
“Lady vendetta”, “Mr. vendetta”, poi?
E’ quel mondo di titoli li. Non ci piove.
Roba di Korea, roba cinese, giapponese, che ne so di Hong Kong magari: le katane di Kitano, i lancia razzi di John Woo, i fotogrammi marmorei di Kim Ki Duk, boh, che ne so, i dandy di Wong Kar-way?
E invece no.
Niente. Niente da fare.
Siamo in Grecia. Siamo in una casa greca e di greci.
Si sta consumando l’undicesimo compleanno della piccola Alkmini.
Una famiglia del ceto medio: due donne, una giovane e una vecchia, una ragazza, un bambino, una bambina e un uomo di mezza età.
E poi la piccola Alkmini, la festeggiata.
Sembra di essere dentro una polaroid di fine anni ’70 e la Polaroid infatti c’è ma siamo ai giorni nostri.
Il problema è che a me la Grecia fa sempre quell’effetto li, lo stesso della Spagna al di fuori di Madrid, Barcellona e Valencia, quella sensazione di trovarmi sempre quattordici anni indietro nel tempo; se poi qualcuno non ci crede provi ad andare a Valladolid.
Ma non è così. E’ colpa dei bege che dipingono la pellicola. E' merito di una sapiente direzione della fotografia.
E poi comunque non è che se la passano benissimo da quelle parti e obbiettivamente manco noi.
Si festeggiano gli undici anni di Alkmini, la più piccola: lei sorride, i cappellini sulle teste, le candeline a forma di undici su una torta carica di zuccheri, musica orrenda, qualche ballo goffo e improvvisato, un’atmosfera inquietante. Mancano solo le trombette.
Fin da subito Avranas non si nasconde e prepara sapientemente il terreno a quel che accadrà: la luce, la scenografia, le facce, i cappellini e le trombette che non ci sono ci portano per mano verso qualcosa che sta per succedere e per rompere la pace di questa scena edulcorata.
La piccola Alkmini è affacciata al balcone sorridente.
Panoramica verticale che dal cielo plana sulla strada davanti al condominio.
Alkmini si è schiantata al suolo.
Grandioso.
In questa prima sequenza si racchiude tutta la maestria della regia di Avranas: il meccanismo della suspance funziona al rallentatore.
Il film stesso è un unico e lungo momento propedeutico a qualcosa che accade nell'azione, sta per accadere, che dovrà accadere e accadrà.
E accade anche quello che non dovrebbe accadere.
Perchè detto così sembrerebbe di parlare di un film prevedibile ma non è così, perchè il film disturba e sorprende pur portando lo spettatore per mano. E il finale è un colpo di scena, anch'esso al rallentatore.
Un film che sarebbe piaciuto a Hitchcock ma anche a Ferreri.
E’ la storia di una famiglia, di una famiglia patriarcale sui generis, nella quale accade di tutto.
Ma proprio di tutto.
E’ la storia di quattro mura.
"Miss Violence" è un film domestico.
Il regista ci porta raramente al di fuori dell’inferno delle quattro pareti e la trovata è tanto saggia quanto scontata: il clima claustrofobico della casa borghese ben funziona nel raccontare la violenza e i segreti che si nascondono dietro un'apparente quiete, sacra e reazionaria.
E’ uno sguardo terrorizzato e che terrorizza quello di Avranas.
Nel suo mondo sembrano non esserci vittime e carnefici ma solo carnefici.
La sua è una visione terribilmente intelligente e attuale, è una visione coraggiosa che ha il merito di donarsi così come lui stesso la percepisce: in modo algido, gelido e sacrosanto.
Siamo tutti colpevoli.
Siamo tutti colpevoli: giovani e vecchi, nonne e bambini.
Nessun’alibi, nessun scampo.
Superba la direzione degli attori.
Superbi gli attori stessi.
Incredibili i due piccoli bambini capaci di sfidarsi in un duello di schiaffi degno dei migliori Butch Cassidy e Billy the kid.
Scenografia padrona in un film sapientemente dipinto dalla Signora Mythilinaiou, che con l’uso dei toni marroni e un’illuminazione appena accennata crea un’atmosfera rarefatta e stantia, vetusta e clericale, che accenna continuamente a quei segreti celati.
Un altro film che mette in discussione l’apparenza, che svela cosa c’è dietro quei mondi orrendi e di plastica, fatti di Polaroid, pasticcini, famiglie che si amano e cuori giganti.
Dietro a quei mondi di trombette.
C’è solo una cosa ancora adesso, dopo che ho visto il film, che continua a tormentarmi: “Miss Violence, Miss Violence”…
Che titolo di merda.
Leone d’Argento a Venezia
Coppa Volpi a Themis Panou, il patriarca
Veniamo alle pagelle:
quattro pallette
quattro stellette
E’un 8 e mezzo per il vecchio Avranas
di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Il cinema Mignon è un piccolo cinema, anche perché altrimenti credo lo avrebbero chiamato in un altro modo, ma più che piccolo direi che è stretto e lungo, di quei cinema nei quali entri da una parte e esci da un’altra e se poi non sei del posto non sai più dove andare.
Mentre cammino in cerca di un segno, un cartello, un’indicazione che mi riporti sulla retta via inizio a pensare non tanto al film quanto al suo titolo.
La cosa mi disturba: è lo stesso identico pensiero che avevo fatto due ore prima mentre cercavo il cinema Mignon e del film non sapevo niente.
“Miss Violence”pensavo “Miss Violence”, la mia fantasia non poteva altro che sussurrarmi occhi a mandorla, nunchaku, tecnologie al potere, armi traslucide e donne Rambo.
Non so perché.
Anzi lo so.
“Lady vendetta”, “Mr. vendetta”, poi?
E’ quel mondo di titoli li. Non ci piove.
Roba di Korea, roba cinese, giapponese, che ne so di Hong Kong magari: le katane di Kitano, i lancia razzi di John Woo, i fotogrammi marmorei di Kim Ki Duk, boh, che ne so, i dandy di Wong Kar-way?
E invece no.
Niente. Niente da fare.
Siamo in Grecia. Siamo in una casa greca e di greci.
Si sta consumando l’undicesimo compleanno della piccola Alkmini.
Una famiglia del ceto medio: due donne, una giovane e una vecchia, una ragazza, un bambino, una bambina e un uomo di mezza età.
E poi la piccola Alkmini, la festeggiata.
Sembra di essere dentro una polaroid di fine anni ’70 e la Polaroid infatti c’è ma siamo ai giorni nostri.
Il problema è che a me la Grecia fa sempre quell’effetto li, lo stesso della Spagna al di fuori di Madrid, Barcellona e Valencia, quella sensazione di trovarmi sempre quattordici anni indietro nel tempo; se poi qualcuno non ci crede provi ad andare a Valladolid.
Ma non è così. E’ colpa dei bege che dipingono la pellicola. E' merito di una sapiente direzione della fotografia.
E poi comunque non è che se la passano benissimo da quelle parti e obbiettivamente manco noi.
Si festeggiano gli undici anni di Alkmini, la più piccola: lei sorride, i cappellini sulle teste, le candeline a forma di undici su una torta carica di zuccheri, musica orrenda, qualche ballo goffo e improvvisato, un’atmosfera inquietante. Mancano solo le trombette.
Fin da subito Avranas non si nasconde e prepara sapientemente il terreno a quel che accadrà: la luce, la scenografia, le facce, i cappellini e le trombette che non ci sono ci portano per mano verso qualcosa che sta per succedere e per rompere la pace di questa scena edulcorata.
La piccola Alkmini è affacciata al balcone sorridente.
Panoramica verticale che dal cielo plana sulla strada davanti al condominio.
Alkmini si è schiantata al suolo.
Grandioso.
In questa prima sequenza si racchiude tutta la maestria della regia di Avranas: il meccanismo della suspance funziona al rallentatore.
Il film stesso è un unico e lungo momento propedeutico a qualcosa che accade nell'azione, sta per accadere, che dovrà accadere e accadrà.
E accade anche quello che non dovrebbe accadere.
Perchè detto così sembrerebbe di parlare di un film prevedibile ma non è così, perchè il film disturba e sorprende pur portando lo spettatore per mano. E il finale è un colpo di scena, anch'esso al rallentatore.
Un film che sarebbe piaciuto a Hitchcock ma anche a Ferreri.
E’ la storia di una famiglia, di una famiglia patriarcale sui generis, nella quale accade di tutto.
Ma proprio di tutto.
E’ la storia di quattro mura.
"Miss Violence" è un film domestico.
Il regista ci porta raramente al di fuori dell’inferno delle quattro pareti e la trovata è tanto saggia quanto scontata: il clima claustrofobico della casa borghese ben funziona nel raccontare la violenza e i segreti che si nascondono dietro un'apparente quiete, sacra e reazionaria.
E’ uno sguardo terrorizzato e che terrorizza quello di Avranas.
Nel suo mondo sembrano non esserci vittime e carnefici ma solo carnefici.
La sua è una visione terribilmente intelligente e attuale, è una visione coraggiosa che ha il merito di donarsi così come lui stesso la percepisce: in modo algido, gelido e sacrosanto.
Siamo tutti colpevoli.
Siamo tutti colpevoli: giovani e vecchi, nonne e bambini.
Nessun’alibi, nessun scampo.
Superba la direzione degli attori.
Superbi gli attori stessi.
Incredibili i due piccoli bambini capaci di sfidarsi in un duello di schiaffi degno dei migliori Butch Cassidy e Billy the kid.
Scenografia padrona in un film sapientemente dipinto dalla Signora Mythilinaiou, che con l’uso dei toni marroni e un’illuminazione appena accennata crea un’atmosfera rarefatta e stantia, vetusta e clericale, che accenna continuamente a quei segreti celati.
Un altro film che mette in discussione l’apparenza, che svela cosa c’è dietro quei mondi orrendi e di plastica, fatti di Polaroid, pasticcini, famiglie che si amano e cuori giganti.
Dietro a quei mondi di trombette.
C’è solo una cosa ancora adesso, dopo che ho visto il film, che continua a tormentarmi: “Miss Violence, Miss Violence”…
Che titolo di merda.
Leone d’Argento a Venezia
Coppa Volpi a Themis Panou, il patriarca
Veniamo alle pagelle:
quattro pallette
quattro stellette
E’un 8 e mezzo per il vecchio Avranas
di Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Recensione dal mio bagno n.2
"La leggenda di Kaspar Hauser"
di Davide Manuli
Sceneggiatura di Davide Manuli
Con: Vincent Gallo, Silvia Calderoni, Elisa Sednaoui, Fabrizio Gifuni, Marco Lampis, Claudia Gerini
Sto camminando in fretta e furia in mezzo a una notte romana.
E’ venerdì sera e la gioia trionfa per le strade di Trastevere.
Che strano essere dall’altra parte della barricata penso, e poi così lucido, di venerdì e a quest’ora, beh ho dato tanto ieri sera mi rispondo.
Per arrivare in via degl’Orti D’Alibert da via Cavour angolo via dei Serpenti impiego circa 23 minuti, infatti sudo, che fastidio, ma allo stesso tempo sono molto fiero della mia prestazione avendo battuto il pronostico del mio iphone di ben 8 minuti.
Il Filmstudio è il tempio del cinema, del cinema vero.
Qui sono cresciuti a suon di film e Gitanes senza filtro i più grandi del cinema italiano e non solo.
Wim Wenders, Godard, Bertolucci, Moretti, Bellocchio, tutto l’underground del cinema italiano e compagnia cantando. Qui erano di casa. Al caldo di quel buio denso e di quella fitta nebbia che con amore Armando Leone nutre ormai da più di quarant’anni.
Entro in sala e sono solo.
La mia mole non mi permette di stare comodo in nessuno dei migliori posti della sala rossa.
Iniziano irrimediabilmente a girarmi i coglioni.
Poi d’un tratto sento una voce, da dietro e in romanesco “Ma scusa mettete qua, e che te frega, l’ultima fila è più larga, tanto ce vedi, questa l’abbiamo fatta per i ragazzoni come te”.
Mi calmo.
E’ Armando, un cineclub con le gambe, il nonno del cinema d’essai, il babbo del Filmstudio, che senza indugio e saltando presentazioni e convenevoli inizia a snocciolarmi storie e aneddoti, trionfi e cadute, come se ci conoscessimo da sempre, ritardando pure di qualche minuto la proiezione del film; e poi chi se ne frega tanto siamo io e lui, ed è lui che stacca i biglietti, accoglie i passanti e fa girare il proiettore.
Non è così.
Arriva una coppia. Lui e lei. Filiformi. Vanno in terza fila. Buio. Inizia il film.
Il caso di Kaspar Hauser è una storia leggendaria dei primi dell’800 che ha girato per le bocche degli intellettuali di mezza mitteleuropa.
“La leggenda di Kaspar Hauser” ne è la personale rilettura di Davide Manuli.
Quella di Davide Manuli è un’Opera Techno.
Kaspar Hauser è un dj e i Vincent Gallo (il vecchio Vincent si sdoppia in due ruoli) sono un pusher e uno sceriffo che nella mia testa e forse anche in quella di Manuli sono un po’ la stessa cosa.
Il film è un’Opera Techno dicevo: il deserto dell’Alta Gallura è lo sfondo sul quale danzano storditi, personaggi surreali e ipnotici, al ritmo del martello di Vitalic, cassa dritta e suoni elettrosintetici, vero e proprio cerimoniere del film, e del rave.
L’operazione di Manuli è senza alcun dubbio coraggiosa, visionaria e disturbante: un film sull’assenza di significato dell’esistenza e forse anche sull’assenza di significato dei film stessi?
Forse sì. Forse no. Poco importa.
Appare inutile scomodare il confronto con il fratello maggiore “Il mistero di Kaspar Hauser” del maestro Werner Herzog: due opere che non c’entrano niente l’una con l’altra, anche se strano a dirsi ne condividono il soggetto.
L’opera di Manuli non è la ricostruzione storica di una vicenda dell’800, bensì una sensibile e originale lettura di un caso che nella sua valenza allegorica e non ha molto da dire ancora ai giorni nostri.
Siamo di fronte a un classico fatto a pezzetti, anche se non si parla di un’opera letteraria bensì di una leggenda.
“Fare a pezzi una leggenda”, detto così sembra quasi una missione. E forse lo è.
Siamo davanti a un’operazione che probabilmente non vedevamo in Italia dai tempi della dipartita di Carmelo Bene, pace all’anima sua, il quale infatti non a caso prima di lasciarci apprezzò a gran voce il primo film di Manuli “Girotondo, giro intorno al mondo”, opera che in comune con “La leggenda di Kaspar Hauser” ha molto di più che una stretta parentela.
Quella di Manuli è una regia lucida e autorevole, consapevole.
Lo sguardo del regista, autore anche della sceneggiatura, ha il pregio di essere riconoscibile e coerente con quello che si sta raccontando: i lunghissimi piani sequenza che incorniciano il nulla dell’alta Gallura e il non-sense della drammaturgia sembrano volerci dire a chiare lettere che la paura per il diverso è soltanto una costruzione priva di senso. L’assenza dei campi e dei controcampi, il bianco e nero sul deserto di Tarek Ben Abdallah, sono tutti elementi che con forza tratteggiano uno stile elgante ed evocativo.
La leggenda originale di Kaspar Hauser racconta la storia di un tizio che il 26 maggio del 1828 fece capolino in una piazza di Norimberga.
Un tizio di 16 anni che non sapeva parlare ma dire solo il suo nome: “Kaspar Hauser”. Che riusciva a vedere al buio ma non poteva cogliere la tridimensionalità dello spazio e che al solo odore dell’alcol e della carne pativa tremendi attacchi di convulsioni.
“Un tipo strano” dicevano negli ambienti della Norimberga bene e infatti dopo esserselo rigirato di salotto in salotto hanno visto bene di farlo fuori.
Peccato.
E’ un film d’autore “La leggenda di Kaspar Hauser”.
Perché?
Perché l’autore s’imprime con forza, se ne leggono le scelte espressive che all’unisono compongono un’unità di senso riconoscibile, fortissima ed originale. Che piaccia o meno.
Il film è parte di una trilogia iniziata nel lontano 1998 con “Girotondo, giro intorno al mondo”, poi proseguita nel 2008 con “Beket” e portata a termine, chissà, oggi con “La leggenda di Kaspar Hauser”.
Una trilogia permeata dall’assenza di significato, dove l’assurdità dell’esistenza e il disorientamento trionfano portando lo spettatore a spasso chissà dove.
La coppia filiforme si è scordata della mia solitaria presenza in ultima fila, ridono, parlano.
Tossisco per finta una volta. Niente. Alla terza si accorgono di me.
Lei si alza e se ne va. Lui rimane. A noi due penso.
Finisce il film.
Armando saluta me e non saluta il filiforme.
Insomma Manuli propone una rilettura della vicenda, personale, sentita e visionaria; la interpreta attualizzandola ma mantenendo la tematica di fondo di questa vecchia storia della Norimberga bene: quella del diverso che disturba la normalità vigente, l’ordine precostituito.
Manuli pone l’accento sulla stupidità del buon senso comune e già questo mi pare grandioso.
Povero Kaspar.
Voglio essere anch’io Kaspar Hauser.
O forse Manuli.
Pallette : 4
Stellette: 4
E’ un 7 all’8 per il vecchio Manuli
di Lorenzo Bechi
Questo il trailer:
E’ venerdì sera e la gioia trionfa per le strade di Trastevere.
Che strano essere dall’altra parte della barricata penso, e poi così lucido, di venerdì e a quest’ora, beh ho dato tanto ieri sera mi rispondo.
Per arrivare in via degl’Orti D’Alibert da via Cavour angolo via dei Serpenti impiego circa 23 minuti, infatti sudo, che fastidio, ma allo stesso tempo sono molto fiero della mia prestazione avendo battuto il pronostico del mio iphone di ben 8 minuti.
Il Filmstudio è il tempio del cinema, del cinema vero.
Qui sono cresciuti a suon di film e Gitanes senza filtro i più grandi del cinema italiano e non solo.
Wim Wenders, Godard, Bertolucci, Moretti, Bellocchio, tutto l’underground del cinema italiano e compagnia cantando. Qui erano di casa. Al caldo di quel buio denso e di quella fitta nebbia che con amore Armando Leone nutre ormai da più di quarant’anni.
Entro in sala e sono solo.
La mia mole non mi permette di stare comodo in nessuno dei migliori posti della sala rossa.
Iniziano irrimediabilmente a girarmi i coglioni.
Poi d’un tratto sento una voce, da dietro e in romanesco “Ma scusa mettete qua, e che te frega, l’ultima fila è più larga, tanto ce vedi, questa l’abbiamo fatta per i ragazzoni come te”.
Mi calmo.
E’ Armando, un cineclub con le gambe, il nonno del cinema d’essai, il babbo del Filmstudio, che senza indugio e saltando presentazioni e convenevoli inizia a snocciolarmi storie e aneddoti, trionfi e cadute, come se ci conoscessimo da sempre, ritardando pure di qualche minuto la proiezione del film; e poi chi se ne frega tanto siamo io e lui, ed è lui che stacca i biglietti, accoglie i passanti e fa girare il proiettore.
Non è così.
Arriva una coppia. Lui e lei. Filiformi. Vanno in terza fila. Buio. Inizia il film.
Il caso di Kaspar Hauser è una storia leggendaria dei primi dell’800 che ha girato per le bocche degli intellettuali di mezza mitteleuropa.
“La leggenda di Kaspar Hauser” ne è la personale rilettura di Davide Manuli.
Quella di Davide Manuli è un’Opera Techno.
Kaspar Hauser è un dj e i Vincent Gallo (il vecchio Vincent si sdoppia in due ruoli) sono un pusher e uno sceriffo che nella mia testa e forse anche in quella di Manuli sono un po’ la stessa cosa.
Il film è un’Opera Techno dicevo: il deserto dell’Alta Gallura è lo sfondo sul quale danzano storditi, personaggi surreali e ipnotici, al ritmo del martello di Vitalic, cassa dritta e suoni elettrosintetici, vero e proprio cerimoniere del film, e del rave.
L’operazione di Manuli è senza alcun dubbio coraggiosa, visionaria e disturbante: un film sull’assenza di significato dell’esistenza e forse anche sull’assenza di significato dei film stessi?
Forse sì. Forse no. Poco importa.
Appare inutile scomodare il confronto con il fratello maggiore “Il mistero di Kaspar Hauser” del maestro Werner Herzog: due opere che non c’entrano niente l’una con l’altra, anche se strano a dirsi ne condividono il soggetto.
L’opera di Manuli non è la ricostruzione storica di una vicenda dell’800, bensì una sensibile e originale lettura di un caso che nella sua valenza allegorica e non ha molto da dire ancora ai giorni nostri.
Siamo di fronte a un classico fatto a pezzetti, anche se non si parla di un’opera letteraria bensì di una leggenda.
“Fare a pezzi una leggenda”, detto così sembra quasi una missione. E forse lo è.
Siamo davanti a un’operazione che probabilmente non vedevamo in Italia dai tempi della dipartita di Carmelo Bene, pace all’anima sua, il quale infatti non a caso prima di lasciarci apprezzò a gran voce il primo film di Manuli “Girotondo, giro intorno al mondo”, opera che in comune con “La leggenda di Kaspar Hauser” ha molto di più che una stretta parentela.
Quella di Manuli è una regia lucida e autorevole, consapevole.
Lo sguardo del regista, autore anche della sceneggiatura, ha il pregio di essere riconoscibile e coerente con quello che si sta raccontando: i lunghissimi piani sequenza che incorniciano il nulla dell’alta Gallura e il non-sense della drammaturgia sembrano volerci dire a chiare lettere che la paura per il diverso è soltanto una costruzione priva di senso. L’assenza dei campi e dei controcampi, il bianco e nero sul deserto di Tarek Ben Abdallah, sono tutti elementi che con forza tratteggiano uno stile elgante ed evocativo.
La leggenda originale di Kaspar Hauser racconta la storia di un tizio che il 26 maggio del 1828 fece capolino in una piazza di Norimberga.
Un tizio di 16 anni che non sapeva parlare ma dire solo il suo nome: “Kaspar Hauser”. Che riusciva a vedere al buio ma non poteva cogliere la tridimensionalità dello spazio e che al solo odore dell’alcol e della carne pativa tremendi attacchi di convulsioni.
“Un tipo strano” dicevano negli ambienti della Norimberga bene e infatti dopo esserselo rigirato di salotto in salotto hanno visto bene di farlo fuori.
Peccato.
E’ un film d’autore “La leggenda di Kaspar Hauser”.
Perché?
Perché l’autore s’imprime con forza, se ne leggono le scelte espressive che all’unisono compongono un’unità di senso riconoscibile, fortissima ed originale. Che piaccia o meno.
Il film è parte di una trilogia iniziata nel lontano 1998 con “Girotondo, giro intorno al mondo”, poi proseguita nel 2008 con “Beket” e portata a termine, chissà, oggi con “La leggenda di Kaspar Hauser”.
Una trilogia permeata dall’assenza di significato, dove l’assurdità dell’esistenza e il disorientamento trionfano portando lo spettatore a spasso chissà dove.
La coppia filiforme si è scordata della mia solitaria presenza in ultima fila, ridono, parlano.
Tossisco per finta una volta. Niente. Alla terza si accorgono di me.
Lei si alza e se ne va. Lui rimane. A noi due penso.
Finisce il film.
Armando saluta me e non saluta il filiforme.
Insomma Manuli propone una rilettura della vicenda, personale, sentita e visionaria; la interpreta attualizzandola ma mantenendo la tematica di fondo di questa vecchia storia della Norimberga bene: quella del diverso che disturba la normalità vigente, l’ordine precostituito.
Manuli pone l’accento sulla stupidità del buon senso comune e già questo mi pare grandioso.
Povero Kaspar.
Voglio essere anch’io Kaspar Hauser.
O forse Manuli.
Pallette : 4
Stellette: 4
E’ un 7 all’8 per il vecchio Manuli
di Lorenzo Bechi
Questo il trailer:
Recensione dal mio bagno n.1
"Venere in pelliccia"
di Roman Polansky
sceneggiatura di Roman Polansky e David Ives
con: Emanuelle Seigner e Mathieu Amalric
Me ne vado a vedere “Venere in pelliccia“, ultima opera del vecchio Polansky in compagnia della mia ragazza Elinor e del mio caro amico Pipe.
Al cinema Principe di Firenze ci sono i bglietti numerati, che cosa assurda penso, infatti noi ce ne freghiamo, onde poi dover far alzare mezzo cinema a un minuto dal fischio d’inizio per tornare mesti mesti ai nostri posti assegnati dal computer con chissà quale strana logica; siamo entrati per primi nel cinema ma il maledetto computer ci ha assegnato dei posti di merda in fila “N”.
Veniamo al film. Il film è bello, a tratti eccezionale: un film realizzato con soli due attori e girato in un’unica location; un film “povero” dunque ma pieno di grazia.
Siamo in un teatro parigino, Thomas (Mathieu Amalric) drammaturgo e regista, è al termine di un’estenuante giornata di audizioni per trovare la Wanda della sua “Venere in pelliccia”, opera che Thomas stesso ha riadattato dal classico del 1870 di Leopold von Sacher-Masoch . Proprio appena Thomas è in procinto di tornarsene a casa “dalla sua dolce metà” ecco arrivare come un ciclone la svitata Wanda (Emmanuelle Seigner) che lo implora di farle un’audizione; non è un caso che il personaggio della Seigner abbia lo stesso nome della protagonista della piece che intende interpretare nel film.
Fin da subito e senza alcun indugio, il film di Polansky entra nel merito della questione e ci svela il suo funzionamento: la vita “reale” e l’opera di Masoch iniziano a fondersi, scambiandosi in una danza dal ritmo vertiginoso, dove le entrate e le uscite dalla finzione sono esse stesse il meccanismo cardine intorno al quale ruota il film.
Da sottolineare oltre le prestazioni superbe dei due interpreti, la dichiarata riflessione del regista sull’opera e su se stesso. Emmanuelle Seigner illuminata da una bellezza splendente e matura, è la moglie di Polansky e Mathieu Amarlic è il sosia con trent’anni di meno del regista polacco.
Il film come già detto è tratto dall’omonima opera di Masoch che insieme al “cugino” de Sade ha dato un nome a tutto quell’immaginario erotico fatto di pellami, frustini, collari e guinzagli, al quale siamo noi tutti, chi più chi meno, segretamente legati.
Ma cosa aggiunge, se aggiunge, la pellicola di Polansky rispetto all’opera di Masoch?
Polansky aggiunge e come se aggiunge. Individua un passaggio ulteriore che si mostra nel farsi stesso del film, “una messa in scena della messa in scena”, un rompicapo dunque ma raccontato con sapiente chiarezza e semplicità.
Se Masoch sembra averci voluto dire nel 1870 che la relazione di coppia è essenzialmente una relazione di potere, Polansky sembra andare oltre e dirci che le relazioni sono sì rapporti di potere ma prima di esserlo sono formalmente una rappresentazione, una recita per dirla male, nella quale gli attori, noi tutti, seguiamo il copione che la vita, l’esperienza e il nostro ego, hanno scritto negli anni.
Mi chiedo se Polansky ci voglia dire tra le altre, tanto per confondere ulteriormente le idee, che è la relazione stessa ad essere un’opera d’arte. Chissà.
Insomma il labile confine che separa la vita reale dalla sua rappresentazione viene ancora una volta messo in discussione e io dal mio bagno mi chiedo semplicemente se di tale confine abbia ancora senso parlare.
Arriviamo dunque al momento per cui ho sempre sognato e per cui credo valga la pena scrivere una recensione:
Quattro pallette
Quattro stellette;
è un bell’8 tondo tondo per il vecchio Polansky.
Lorenzo Bechi
Ecco il trailer:
Al cinema Principe di Firenze ci sono i bglietti numerati, che cosa assurda penso, infatti noi ce ne freghiamo, onde poi dover far alzare mezzo cinema a un minuto dal fischio d’inizio per tornare mesti mesti ai nostri posti assegnati dal computer con chissà quale strana logica; siamo entrati per primi nel cinema ma il maledetto computer ci ha assegnato dei posti di merda in fila “N”.
Veniamo al film. Il film è bello, a tratti eccezionale: un film realizzato con soli due attori e girato in un’unica location; un film “povero” dunque ma pieno di grazia.
Siamo in un teatro parigino, Thomas (Mathieu Amalric) drammaturgo e regista, è al termine di un’estenuante giornata di audizioni per trovare la Wanda della sua “Venere in pelliccia”, opera che Thomas stesso ha riadattato dal classico del 1870 di Leopold von Sacher-Masoch . Proprio appena Thomas è in procinto di tornarsene a casa “dalla sua dolce metà” ecco arrivare come un ciclone la svitata Wanda (Emmanuelle Seigner) che lo implora di farle un’audizione; non è un caso che il personaggio della Seigner abbia lo stesso nome della protagonista della piece che intende interpretare nel film.
Fin da subito e senza alcun indugio, il film di Polansky entra nel merito della questione e ci svela il suo funzionamento: la vita “reale” e l’opera di Masoch iniziano a fondersi, scambiandosi in una danza dal ritmo vertiginoso, dove le entrate e le uscite dalla finzione sono esse stesse il meccanismo cardine intorno al quale ruota il film.
Da sottolineare oltre le prestazioni superbe dei due interpreti, la dichiarata riflessione del regista sull’opera e su se stesso. Emmanuelle Seigner illuminata da una bellezza splendente e matura, è la moglie di Polansky e Mathieu Amarlic è il sosia con trent’anni di meno del regista polacco.
Il film come già detto è tratto dall’omonima opera di Masoch che insieme al “cugino” de Sade ha dato un nome a tutto quell’immaginario erotico fatto di pellami, frustini, collari e guinzagli, al quale siamo noi tutti, chi più chi meno, segretamente legati.
Ma cosa aggiunge, se aggiunge, la pellicola di Polansky rispetto all’opera di Masoch?
Polansky aggiunge e come se aggiunge. Individua un passaggio ulteriore che si mostra nel farsi stesso del film, “una messa in scena della messa in scena”, un rompicapo dunque ma raccontato con sapiente chiarezza e semplicità.
Se Masoch sembra averci voluto dire nel 1870 che la relazione di coppia è essenzialmente una relazione di potere, Polansky sembra andare oltre e dirci che le relazioni sono sì rapporti di potere ma prima di esserlo sono formalmente una rappresentazione, una recita per dirla male, nella quale gli attori, noi tutti, seguiamo il copione che la vita, l’esperienza e il nostro ego, hanno scritto negli anni.
Mi chiedo se Polansky ci voglia dire tra le altre, tanto per confondere ulteriormente le idee, che è la relazione stessa ad essere un’opera d’arte. Chissà.
Insomma il labile confine che separa la vita reale dalla sua rappresentazione viene ancora una volta messo in discussione e io dal mio bagno mi chiedo semplicemente se di tale confine abbia ancora senso parlare.
Arriviamo dunque al momento per cui ho sempre sognato e per cui credo valga la pena scrivere una recensione:
Quattro pallette
Quattro stellette;
è un bell’8 tondo tondo per il vecchio Polansky.
Lorenzo Bechi
Ecco il trailer: